“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 20 February 2018 00:00

Viaggio al termine dell'ideologia: “La grande bellezza”

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“La valenza politica di un film come La grande bellezza risiede in questa sua capacità di costruire un’identificazione dello spettatore con lo scenario immaginario della fantasia ideologica dominante, e di condurlo così verso un’esperienza destabilizzante della sua inconsistenza e del vuoto su cui si articola tutta la struttura significante del potere”.
Guido Mori

 


Sin dalla sua uscita La grande bellezza (2013) di Paolo Sorrentino ha suscitato giudizi netti oscillanti tra una dichiarata ostilità ed una ricezione entusiastica. Secondo Guido Mori, autore del recente saggio Del desiderio e del godimento. Viaggio al termine dell’ideologia ne La grande bellezza di Paolo Sorrentino (Mimesis, 2018) in molti casi è mancata un’approfondita riflessione sui contenuti e sugli interrogativi proposti dal film.

“In un periodo storico in cui si fa continuo riferimento a una forma di società post-ideologica, in cui l’individuo è considerato totalmente libero di autodefinirsi nella propria identità e nel quale anche le nuove teorie del cinema tendono ormai a riconoscere come superate le problematiche riguardanti il cinema come dispositivo ideologico, l’autore de La grande bellezza ci pone ancora di fronte a dei problemi mai completamente risolti: quello del rapporto fra significante e significato, e quello fra soggetto e potere”. Secondo Mori l’intera produzione sorrentiniana ci suggerisce “come, oggi più che mai, lo scontro fra il soggetto e il potere si giochi attorno alla capacità dei significanti di fissare un determinato campo ideologico e con esso la percezione del Sé e della realtà. Il percorso artistico di Sorrentino, è quello di un cinema capace di rimodellarsi continuamente in forme inedite e complesse, per interrogarsi, e interrogarci come spettatori, in modo sempre più profondo sulle ambiguità e le contraddizioni della psiche umana, sui limiti e le possibilità della rappresentazione, sulle responsabilità dell’individuo verso se stesso e verso la società”.
Si tratterebbe di una poetica in cui estetica e stile si intersecano e si sovrappongono alle questioni etiche. “Gli universi narrativi di Sorrentino sembrano infatti scaturire da personaggi e da sguardi presi nella tensione tra l’esca del godimento e l’etica del desiderio, tra le identità perdute e le risoggettivazioni delle stesse, tra l’illusione della realtà e la realtà delle illusioni. Un cinema che, soprattutto se approcciato attraverso gli strumenti della psicanalisi e della critica all’ideologia, può raccontarci molto sui modi in cui esperiamo noi stessi e la realtà contemporanea”.
A partire da queste convinzioni, Mori scandaglia l’opera sorrentiniana facendola costantemente dialogare con le teorie politiche e psicanalitiche di Jacques Lacan e Slavoj Žižek, oltre che con le teorie di analisi del film ispirate ad esse. La lettura proposta dallo studioso prende il via da alcuni suggerimenti tratti dal primo romanzo di Sorrentino, Hanno tutti ragione (2010), in particolare l’insostenibile sensazione di vuoto esistenziale percepita dal cantante Tony Pagoda che tenta, inutilmente, di colmare accumulando vizi e distrazioni che finiscono col far “crollare definitivamente il contesto significante su cui poggiavano la sua identità e il suo desiderio”. L’effetto procurato sul cantante dal comodino su cui si accatastano le cose rimanda ad un analogo effetto suscitato da una scatola di sardine nel giovane Lacan, da cui lo psicanalista francese trae la sua teoria dello sguardo oggetto. “Come la scatola di sardine, il comodino è un oggetto la cui superficie fa macchia nel quadro, emerge come incongruenza nel senso della rappresentazione, sortendo così nel soggetto la sensazione di non essere più la componente attiva nel processo della visione, bensì quella di essere guardato nell’osso della propria esistenza. Un’esperienza che incrina il senso della vita, facendola emergere come superflua, di troppo, scarnificata dai suoi sembianti sociali, come nuda vita”.
