“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Monday, 19 February 2018 00:00

Fingendo, in ossequio al Potere

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1928, 1929, 1930, 1931...

Bulgakov comincia a scrivere Il Maestro e Margherita nel 1928, quando ha ancora qualche speranza: la pubblicazione di Appunti sui polsini ne ha fatto conoscere il nome, in scena al Teatro d'Arte – dopo rinvii, veti, modifiche, prove, annullamenti, riprese – c'è I giorni del Turbin mentre al Teatro Vachtangov è apparso L'appartamento di Zoja e se Cuore di cane viene considerato “robaccia impubblicabile” e niente si può fare per Le uova fatali c'è la prospettiva concreta che Taírov si occupi de L'isola purpurea, allestendone lo spettacolo al Teatro da Camera. Si sta addensando il buio intorno a Bulgakov, la notte del regime sovietico fa percepire comunque all'autore la sua oscurità imprevedibile, ma una luce ancora passa tra le nubi, lascia intravedere uno spiraglio, qualcosa che scrivo può essere letto, può essere visto: tant'è che si “seppellisce” in casa per comporre La fuga e “un testo teatrale dal nome altisonante” (probabile che sia Guardia bianca); tant'è che programma un viaggio a Parigi; tant'è che – a chi considera L'isola purpurea “un appello alla libertà di stampa” – Bulgakov risponderà con parole che in sé hanno orgoglio, forza, coraggio e che tradiscono l'illusione di una partita ancora aperta, di una vittoria che è ancora possibile: “Lottare contro la censura, di qualunque tipo e sotto qualunque regime, è il mio dovere di scrittore, così come lo sono gli appelli alla libertà di stampa: sono un acceso sostenitore di questa libertà e ritengo che uno scrittore cui venisse in mente di dimostrare che la libertà non gli è necessaria sarebbe come un pesce che dichiara di poter fare a meno dell'acqua”. “Io” rivendica “non ho espresso queste idee a bassa voce, in un angolo. Ho dato loro forma in un pamphlet drammaturgico [L'isola purpurea] e le ho portate su scena”.
Si, Bulgakov ci crede ancora e, d'altronde, perché non dovrebbe? Gor'kij – il leader maximo della letteratura realista – loda “la regia, gli attori e l'autore de I giorni del Turbin” mentre Sviderskij, il potente responsabile della Direzione Centrale per le Questioni di Arte e Letteratura, in merito a La fuga dice che si tratta di un testo “marxista” e “sovietico”, che “risveglia la mente”, “stimola la critica” e “richiama le masse all'analisi e alla discussione”. “La metà di ottobre del 1928 è dunque l'apice della gloria teatrale di Bulgakov” afferma – non a caso – Marietta Čudakova nella biografia che gli dedica.
Bulgakov nel 1928 siede quindi alla scrivania e sulla prima pagina di un quaderno, appena comprato, segna l'anno, poi scrive “Lo zoccolo dell'ingegnere” (il titolo di questo nuovo romanzo che dovrà parlare di Satana, di Mosca e dei suoi abitanti) e compone la prima frase: “All'ora del tramonto, sulla panchina più lontana dei Patriaršie Prudy, apparvero due cittadini”…


