“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 29 December 2018 00:00

Precarietà e migrazioni di oggi, di sempre

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La stagione di Sala Ichòs dà la possibilità quest’anno di osservare e analizzare i lavori delle compagnie in cartellone offrendo per ciascun gruppo teatrale la possibilità di una duplice visione: un modo per ampliare e distendere lo sguardo su ciò che appare sulla scena, strappandolo alla fugacità della visione singola e estemporanea e anzi consentendo di dilatare e approfondire la conoscenza delle poetiche delle singole compagnie teatrali, a cui si può in tal modo guardare con maggior cognizione di causa.

Avviene così anche per La Confraternita del Chianti, che avevamo incrociato poco meno di un anno fa proprio sulle tavole di Sala Ichòs, dove era andato in scena Esodo pentateuco #2, ovvero il secondo capitolo di un percorso che seguiva una traccia biblica per raccontare una visione del mondo che sembra riprodurre dinamiche che si ripetono consuete con ciclicità epocale. Ritroviamo la stessa compagnia nel medesimo spazio teatrale con altri due capitoli del Pentateuco, con sequenza cronologica sfalsata: avevamo cominciato con Esodo, che come nella tassonomia biblica era il secondo “libro” di questa storia, li ritroviamo a inscenare Genesi pentateuco #1 e Levitico pentateuco #3, rispettivamente primo e terzo libro del Pentateuco stesso e del ciclo teatrale che la compagnia ne ha desunto. Ed è un percorso, questo della Confraternita del Chianti, che s’incentra su un Pentateuco contemporaneo, fatto di solitudini e migrazioni, di precarietà e concetti senza tempo, per un caso fortuito – o anche no – calati nel nostro tempo. Perché dall’esodo biblico e dall’universalità delle storie e degli apologhi del Vecchio Testamento le ricadute nella realtà del presente hanno l’evidenza sinistra delle lezioni non imparate, delle esperienze non tesaurizzate da un uomo contemporaneo che continua a essere lupo per l’altro uomo.
Così, se l’Esodo interpretato da Diego Runko aveva centrato la propria vicenda sulla saga dell’Istria e sulla storia tormentata in frastaglio di quella terra, materiandola di fatti ed eventi rintracciabili e verificabili, con Genesi e Levitico ci troviamo dinanzi a due rappresentazioni in cui più marcata è la carica simbolica a cui s’ispira la narrazione, andando ad arabescare due vicende che dal particolare traslano all’universale, slegate – rispetto a Esodo – da uno specifico storico e geografico.
Ma c’è comunque un filo comune che, pur nella diversità inventiva e compositiva, lega i tre spettacoli e risiede nel disegno in filigrana che li accomuna, al netto degli specifici linguaggi scenici adoperati. La struttura di ciascun lavoro è monologante, ma ogni monologo si differenzia nella struttura e nella fattura.
Rispetto a Esodo, sia Genesi che Levitico puntano su livelli di evocazione molto ben chiari e netti: Valeria Sara Costantin, protagonista di Genesi affresca su pannelli posti in scena parole di gesso all’apparenza confuse e imperscrutabili, in cui all’italiano si sovrappone l’esperanto. Il valore simbolico della lingua creata da Zamenhof sul finire dell’Ottocento affinché affratellasse e favorisse il dialogo universale fra le culture, appare in tutta la sua evidenza raccontando − con un idioma che era stato creato a tavolino per unire − una storia di spaesamento, di sradicamento, una storia che nasce e finisce nel buio e che ci dice di una donna senza nome, estranea a un mondo che non l’accoglie e che pure porta in grembo il respiro simbolico di un uovo, di una nuova vita. “La Nova” viene definita questa donna, spersonalizzata d’un nome e di un’identità, in un mondo confuso in cui si è ricreata l’incomunicabilità di Babele, in cui la speranza di una lingua che accomuni si disperde e cozza contro il muro di parole ostili, che respingono e non accolgono. Eppure questo corpo di donna che prova a scrivere una storia nuova, che impara sulla scena a confrontarsi con parole non sue, si staglia come portatrice di speranza, come veicolo di futuro e finisce per opporre alla incomunicabilità di lingue confuse l’universalità di parole comuni: sarà madre e in quell’afflato puro che accomuna l’uomo all’uomo, la frontiera si disperde, l'umanità si rigenera.
Analogo e concatenato è il tessuto concettuale di Levitico, che in realtà prende le mosse da un racconto di Jack London (The Mexican) e che nel suo farsi scena assume la forma di un ring, sul quale si andrà a consumare – narrato, evocato, recitato da Marco Pezza – un incontro di boxe epocale, in cui si condensa tutto uno scontro ideologico e di civiltà. C’è una distopia di fondo in questa narrazione, una distopia che sinistramente si avvicina per contingenze e personaggi alla situazione attuale italiana (ma non solo italiana), fatta di intolleranza e di accanimento verso lo straniero, il diverso.
La narrazione però è condotta con un registro che non rinuncia a una chiave ironica e che vede il disfacimento sociale procedere raccontato con una chiave metaforica in cui si immagina una rivolta degli immigrati in un contesto sociopolitico avvelenato dall’uccisione di un Ministro della Difesa.
Marco Pezza dà vita e voce a vari personaggi che compongono la vicenda, una vicenda in cui un evento sportivo atteso si carica di significati ulteriori, un po’ come capitava ciclicamente nel pugilato americano quando si confidava che prima o poi ci potesse essere una “speranza bianca” a contrastare l’egemonia sportiva dei pugili di colore. Sullo sfondo aleggia una rivolta che, se nel riferimento letterario fu quella dei messicani che s’opposero alla dittatura di Porfirio Díaz nel primo Novecento, nella traslazione teatrale diventa quella di un fantomatico esercito di liberazione degli immigrati.
Ma al di là delle differenti ancorché coerenti fatture spettacolari, quello che emerge assistendo ai lavori di La Confraternita del Chianti è in particolar modo la chiave di lettura applicata alla realtà che, incentrandosi su un ragionamento sistemico – la struttura del Pentateuco è in tal senso intuizione felice e fortemente rappresentativa – riesce a raccontare con capacità inventiva e metaforica urgenze che animano e affollano il nostro presente. Lo fanno, i membri della Confraternita, con freschezza del tutto antiretorica, facendo sì che i linguaggi della scena parlino oltre la scena, fungendo da specchio sociale senza che l’immagine rifratta abbia le fattezze di una fotografia, ma di un’istantanea immaginifica.