Secondo Mori proprio nell’episodio del comodino narrato nel romanzo di Sorrentino si può individuare il medesimo effetto perturbante che coglie gli spettatori del suo cinema. “Quello dell’essere consegnati allo sguardo di un Altro impossibile che ci implica nello spettacolo filmico e ci attrae in prossimità del vuoto destabilizzante che si agita sotto il velo della rappresentazione. Un perturbante che ne La grande bellezza assume dei risvolti politico-ideologici più marcati che altrove. Lo sguardo fantasmatico che La grande bellezza ci spinge ad attraversare è difatti quello su cui l’ideologia tardocapitalista ha costruito e fissato la nostra percezione della società italiana negli ultimi trent’anni. Il percorso compiuto da Jep, e da noi spettatori, nel film, è quello di un viaggio nel cuore della libido fondante la cultura italiana contemporanea, che non ha come meta una presunta realtà nascosta oltre l’illusione, ma la realtà contenuta nell’illusione stessa. In uno scenario sociale in cui l’Immaginario ideologico sembra restituirci costantemente un’immagine trasparente e definita del mondo, La grande bellezza diviene così un invito al non ancora visto e al non ancora compiuto, un invito alla dimensione personale ed etica del desiderio”.
In apertura del saggio Mori ricostruisce alcuni principi basilari del pensiero di Lacan, in particolare sulla composizione e sul funzionamento della topica lacaniana Reale-Simbolico-Immaginario, ricorrendo alla lettura di questa proposta da Žižek. Successivamente il saggio si sofferma sulla condizione postmoderna analizzata da Jean-François Lyotard ripresa da studiosi come David Bordwell e Noël Carroll. (Post Theory: Reconstructing Film Studies, 1996) che accantonano l’approccio psicanalitico al cinema in favore di un modello di indagine che denuncia come la teoria filmica sia stata a lungo basata su uno spettatore ideale e su uno sguardo-oggetto in realtà inesistenti. I nuovi approcci intendono pertanto fare i conti con uno spettatore reale considerato nella sua specificità, determinata da specifiche esperienze personali e modalità di fruizione delle immagini. Dunque, puntualizza Mori, “per la prospettiva adottata anche in questo libro, un film non può essere studiato al di fuori della nostra comprensione, separando così ciò che il testo è per noi – la nostra ricezione di esso (la questione della spettatorialità) – da ciò che il testo è in se stesso. Sebbene nessun film possa ignorare il suo contesto storico di produzione o quello degli spettatori che lo vedranno, è limitante ai fini di un’analisi considerare tali fattori in una relazione esterna e separata al testo filmico. Ciascun film situa infatti al proprio interno le manifestazioni del proprio contesto storico sociale, così come anticipa e prevede le sue condizioni di ricezione, strutturando il proprio spettatore attraverso il modo specifico in cui gli si rivolge e lo indirizza”.
La visione del postmoderno di molti neo lacaniani più che a Lyotard fa riferimento a Fredric Jameson, secondo il quale le forme ideologiche di controllo del potere hanno cambiato forme e campi di azione. “Dietro ai processi sociali di frammentazione e proliferazione di punti di vista apparentemente contrastanti e non correlati fra loro, soggiacerebbe [...] un’ideologia dal carattere totalizzante, quella tardocapitalista”. Jameson vede il postmodernismo come risposta della cultura alla sua colonizzazione da parte della merce. In accordo con tale logica che vede la società contemporanea tutt’altro che post-ideologica, Žižek enfatizza la necessità di riattualizzare una critica all’ideologia capace di superare la classica opposizione fra realtà effettiva e falsa coscienza. “Il livello fondamentale dell’ideologia non risiederebbe in un’illusione che camuffa il reale stato della situazione, ma in una fantasia inconscia che struttura e organizza la realtà sociale. L’ideologia non andrebbe quindi pensata come una maschera che la realtà usa per coprire se stessa, ma come la distorsione costitutiva della realtà stessa. [...] Secondo Žižek, l’illusione ideologica è incarnata e materializzata nell’effettualità del campo sociale, piuttosto che a un livello psicologico”.
Mori ricostruisce come Žižek giunga, rileggendo Lacan, alla definizione di godimento come fattore politico. “Come nel caso dell’inconscio lacaniano, egli ritiene che non possa esserci alcuna posizione soggettiva di enunciazione che non sia da sempre già inscritta in un tessuto ideologico. Ne consegue che anche la perversione o la trasgressione della Legge ufficiale esplicita, sia da sempre iscritta nel discorso del grande Altro. Al fondo di ogni posizione politica si anniderebbe sempre una qualche forma di godimento”.