Nel 1928 Il Maestro e Margherita è un abbozzo informe, in cui il diavolo si presenta in Russia con l'aspetto di un ingegnere tedesco, in cui si discute di vignette che riguardano Cristo e la fa da padrone un personaggio – tale Fesja – che sarà poi destinato a sparire per sempre; soprattutto: nel 1928 Il Maestro e Margherita è un'opera votata al grottesco, è un quadro crudelmente satirico, una massa di sacro e profano, una composizione alla Hyeronimus Bosch: è la maniera nella quale l'autore prova a fare il ritratto a un contesto sociale e politico degenerato in cui l'ipocrisia cela il vizio e la corruzione avvelena ogni rapporto, in cui la menzogna è lo strumento principale per governare mentre i cittadini sono sempre più ossessionati dal denaro e distratti dallo scandalismo, dai pettegolezzi e dalle luci di insegne “talmente grandi che sembra schiaccino i negozi”. Ma poi cosa accade? Nel 1929 le repliche de I giorni del Turbin vengono interrotte, L'appartamento di Zoja scompare, la messinscena de La fuga è catalogata come un possibile “fenomeno antisovietico” mentre L'isola purpurea viene definita da Stalin “carta straccia, buona per qualche teatro borghese”. Considerato un autore pericoloso perché non allineato ai dettami di Partito (“scriva qualcosa di comunista”, “componga un testo sugli operai o la guerra civile”, “la vuol mettere un po' di propaganda?”, “perché non si converte al bolscevismo?”) Bulgakov viene ingabbiato, costretto all'angolo, messo con le spalle al muro: non può lasciare il Paese; gli editori rifiutano i racconti che scrive mentre i lacerti di romanzo che tenta di pubblicare gli tornano indietro (anche quando li presenta sotto falso nome); nel giro di sei mesi la sua condizione si fa umiliante, offensiva, disperata: “Non me la passo affatto bene” confessa nell'agosto del 1929 al fratello, giacché “i miei testi teatrali sono vietati su tutto il territorio dell'URSS né si trova qualcuno che pubblichi una sola riga dei miei scritti narrativi”: “sono ormai braccato da voci fosche che mi vogliono finito. Me ne starò dunque a Mosca a non scrivere, perché non solo ai miei scritti ma anche al mio nome ormai si guarda con astio”. Poi conclude così: “Caro fratello, non è codardia: a scanso di miracoli la mia fine è solo questione di tempo”. “Di me” dice ancora al fratello nel gennaio 1930, “posso dirti che le mie opere sono tutte defunte così come ogni mio nuovo progetto letterario. Sono condannato al silenzio e, molto probabilmente, alla fame: la mia nave sta affondando, l'acqua ha raggiunto il ponte”; ormai si tratta solo “di affondare con dignità”.
A Bulgakov vengono sequestrati i diari personali, viene negato di continuo il passaporto e chi occupa un posto qualsiasi nell'apparato burocratico risponde col silenzio a ogni sua richiesta di chiarimento mentre dai colleghi non viene né il sostegno pubblico né (fatte rare eccezioni) quello privato: questo medico, che ha fatto della scrittura il suo mestiere, si trova con la dispensa vuota, le tasche sempre più povere, sul capo un Potere che può schiacciarlo quando vuole e d'intorno un branco di iene che attende solo di assaggiarne il cadavere. Lui, tra il 1929 e il 1930, reagisce ancora scrivendo: rimette mano ad alcune novelle, inizia a lavorare a una riduzione teatrale de Le anime morte di Gogol e compone la Cabala dei bigotti ovvero una farsa su Molière che è un capolavoro – a detta di chi ne ascolta il testo – ma che viene bocciata dal Comitato Centrale Repertori; Bulgakov non esiste per il pubblico dunque, nessuno può leggere le sue opere o vederne la riduzione a teatro, eppure in questi stessi anni contro di lui si moltiplicano recensioni negative, stroncature ironiche, attacchi pretestuosi: “I palcoscenici finalmente sono liberi da Bulgakov” si legge su Sera a Mosca, “Abbasso il bulgakovismo!” tuona Mosca operaia, “Questo Bulgakov, socialmente reazionario, è inutile al teatro sovietico” scrive il critico Pinkel su Notizie mentre Majakovskij nel '29 lo annovera alla lettera B del suo Dizionario delle parole morte: “Burocrazia, Bohème, Bisogno di Dio, Bignè, Bulgakov”. 


