“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 24 April 2013 02:00

L'ambiguità del male

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C’è una memoria persistente che non si placa mai; c’è una memoria persistente che getta inesausta il suo scandaglio su fasi della storia che progressivamente s’allontanano nel tempo, ma che non per questo cessano di esercitare un desiderio di approfondirne i meandri ed i risvolti psicologicamente – oltreché materialmente – rilevanti che ne hanno sotteso lo svolgersi. C’è una memoria persistente che s’accosta al nazismo, alla figura di Adolf Hitler e all’intero immaginario di un popolo – quello tedesco – e di un’epoca – quella del Terzo Reich – cercando di indagarne le dinamiche interiori.

Non si vuole, qui, abborracciare un breve saggio antropologico sulla Germania nazista, né impegolarsi in capziose dissertazioni di pertinenza della filosofia della storia; si vuole, qui, parlare di teatro e di come il teatro, dal proprio cono di luce e penombra, ha offerto una visione del Terzo Reich assumendo un punto di vista interno al Terzo Reich.
A condurre l’operazione, Mariella Soldo e la compagnia Notterrante; si va in scena il venti di aprile, casualmente giorno in cui in un sobborgo di Linz, nel 1889, venne al mondo Adolf Hitler.
Sulla scena un orologio oscilla, mentre una donna di spalle, in tedesco fa la conta sulle dita dei propri amanti, tenendo a precisare che non si tratta dell’enumerazione degli ebrei morti. Chi è costei? Puttana per vocazione, ufficiale nazista per superiore deliberazione, è la protagonista della pièce: è l’Inufficiale, ovvero una donna che già nel titolo e nel grado porta impresso un marchio d’incompiutezza incongrua.
Attraverso il suo personaggio, il teatro si fa interprete di un dissidio, di una distanza; quel dissidio e quella distanza che intercorrono tra storia universale e storia personale. Colei che gestisce sulla scena, con alle spalle un muro grigio che reca impressa la data 1933 a mo’ di contestualizzazione temporale, è lì a rappresentare dramma esemplare: condotta per mano da una regia occulta, che dalle feritoie che s’aprono nel muro di fondo la guida fra sibili striduli e le porge oggetti da indossare (un berretto militare, un guanto rosso) e libri da cui estrarre passi da recitare (da L’istruttoria di Weiss a Morgue di Gottfried Benn) o anche solo simbolicamente da mostrare (il Mein Kampf), la donna condensa il sentire d’un popolo irreggimentato; il fischio acuto che proviene da dietro al muro le suggerisce pause e cesure, sulla scena lei (Francesca Montanaro) dà vita a figura singolare che pare estranea alla sua stessa vita: “Molti hanno agito per dovere, io perché non avevo di meglio da fare”, giunge ad asserire con nichilismo spiazzante, a sintetizzare il suo servizio nelle SS. E così in lei, nelle sue parole, nella sua voce, rivivono e riecheggiano le parole e le voci di coloro che furono chiamati a rendere conto delle efferatezze inferte al tempo della guerra, dell’accanimento disumano verso l’ebreo e il deforme, raccontati con la tragica normalità degli atti processuali, mentre alla voce fa da sottofondo il ticchettare di una macchina da scrivere che ne compulsa documentazione scritta. Sovviene alla mente il racconto di Renzo Rosso Breve viaggio nel cuore della Germania (contenuto nel libro L’adescamento, Einaudi, 1959), nella descrizione di quell’abisso che pare intercorrere fra l’aguzzino bieco e truculento che prestava servizio con sadismo non privo di compiacimento nei campi di concentramento ed il buon padre di famiglia che questi è diventato nel dopoguerra della ricostruzione, pacifico lavoratore, dedito alla cura del giardino di casa. Come con eccellenza narrativa Renzo Rosso racconta il sottile gioco psicologico e un segmento d'antropologia tedesca, così Mariella Soldo tenta di restituire in scena, sia pur con sfumature più iperboliche, il dissidio dell’anima avvolta nel sonno della ragione, obnubilata da un’inconsapevolezza quasi ipnotica e la successiva acquisizione di coscienza del male da parte d'un esemplare di quello stesso popolo.
Quel che ne scaturisce è il tentativo di mettere in luce il rapporto schizofrenico e desultorio fra la storia universale e la dimensione privata e particolare dell’individuo. Una regia, quella di Mariella Soldo, che tenta la strada dell’espressionismo cercando di rimaner misurata, ma le cui scelte paiono non giungere a pieno compimento sulla scena, lasciando dietro di sé una scia di frammentarietà che non corona del tutto spunti pur interessanti.
La vicenda contraddittoria ed ambigua de L’Inufficiale sembra patire d’un senso di sospensione, che poi se vogliamo è la stessa sospensione intrinseca della protagonista, in bilico fra la propria adesione quasi inerziale al nazismo ed il ravvedimento tardivo difronte al sentimento autentico provato per la bellezza imperfetta di un’amica francese, allorquando realizza che “a morire non sono gli ebrei, ma la vita di ognuno di noi”.
Vergando a chiare lettere un numero sul proprio braccio, l’Inufficiale tenta l’estremo atto di redenzione: muore l’ufficiale delle SS, rinasce la puttana, ma appare incapace di darsi la morte, di ammazzare il corpo d’un’anima già morta e che esanime cade fra le braccia della propria coscienza che compare in scena nelle sembianze di un mimo.
Fra luci ed ombre, L’Inufficiale lascia una sensazione che somiglia al chiaroscuro, suggerendo l’immagine d’un fiore a cui non è riuscito del tutto di sbocciare.

 

 

 

L'Inufficiale
regia, drammaturgia e allestimento
Mariella Soldo
con Francesca Montanaro, Barbara De Palma
produzione Notterrante 2013
con il sostegno di Teatro Osservatorio di Bari
scenografie
Carmela de Dato Melarts
foto di scena Paola Manfredi
lingua
italiano
durata 50'
Torre Annunziata (NA), Sala Nevia - diffusioneteatro, 20 aprile 2013
in scena 20 aprile 2013 (data unica)

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