Secondo Mori nei personaggi messi in scena ne La grande bellezza – ed in film come The Wolf of Wall Street (2013) di Martin Scorsese, The Spring Breakers (2013) di Harmory Korine, Bling Ring (2013) di Sofia Coppola, Le Capital (2012) di Costa-Gavras e Nymphomaniac (2013) di Lars Von Trier – sono individuabili quegli elementi di edonismo, vanità, dissolutezza e assurdità caratteristici della società tardocapitalistica che, seppure presenti in tanti altri film, assumono qui particolari modalità narrative e stilistiche. Se tradizionalmente il cinema di denuncia ha fatto ricorso al registro satirico, in questi recenti film “la presenza dell’ironia sembra invece scindersi da qualsiasi intenzione di minare o denunciare l’argomento trattato. I personaggi di queste opere sono presentati come soggetti pienamente coscienti della propria oscenità e di quella del sistema a cui prendono parte attivamente. Sono soggetti che dimostrano altresì una certa consapevolezza del fatto che i propri atteggiamenti li rendano possibili oggetti di satira. Una possibilità che viene però disinnescata sistematicamente dai personaggi stessi, attraverso il ricorso esplicito proprio a forme di cinismo. In questi film, il ricorso all’ironia e all’autoironia diviene non solo una prerogativa dei protagonisti, ma anche un elemento attraverso il quale essi costruiscono una sorta di complicità con lo spettatore, portandolo a sospendere il giudizio verso le loro azioni. [...] Sin dalla loro prima apparizione i protagonisti ci vengono presentati come materialisti pienamente consapevoli del proprio agire e totalmente immuni ai dubbi morali che il loro comportamento dovrebbe far sorgere. Una connotazione in molti casi riaffermata dai personaggi stessi grazie al ricorso della voce fuori campo. Il distacco (spesso ironico) con cui si rivolgono a se stessi e allo spettatore, piuttosto che fornire una sorta di barriera protettiva, sembra teso a coinvolgere lo spettatore”.
Secondo Mori tutti questi film citati non possono essere letti attraverso la lente dell’ironia e della parodia: in essi abbiamo personaggi privi di introspezione e di profondità psicologica, in essi non ritroviamo incertezze o ingenuità, si tratta di individui consapevoli dei meccanismi ideologici che strutturano la realtà sociale che vivono e che fanno della propria identità una questione di convenienza. “È solo a partire dalla loro apparenza e dal loro agire, in altre parole dalla maschera che scelgono volontariamente di indossare, che possiamo arrivare a tratteggiarne una personalità, e con essa anche i principi ideologici che la sostengono. I film in esame ci spingono verso questo percorso interpretativo enfatizzando costantemente tutte quelle caratteristiche esteriori in grado di connotare superficialmente personaggi e ambienti, al punto da sconfinare spesso nella dimensione dello stereotipo”.
Se di fronte a forme e figure stereotipate, gli spettatori sono da un lato agevolati nella comprensione dei personaggi, al tempo si trovano di fronte a una straniante de-psicologizzazione degli stessi. “In definitiva, la strategia critica di questi film sembra essere quella di portare lo spettatore a un’immersione totale nella fascinazione cinematografica, in modo da trasmettergli il senso di attrazione e angoscia che i personaggi sperimentano nel loro godimento fantasmatico. Una strategia messa in atto soprattutto grazie al continuo confronto con l’emersione dello sguardo come disturbo della visione, come macchia di godimento dell’ordine significante, a cui lo spettatore è sottoposto. Siamo quindi di fronte a un cinema che porta alla luce la sovra presenza e l’eccesso propri della fantasia ideologica, nel tentativo di condurre lo spettatore alla consapevolezza che non c’è nulla di cui godere se non del godimento stesso, della retroazione continua della pulsione nella sua ripetitività senza senso. Lasciandolo così anelante dell’assenza e della mancanza sulle cui basi poggia invece il desiderio”.