Sono questi gli anni – sono questi gli eventi – che cambiano Il Maestro e Margherita: dopo averne distrutto le pagine, in una notte disperata, consegnandole al fuoco del camino Bulgakov riprende l'opera, la riscrive a memoria, ne tiene il contenuto preesistente ma ne modifica la struttura, nel 1930 s'inventa la figura del Maestro, nel 1931 fa nascere Margherita, rende la storia di Cristo e Ponzio Pilato un contro-commento dell'amoralità e del peccato moscovita, poi inserisce nella narrazione se stesso, la censura che lo ha colpito, la solitudine che lo attanaglia, il dolore che prova: il  libro diventa uno straordinario romanzo sul rapporto tra la verità e la bugia, tra la scrittura e la politica, tra la libertà e la prigionia, tra la voglia di esistere e l'impossibilità di scrivere, adempiere al proprio compito artistico, alla propria vocazione. Dentro ci finiscono le lettere alle quali non ha mai ricevuto risposta, la tangentopoli burocratica, la toponomastica cittadina, il dispotismo che il Soviet esercita sul quotidiano, i balli delle ambasciate straniere; ci finiscono i teatranti che temono di dar fastidio al regime, i critici che lo hanno stroncato per ordine del Partito, i colleghi che si lodano a vicenda mentre si abbuffano al ristorante del Circolo degli Scrittori; ci finiscono in qualche modo la morte di Majakovskij, “la triste storia” di Mandel'stam (di cui Stalin chiede: “Ma è davvero un Maestro?”), il “caos e non musica” con cui viene mortificato Šostakovič; dentro ci finiscono le notti passate in una casa che è uno scantinato, la lezione di Molière e delle sue beffe al sovrano, l'amore per la terza moglie, la sensazione della fine incombente e la voglia di scrivere nonostante tutto questo: sapendo di non poter comunque pubblicare, di non poter dare a questo romanzo dei lettori (almeno finché egli è in vita), di doversi affidare al tempo, sperando che il tempo – un giorno – riscatti il libro e il suo autore dall'oblio.
Bulgakov lavora a Il Maestro e Margherita fino all'ultimo dei suoi giorni, fino al 1940: vi lavora quando viene assunto al Teatro d'Arte e al Bol'soj – continuando tuttavia a subire dinieghi e censure –, vi lavora mentre vede amici, nemici e colleghi crollare (impoveriti, umiliati, sequestrati, torturati, indotti al suicidio, mandati al confine, spariti nel nulla oppure incarcerati e lasciati tornare a casa a distanza di anni), vi lavora anche quando la vista peggiora e il corpo si ammala; Bulgakov “non abbandona più il suo romanzo”, procedendo “a testa bassa”: “Nottata con Pilato” scrive alla moglie, “sono alla fine del secondo capitolo” le scrive ancora, “sesto capitolo” e “undici capitoli pronti”, “siamo a sedici”, “sto dettando il capitolo ventuno”, “ho di fronte a me 227 pagine dattiloscritte”, “sto dettando il capitolo ventitré”, “stiamo scrivendo il capitolo ventisei”, “non sto bene ma lavoro al capitolo ventotto”.
“Devo finire il romanzo! Ora! Adesso!”.
Devo finirlo, prima che la morte mi colga.

 