 

 

 

GENESI pentateuco #1
di 
Chiara Boscaro
drammaturgia e regia Marco Di Stefano
con Valeria Sara Costantin
musiche Lorenzo Brufatto
eseguite e registrate da ensemble da camera Il canto sospeso
scene SCANTINATO AKME
traduzioni in Esperanto Giovanni Daminelli
foto di scena Domenico Semeraro
progetto grafico e visivo Mara Boscaro
progetto La Confraternita del Chianti
produzione Associazione K.
in collaborazione con Teatro Verdi – Teatro del Buratto, Dot Spot Media Productions (Bucarest - Romania)
lingua italiano, esperanto
durata
50’
Napoli, Sala Ichòs, 15 novembre 2018
in scena 15 e 16 novembre 2018


LEVITICO pentateuco #3
da The Mexican
di
Jack London
di Chiara Boscaro, Marco Di Stefano, Marco Pezza
drammaturgia Chiara Boscaro
regia  Marco Di Stefano
con Marco Pezza
voce Francesco Boscaro
musiche Lorenzo Brufatto
assistente alla regia Cristina Campochiaro
foto di scena Federica Lissoni
progetto grafico e visivo Mara Boscaro
progetto La Confraternita del Chianti
produzione Associazione K., Teater Albatross (Gunnarp - Svezia)
in collaborazione con Teatro Verdi – Teatro del Buratto
lingua italiano
durata 50’
Napoli, Sala Ichòs, 18 novembre 2018
in scena 17 e 18 novembre 2018

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