Se un film come La dolce vita (1960) di Federico Fellini può essere considerato una rappresentazione cinematografica dell’avvento della società dei consumi in Italia, La grande bellezza di Sorrentino, secondo Mori, si confronta con uno scenario sociale decisamente mutato, la società messa in scena in questo caso è una società contraddistinta dall’incertezza e da identità e legami liquidi. “Una società in cui il principio di piacere, subordinato in epoca moderna al principio di realtà, cioè alle norme stabilite e condivise in nome della civiltà, si innalza a valore sovrano in base al quale ogni altro valore deve essere valutato e la misura con cui la saggezza di ogni norma e decisione sovra-individuale va confrontata. Una mutazione rilevata anche in ambito psicanalitico da Lacan con il riferimento all’evaporazione del Padre. Il passaggio da uno scenario in cui il soggetto si definisce in relazione a Le nom du Père, l’efficacia orientativa e di interdizione delle istituzioni simboliche tradizionali che alimentava il discorso del padrone, a uno in cui il soggetto lo fa con Les non dupes errants (leggibile anche come les noms du père), per cui i rapporti fra l’individuo e la realtà sociale ruotano attorno alle promesse immaginarie di godimento incarnate nella materialità degli oggetti promossi dal discorso del capitalista”. Tutto il cinema di Sorrentino, secondo lo studioso, pare riflettere un’epoca storica in cui si è dissolta la funzione orientativa del Padre ed in cui l’immaginario pare essersi sottratto alla tutela del Simbolico, da ciò deriverebbe quel “senso diffuso di orfanità” − reale  e/o simbolico − rintracciabile in tutta l’opera sorrentiniana.
La trasformazione politica e culturale dell’Italia degli ultimi decenni è, oltre che etica, una trasformazione estetica: l’ideologia tardocapitalista non mira a definire direttamente l’identità e la credenza del soggetto, in questo caso dello spettatore. La televisione degli ultimi decenni ha attirato il soggetto-spettatore in uno sguardo fantasmatico capace di proiettare il grigiore quotidiano al piano fantastico della possibilità. Pertanto, La grande bellezza, pur non mettendo direttamente in scena politici e personalità del mondo televisivo, può essere visto come un film incentrato sulle forme politico-ideologiche contemporanee. “A fronte di una irraffigurabilità pura del potere, resta solo l’indagarne gli effetti pseudo concreti. Se l’ideologia non può più essere identificata in un corpo simbolico, potrà allora essere raffigurata solo, come nel caso de La grande bellezza, nello sguardo immaginario che permea ed orienta la visione dei soggetti”. Politica e televisione sono solo in apparenza assenti dal film di Sorrentino: essi sono in realtà presenti sotto forma di immaginario da essi generato che è l’immaginario dei personaggi che attraversano l’opera.
Mori si sofferma, inoltre, su come nel film di Sorrentino il desiderio nostalgico sia privato del suo supporto fantasmatico, su come “l’attaccamento e il rimpianto del passato, siano una questione che riguarda essenzialmente il suo rapporto dialettico con un presente incapace di rimodellarsi in nuove forme”. L’attrazione verso il bello e l’arte nel film si lega “alla posizione dalla quale queste vengono osservate, quella di una nazione presente illustrata come squallida e in declino, e non a presunti valori intrinsechi di cui sarebbero state portatrici. Tale considerazione è applicabile anche al suo contrario. Lo squallore diviene tale solo in rapporto al bello”. L’immagine dello splendore e dello squallore della Roma del film deriva da una distorsione fantasmatica attraverso cui, ai nostri tempi, viene costruito il senso di realtà.
“Sorrentino non attua alcuna operazione di decostruzione e interpretazione della mitologia ideologica contemporanea che ruota attorno alle feste e ai piaceri della mondanità. Piuttosto orienta lo spettatore in direzione di un’identificazione completa e diretta, quindi non più mediata dal grande Altro simbolico, con la fantasia ideologica che sorregge tale mito”.
Inevitabilmente, trattando i rapporti fra soggetto e godimento, il cinema sorrentiniano tocca anche la sfera della sessualità. Non si tratta, suggerisce Mori, tanto dell’atto sessuale fisico ma, in linea con la tesi lacaniana sull’inesistenza del rapporto sessuale, del risvolto psicologico dei personaggi che ne definisce la personalità. “Il cinema di Sorrentino ci offre una galleria di personaggi presi appunto nei loro tentativi reali e immaginari di rapportarsi a un non-rapporto. In essi risalta un profondo senso di impotenza o di insoddisfazione sessuale, che può essere fatto risalire proprio all’assenza di una cornice fantasmatica che funga da supporto al desiderio”.