E se il libro fosse uno spettacolo teatrale?
Ne Il Maestro e Margherita confluiscono fonti e suggestioni differenti: in opposizione all'asfittico grigiore del realismo Bulgakov compone invece un'opera rigorosa e pantagruelica assieme, che tiene uniti i millenni, (con)fonde gli stili narrativi e che ha in sé gli abbagli del cinema, la dimensionalità ulteriore della pittura, il movimento continuo dei corpi, i ricordi della memorialistica, gli assoli della musica, l'allegria del varietà, l'incisione del silenzio di cui è in grado – all'improvviso – la poesia. Da Čevkin, che nel 1923 dedica un testo teatrale a Gesù (Yeoshua ha-Nozri. La scoperta imparziale della verità) al film Anima morta, che arriva a Mosca nel 1930, e poi lo sguardo epico di Tolstoj, l'assurdo sociale di Gogol, il Faust di Goethe, l'eleganza classica di Puskin, le riflessioni sulla colpa e il delitto di cui fu autore Dostoevskij. E tuttavia – a rileggerlo questo libro – ciò che emerge è soprattutto la sua natura teatrale e d'altronde: Bulgakov scrive per il teatro e in teatro lavora per alcuni anni; mentre compone l'ultima parte de Il Maestro e Margherita mette mano a Romanzo teatrale, La vita del signor Molière, alla riduzione drammaturgica della Fifi di Maupassant, di Guerra e Pace, del Don Chisciotte; inoltre: la “propensione mimetica alla resa scenica dell'esistenza” (Čudakova), lo sfizio che aveva di imitare gli altri riproducendone voce e movenze, la capacità “di improvvisare, aggiungendo ogni volta nuovi dettagli” e l'abilità nello scrivere pagine come se sul quaderno sorgesse un piccolo interno, in cui personaggi immaginari si muovono come fossero attori, sono alla base del suo metodo compositivo.
Non si tratta dunque soltanto di rilevare che il diavolo fa spettacolo di sé in un teatro e che il teatro è il luogo nel quale il maligno raduna mezza città per farsi conoscere, mostrando di cosa è capace: si tratta invece di comprendere che tutto quello che accade ne Il Maestro e Margherita – dialoghi e illusioni, travestimenti e cambi di identità, corse nello spazio e voli celesti, il gran ballo, numeri di magia, il ricordo di un'antica vicenda – non è che un'offerta momentanea, una messa in scena che dura quanto dura lo scorrere delle pagine, tant'è che in conclusione tutto rallenta, degrada, abbassa la voce, svela il suo trucco (mai nascosto del tutto) e poi lentamente scompare così come scompare ogni spettacolo, una volta che si è chiuso o è calato il sipario. Il salone nel quale il diavolo allestisce la sua festa torna un normale appartamento, scolora ogni incendio, le lancette degli orologi – ferme sulla mezzanotte – ricominciano a muoversi; il gatto Behemot perde la sua apparenza di gatto mostrandosi per quello che è (“un giovane smilzo, un demone-paggio, il miglior buffone che sia mai esistito sulla terra”) e anche Azazello “muta il suo volto”: sbiadisce il trucco, mostrando “un viso bianco e freddo”, puntellato da occhi neri nei quali “il leucoma si era rivelato posticcio”.
“Ascolta la quiete” dice a questo punto Margherita al Maestro. Il temporale è passato, finiti sono i giochi di luce e di scena, la nostra recita ormai volge al termine.
Lo spettacolo svanisce, “fra il sabato e la domenica”, e Mosca torna a vivere: quasi come non fosse mai apparso.

 

Osservando la scena
Teatro della Tosse e Balletto Civile, nel mettere in scena Il Maestro e Margherita nell'ambito di una residenza artistico-produttiva triennale e di un focus dedicato alla “parola che danza”, decidono di utilizzare ogni elemento ambientale a disposizione: gli interpreti scrutano, perlustrano, perimetrano poi attraversano la platea realizzando l'interazione diretta col pubblico (è il modo nel quale rende il contenuto del dodicesimo capitolo, La magia nera e il suo svelamento, in cui Satana e i suoi realizzano illusioni coinvolgendo gli abitanti di Mosca); fanno del proscenio il posto del qui e dell'altrove (col sipario che viene richiuso il proscenio diventa la fascia dalla quale gli attori si espongono frontalmente agli spettatori, in cui i personaggi dialogano tra loro quando non agiscono fisicamente, in cui avvengono gli eventi più onirici: il volo di Margherita sulla città, ad esempio, che si fa verbalità amplificata – per questo una vecchia scopa coincide con l'asta del microfono) e utilizzano il resto del palco facendone un rettangolo ricollocativo, nel quale accadono gli eventi della trama (diventa la casa del Maestro, poi una strada, il manicomio, l'appartamento abitato dal diavolo, il salone della festa e Mosca, col suo continuo traffico di abitanti) pur restando sempre e comunque e palesemente un palco: siamo in teatro, questo è uno spettacolo, noi stiamo fingendo al vostro cospetto qualcosa che tra due ore sarà sparito definitivamente.
Ancora.
Viene collocata a destra una pedana circolare, che ogni tanto ruota in senso orario (il tempo che scorre), e che viene usata come assito sull'assito (vi si mimano infatti alcuni momenti mentre vengono raccontati) e come dettaglio ambientale (è partendo da questa pedana, ad esempio, che i dannati accedono al party organizzato da Satana) e – di tanto in tanto – chi ha letto il libro riconosce la ripresa di un assetto, di una composizione, di una condizione fisica collettiva descritta da Bulgakov: così Margherita, ad un punto, siede su un podio miserevole, cimiteriale, costituito da avanzi morti (ossa, una fodera sbiadita, il teschio di un animale), collocato a mezza altezza (è infatti il momento nel quale gli invitati devono baciarle il ginocchio), mentre – di fronte a lei, proprio come Bulgakov prevede nel romanzo – Satana se ne sta sul trono, coi drappi rossi in stile orientale che gli fanno da sfondo, osservandola: “Margherita non si ricordava chi l'avesse aiutata a salire sul podio, apparso in mezzo allo spazio libero della sala. Si accorse solo allora che di fronte al suo podio ne era stato preparato un altro per Woland”. È ponendo in questo modo la donna e il diavolo – sistemati come fossero sui piatti di una bilancia – che Bulgakov (nel libro) e Tosse e Balletto Civile (sul palco) fanno coesistere vita e morte, verità e finzione, l'effimera eleganza di un ballo che appare e che dura una decina di pagine e questo “odore di cripta” che torna ad aleggiare non appena la festa è finita.
Inoltre.
L'utilizzo di ogni spazio possibile ha il corrispettivo compositivo nella fattura multidisciplinare dello spettacolo. D'altronde lo sappiamo: Balletto Civile da anni realizza opere fondendo mestieri, competenze, biografie e discipline e da anni prova a parlare la danza rendendo il corpo lo strumento principale di un discorso che tuttavia è plurilessicale, comprensibile, evidente, in grado di dire all'esperto che ne segue il percorso poetico/coreografico quasi quanto è in grado di dire allo spettatore che per la prima volta siede in una platea. E così mentre le riforme del Ministero, i decreti sul FUS, l'allestimento dei cartelloni annuali, i criteri produttivi e distributivi vigenti, le brochure stampate per i foyer e gli abituali discorsi che facciamo sul teatro separano – definendo i generi come fossero i fascicoli di un archivio – invece questa compagnia prova ad unire aggregando punti di vista sul mondo, modalità creative differenti, urgenze personali e di gruppo, mettendo assieme – foss'anche per un titolo, per qualche data – modi di fare, linguaggi estetici, certezze e incertezze sulla propria arte e su quella altrui.
Ciò avviene anche per Il Maestro e Margherita, che fonde: la drammaturgia, tra citazioni e riscrittura, di Emanuele Conte ed Elisa D'Andrea (basata sulla ripresa di una decina di capitoli, appartenenti soprattutto alla seconda parte del libro); il cortometraggio filmo-pittorico di Paolo Bonfiglio (buono per narrare la vicenda di Pilato e Gesù, fungendo da prologo); la musica live eseguita da Gianluca Pezzino e la danza con la prosa e la poesia, l'illuminotecnica che alterna buio crepuscolo e colori chagalliani, il cinema e la scenografia oltre scena (i sei lampadari primo-novecenteschi che pendono in sala), l'assolo da performer e la coreografia collettiva, allusioni vagamente shakespeariane (la rosa che “non smette di essere una rosa” anche quando gli uomini la chiamano in un altro modo) tra numeri di giocoleria volutamente elementari, fasulli, fallimentari. Così lembi del romanzo rievocano frammenti della vita di Bulgakov (esempio: le tre colonne di giornali che fanno da arredo e dettaglio della casa del Maestro richiamano forse la facilità che Bulgakov aveva nella scrittura, in grado di fargli comporre Romanzo teatrale mentre attendeva, la sera, che la cena fosse pronta; di certo rendono la pluralità di commenti negativi che dovette subire e ch'egli conservò – ne tenne duecentotrenta – come colui che viene picchiato serba sul volto i segni dei colpi che ha preso: “Michail appende alle pareti le stroncature dei giornali” si legge infatti nei diari della moglie) ma la vita di Bulgakov – già trasfigurata nel libro – trova adesso una trasfigurazione ulteriore nello spettacolo diventando una vicenda esemplare: abbiamo infatti un autore teatrale preventivamente zittito (“Il mio Ponzio Pilato non è ancora andato in scena e già viene censurato”), la cui dignità personale e lavorativa viene ridotta e disfatta da un Potere invisibile – ma persistente come nell'aria aleggia il pulviscolo – che gli vieta la concreta possibilità della scena: “In teatro non andrà mai”, “il teatro non è per tutti”, “in teatro non si può dire tutto quello che si vuole”.