La dimensione etica che possiamo ritrovare nel cinema del regista napoletano è quella “dell’atto che, trascendendo la morale e il senso di realtà, porta i personaggi allo scontro totale con l’ordine Simbolico a cui sono subordinati. [...] Paradossalmente, nel caso de La grande bellezza, la fedeltà a un desiderio e la rinuncia al godimento [...] costituiscono un’arma di sovversione del sistema ben più efficace dell’infrazione delle regole. In una società in cui l’impegno etico è ormai considerato sorpassato, un personaggio che decide di farsene carico rappresenta infatti una minaccia maggiore per l’ordine esistente rispetto ad uno che indugia nella trasgressione”.
Nell'analizzare l’ultima parte del film Mori indaga il tema dell’etica del desiderio e della sublimazione artistica. La figura di Jep è quella di un intellettuale privo di preoccupazioni o responsabilità, dedito allo svago e alla mondanità; si tratta per certi versi di un personaggio simbolo delle tendenze politico-culturali proprie della società italiana degli ultimi decenni. “Quella di Jep, rappresenta sotto molti aspetti una situazione ideale a cui molti spettatori, più o meno consapevolmente, potrebbero aspirare. Rinunciando ad assumere una posizione moralizzante rispetto a quanto rappresentato, Sorrentino consente allo spettatore di calarsi pienamente in uno scenario completamente devoto alla logica della fantasia ideologica che struttura la percezione contemporanea della società italiana. Posto di fronte all’esperienza diretta e totalizzante di questa fantasia lo spettatore è però costretto a riconoscerne i limiti e l’inconsistenza. Non solo a livello della trama, dove possiamo constatare come a dispetto delle possibilità materiali, l’esistenza del protagonista si smarrisca progressivamente nell’insoddisfazione e nell’angoscia. Ma soprattutto a livello dell’immagine e del suono, dove al potere attrattivo della virtuosità espressiva messa in campo e alla sua promessa di un’appagante esperienza spettatoriale sensorialmente accresciuta, corrisponde la vertigine di un ipervedere e un ipersentire. Un eccesso di presenza che destabilizza lo spettatore anche fisiologicamente, che gli restituisce l’esperienza insensata del godimento. Sorrentino non si limita quindi ad avvalersi della dimensione fantasmatica del cinema come supplemento al funzionamento ideologico del dispositivo, ma si serve della stessa anche per produrre delle rotture proprio in tale funzionamento, esponendo così lo spettatore a quel nucleo traumatico reale che soggiace alla fantasia. Queste scissioni momentanee nell’identificazione spettatoriale [...] conducono paradossalmente lo spettatore più vicino all’esperienza interiore di Jep di quanto non sarebbe accaduto nel caso di un’identificazione continua e lineare con il personaggio. Di quest’ultimo lo spettatore è infatti costretto a rivivere le medesime sensazioni di annientamento e di perdita del Sé. Attraverso l’emersione del Reale nello sguardo, Sorrentino riesce così a restituire nella fruizione spettatoriale l’ambivalenza costitutiva del godimento, il suo essere al contempo fonte di attrazione ed angoscia, punto di generazione e di fallimento della rappresentazione. La valenza politica di un film come La grande bellezza risiede in questa sua capacità di costruire un’identificazione dello spettatore con lo scenario immaginario della fantasia ideologica dominante, e di condurlo così verso un’esperienza destabilizzante della sua inconsistenza e del vuoto su cui si articola tutta la struttura significante del potere”.
La grande bellezza proietterebbe lo spettatore all’interno dello sguardo fantasmatico proprio dell’ideologia contemporanea che dallo sguardo sulla realtà “tenta di recuperare una dimensione personale e responsabile del desiderio, quella del non ancora visto e del non ancora compiuto, quella della grande bellezza”. Sebbene, come suggerisce lo stesso Jep, si tratti di un mero trucco, non è per questo di scarsa importanza “poiché è l’illusione attraverso cui strutturiamo noi stessi e la nostra intera realtà”.

 

 



Guido Mori
Del desiderio e del godimento. Viaggio al termine dell’ideologia ne La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino
Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2018
pp. 200

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