La storia d'amore, una salvezza che può essere ormai solo privata, il desiderio di dimenticare e di essere dimenticati, la necessità di un abbraccio, un istinto di vendetta e la voglia (folle) di meritocrazia. E la fedeltà traditrice al romanzo (impossibile da rendere in toto: penso, ad esempio, al gatto, di cui viene sacrificata la comicità), il bisogno di parlare del presente, questi corpi che dicono anche quando non emettono fiato: un incontro improvviso e muto o la dannazione che viene resa ripetendo una sequenza di spasmi e dolori. E ancora.
In un colloquio avuto con Viviana Raciti e pubblicato su Teatro e Critica Emanuele Conte dichiara che questo Il Maestro e Magherita soprattutto “si muove sulle conseguenze della ricerca della verità vera”: è “la verità”, ribadisce, il nucleo più intimo, quella verità sul suo tempo e la sua condizione che Bulgakov stesso comunica attraverso la finzione letteraria, l'artificio narrativo. Tant'è che sul palco la relazione in contrasto tra ciò che è e ciò che appare è continua: i giochi di prestigio, la mutazione a vista degli ambienti, il doubling attorale o il momento nel quale Margherita nega l'amore per il Maestro, confermando la fedeltà a suo marito, e il diavolo le chiede di non dire bugie: “Vedo che non lei ha capito il gioco”.
C'è un altro aspetto tuttavia che m'interessa ed è il rapporto che in scena si determina tra la spettacolarità, illusoria e fine a se stessa, e la ricerca – faticosa, lenta, sofferta, marginale, perdente – del vero accadimento teatrale. Il Maestro di questo Il Maestro e Margherita infatti compare e scompare standosene a lato degli eventi, apparendo solo per qualche istante e per lo più lo contempliamo mentre sta seduto a leggere o è piegato al tavolino, la testa inclinata sui fogli, la mano destra che si muove nello scrivere quasi come fosse un sismografo. Così capita all'inizio, quando lo vediamo intento a scrutare i giornali; così capita alla fine, quando conclude la sua opera prima di accasciarsi al suolo, morire, appartenere ad un aldilà ombratile che coincide col proscenio: il posto nel quale riabbraccia la sua Margherita. Nel mezzo l'incontro con la donna – i fiori gialli e la “bellissima tristezza” di lei, il silenzio impacciato di lui e questo amore “che ci si parò dinanzi come un assassino sbuca fuori da un vicolo”; d'altronde “così colpisce il fulmine, così colpisce un coltello” – e la convivenza, la fuga, l'abbandono e la presunta follia che lo porta in manicomio e che altro non è che la messa ai margini di un contesto culturale e lavorativo abituatosi alle esigenze di regime, a un assolutismo produttivo dominante, che sembra non più scalfibile: mentr'egli se ne sta dunque in una cella (tale è la sua casa, tale è la stanza del manicomio) il pubblico accetta come fosse normale la mortificazione dell'arte, il silenzio imposto a un autore.
C'è un momento nel quale tutto questo mi sembra evidente: Satana e i suoi nell'allestire la performance con cui di fatto inizia Il Maestro e Margherita colmano il palco di invenzioni, di comparse, di giochi mal riusciti – facile battutismo, una breve coreografia, passi di danza a due, ripetuti spari di pistola, una testa servita su un carrello, sghignazzi, una ballerina impiegata in un esercizio acrobatico: “L'abbiamo scaldato questo pubblico?”, “Sarà una serata semplice” – e questo avviene assieme al numero più importante ed atteso: la trasformazione di questo stesso sfoggio artistico in soldi (finti) che cadono come una pioggia leggera, primaverile. Così – dopo un coro di stampo brechtiano (“soldi, quattrini, euro, banconote” / “denari, cartamoneta, pago cash”) che allude anche alla nostra corruzione dei costumi – centinaia di euro in fac-simile raggiungono la platea, adagiandosi sugli spettatori: l'immagine rievoca ciò che accade nel libro, certo, ma mi sembra anche che in qualche modo dica di questo presente nel quale il teatro – meglio: la teatralità – è ridotta a rispondere (si adegua a rispondere) sempre più alle sole logiche di mercato e ai criteri quantitativi da decreto ministeriale, tra induzione al debito e lievitazione dei costi dichiarati, necessaria riduzione dell'innovazione creativa e del rischio artistico e calcolata vendibilità del prodotto da allestire, promuovere e spacciare a una platea potenziale ed effettiva di acquirenti, a sua volta abituatasi al puro commercio dello show. Da un lato – altrove – dunque c'è un autore intento a un capolavoro che noi non vedremo mai mentre dall'altro – ossia qui, adesso – assistiamo all'ennesima riduzione del fatto teatrale in un varietà che distrae, intrattiene, ci riempie solo gli occhi. Questo Satana – con l'ausilio della sua compagnia di giro: un cumulo di teatranti dal volto incipriato, simili ai “pagliacci da circo”, agli attori di piazza, agli “ultimi ciarlatani da palco” per citare il romanzo –  smaschera quindi la nostra avvenente assuefazione a una spettacolarità la cui fattura non dipende più da un'ideologia partitica (come avveniva nella Mosca di Bulgakov) ma dal trionfo dell'affarismo economico, finanziario e consumistico applicato al palcoscenico. Così il direttore del Varietà ci annuncia un titolo di cui non sa nulla, composto da materiali in cui non crede – bofonchia qualcosa, tossisce, ha quasi un conato di vomito – così come alcuni direttori dei teatri nostrani continuano ad allestire stagioni, anno dopo anno, imponendoci spettacoli che non hanno veduto, di cui non conoscono la fattura, che hanno scelto per logiche di scambio e sulla cui qualità non possono quindi giurare; comparse affollano il palco – come capita in certe mega-produzioni buone solo per mettere a bilancio l'aumento delle giornate lavorative o recitate – mentre gli effetti in scena si moltiplicano perché in cambio del biglietto che abbiamo pagato ci sia dato qualche abbaglio, un'illusione inicidente, qualche gioco di prestigio organizzato a caro costo.
Intanto un Maestro – che sta scrivendo un'opera con la quale sarebbe davvero in grado di parlarci, dicendoci qualcosa sul tempo e sul contesto in cui viviamo – continua a giacere nel silenzio, umiliato e offeso: così il teatro rinuncia (sta rinunciando) sempre più al teatro.

 

Infine. Il sentimento della vergogna (nascosto nel libro, assente nello spettacolo)
Nel pomeriggio del 18 aprile 1930 in casa Bulgakov suona il telefono: risponde la moglie che poi corre a svegliare il marito, che riposa. Lo scrittore si alza, il volto ancora sgualcito dal sonno, giunge in corridoio (un piede è nudo, l'altro è riuscito a infilarlo in una pantofola), afferra la cornetta e sente una voce che gli dice: “Michail Afanas'evič Bulgakov? Bene, le passo il compagno Stalin”. Stalin e Bulgakov parlano per pochi minuti: il dittatore e il censurato sono l'uno al cospetto dell'altro, dunque, anche se solo tramite un apparecchio telefonico. È questo il momento che Bulgakov non dimenticherà più, che “lascia un segno profondo nella memoria” e che tornerà quindi quasi ogni giorno come fosse un incubo, facendosi poi tarlo, malanno e avvelenamento dell'anima: oppositore intransigente, fiero difensore della sua libertà e della sua dignità, Bulgakov – quest'uomo “dall'enorme talento”, che “avrebbe potuto avere un'esistenza facilissima”, “conquistandosi il riconoscimento generale” e “godendo di tutti i beni materiali” e che invece lotta strenuamente proteggendo ogni parola che ha scritto – in quest'occasione si ammorbidisce, si fa cedevole, compiacente, umile, partecipativo, più complice, offrendo la gola al suo aguzzino: “Dove vuole lavorare, al Teatro d'Arte? Lei presenti una domanda, vedrà che gliel'accetteranno”.
Verrà assunto pochi mesi dopo.
Non se lo perdonerà.
Bulgakov non si perdonerà di essersi posto nella condizione di supplice, di dipendente, di servente accomodato, di raccomandato che accetta per sopravvivere, fosse solo per risultare quest'anno in stagione, in rassegna, al festival, per tornare ancora una volta sulla scena: “La crudeltà del Potere” dirà a sua moglie un giorno “si basa sulla mansuetudine dell'artista”.
Per questo ne Il Maestro e Margherita a un punto il diavolo consiglia alla donna “non chieda mai nulla a nessuno! Mai nulla a nessuno e tanto meno a quelli che sono più forti di lei”; per questo (forse) il Maestro, pur meritando il riposo eterno, non merita la luce e dunque il Paradiso; per questo soprattutto egli non può terminare il suo libro e il compito di scrivere la verità finale su Pilato e Gesù viene delegato a un poeta che abita anch'egli il manicomio e che, abbandonata la scrittura di brutti versi da regime, si impegna nel completare l'opera.
Ecco. C'è in tutto ciò la tragedia dell'umiliazione e della vergogna vissuta da Bulgakov, una tragedia intima, personale, nascondibile a chiunque tranne che a se stesso; una tragedia che gli urla dentro senza mai farsi sentire, che lo dilania fisicamente, gli affolla la mente, lo inchioda al senso di colpa: sarà per lui un tormento più della fame, della povertà, delle recensioni cattive e della perdita degli amici, del giudizio crudele dei colleghi, dell'immeritato successo altrui.
Ebbene. Nello spettacolo di Balletto Civile il Maestro e il poeta invece coincidono – è lui che pone termine al suo stesso testo, a ritmo frenetico, su richiesta del diavolo – per cui sparisce questo dolore umanissimo, questa fragilità su cui si basa la (sua e la) nostra condanna, questo senso di sconfitta e, con esso, sparisce qualcosa che ci riguarda tutti poiché dice della propensione che abbiamo a mangiare nel piatto nel quale fino a ieri sputavamo, cedendo talvolta al compromesso, rinunciando alla coerenza, rendendoci così – fosse anche per un grammo – complici del sistema che criticavamo finché ne eravamo esclusi. “Si sono accorti di te e avrai ciò che hai meritato” direbbe Satana. Così ci illudiamo di avercela fatta, di esserci riusciti, di essere anche noi seduti dalla parte dei vincenti, di coloro che valgono, di quelli che esistono. Finché, svegliandoci una mattina, ci renderemo conto che siamo stati sostituiti, scartati, rimossi.
Che a coloro che decidono non serviamo più.

 

 

 




La parola che danza al Teatro della Tosse

Il Maestro e Margherita
liberamente ispirato a Il Maestro e Margherita
di
Michail Bulgakov
regia Emanuele Conte, Michela Lucenti
testo Emanuele Conti, Elisa D'Andrea
coreografie Michela Lucenti
con Michela Lucenti, Andreapietro Anselmi, Pietro Fabbri, Maurizio Camilli, Gianluca Pezzino, Emanuela Serra, Stefano Pettenella
e con Fabio Bergaglio, Marianna Moccia, Alessandro Pallecchi, Paolo Rossini, Natalia Vallebona
assistenti alla regia Alessio Aronne, Ambra Chiarello
impianto scenico Emanuele Conte
costumi Chiara Defant
luci Andrea Torazza
musiche Tiziano Scali, FiloQ
pianoforte Gianluca Pezzino
animazioni video Paolo Bonfiglio
produzione Teatro della Tosse, Balletto Civile
foto di scena Donato Acquaro
lingua italiano
durata 1h 40'
Genova, Teatro della Tosse, 4 febbraio 2018
in scena dal 4 all'11 febbraio 2018

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