“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 23 January 2018 00:00

Aemilia, Dickens e questa luce, tra le tenebre

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Aemilia, terra di mafia
“Le ndrine hanno colonizzato Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e registriamo infiltrazioni da queste regioni anche nel Veneto”. Le parole sono del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti e fanno parte dell'incipit di un volume leggibile online: è scritto da due giornalisti (Gaetano Alessi e Massimo Manzoli), è intitolato Tra la via Aemilia e il West e per sottotitolo recita Storie di mafie, convivenze e malaffare.

L'inizio del loro dossier è dedicato alla 'ndrangheta: “A differenza delle altre organizzazioni, che ricavano parte consistente” della propria ricchezza “nella regione di origine, gli utili della 'ndrangheta provengono dalla Calabria solo per il 23%, dal Piemonte per il 21% e dalla Lombardia per il 16%” dove fa affari – oltre che a Milano – anche “a Como, Brescia, Bergamo, Mantova e Cremona”. La 'ndrangheta fa affari nel Lazio, in Veneto, in Liguria e nella Bassa padana come dimostra l'inchiesta Aemilia che nel 2015 sconvolge “la ridente Emilia Romagna” con gli arresti e il rinvio a giudizio di “duecentotrentanove imputati, quasi tutti legati a una sola cosca, quella di Cutro, e al suo leader Nicolino Grande Anacri”. Duecentotrentanove imputati (ci trovate di tutto: gli ex calciatori e gli imprenditori col Rolex, i sindaci, gli assessori, i giornalisti, i faccendieri, i commercianti, i prestanome, i killer) per oltre duecento capi d'accusa (tra gli altri: estorsione, usura, detenzione illegale di armi, intestazione fittizia di beni e riciclaggio, emissione di fatture false, aggressioni, reimpiego di capitali dalla provenienza illecita). Il processo – “un intervento storico” lo definisce Franco Roberti – è talmente grande che le aule giudiziarie sono inadeguate ed è necessaria la Fiera di Bologna che viene cinta da “diversi cordoni di controllo” e alla quale è impedito l'accesso a chiunque, fatta eccezione per gli avvocati che si presentano con la nomina in mano. Aemilia dimostra, per dirla ancora con Franco Roberti, che la 'ndrangheta è “un'organizzazione criminale monolitica e moderna”, che “cura i rapporti con l'informazione e il tessuto sociale” e che “ha una visione politica del radicamento”, unita a una capacità di acquisizione, selezione e controllo “prettamente imprenditoriale”.
La 'ndrangheta dunque è di casa in Emilia Romagna. La 'ndrangheta e non solo.
“Prendete questo numero: duecentotrentanove” – scrivono infatti Alessi e Manzoli, riferendosi agli imputati di Aemilia – “moltiplicatelo per le altre ramificazioni criminali presenti in regione (cosa nostra, camorra, sacra corona unita) ed elevatelo alle sette mafie straniere presenti (nordafricana, nigeriana, cinese, sudamericana, rumena, ucraina e albanese) ed eccovi l'equazione che porta il procuratore Roberto Pennisi” a dire che “l'Emilia Romagna è terra di mafia”. E d'altronde. Osservo una mappa dedicata alle “famiglie” criminali in regione, pubblicata a corredo di un articolo de La Repubblica: i Casalesi (Bidognetti, Schiavone, Zagaria, Iovine, Diana, Landolfo) sono a Parma, Modena, Reggio Emilia, Rimini, Forlì, Cesena e Ferrara; i mandamenti mafiosi di Castelvetrano, Mazara e Trapani dominano a Modena; i Moccia, i Mallardo, i Lo Russo, i D'Alessandro/Di Martino (camorra) stanno a Bologna; la 'ndrangheta (di Cutro o di altre 'ndrine) è a Piacenza, Parma, Modena, Bologna, Reggio Emilia, Ravenna, Ferrara e – leggo ai margini della mappa – “in tutta l'Emilia Romagna” si svolge la faida tra i Nirta/Strangio e i Pelle/Vottari. Le mafie hanno gestito parte del post-terremoto, la ricostruzione della Pinacoteca Nazionale di Bologna e, sempre a Bologna, il progetto di ristrutturazione di Piazza Maggiore; ancora: l'amministrazione della discarica di Poiatica nel comune di Carpineti, la realizzazione di un sottopasso a Casalecchio del Reno, l'edificazione di alloggi e autorimesse a Budrio e Forlì e di nuove case popolari a Bologna, Modena e Reggio Emilia; le mafie sono arrivate a gestire i servizi a terra dell'aereoporto di Bologna (contratti pubblici con fatturazioni da dieci milioni di euro) prima che “una rivolta dei lavoratori facesse saltare il meccanismo”. Ci sono le mafie dietro il cambio di corso che ha subito il Po a furia di scavi notturni; le mafie gestiscono parte degli investimenti diretti alle energie rinnovabili e ai grandi appalti industriali, acquistano e smerciano terreni, investono rilevando attività che hanno contribuito a mandare in rovina, dal porto di Ravenna fanno partire armi verso la Somalia, collocano in strada droga e prostituzione e “la DIA ha evidenziato che non c'è provincia o zona della regione che non sia contaminata dal nesso indicibile tra gioco d'azzardo, indebitamento e successiva estorsione”; le mafie si infilano nel tessuto imprenditoriale inquinandolo. Un esempio: nel 2013 2.599 aziende emiliane di trasporto su 9.083 (il 30%) non possiede alcun mezzo di locomozione, “neanche una bicicletta” scrivono Alessi e Manzoli: alcune “sono ditte fantasma” – dichiara Franco Zavatti della CGIL di Modena – “attraverso le quali la malavita fa il pieno di infiltrazioni nei cantieri. Entra ed esce, controlla il territorio, la manodopera, minaccia chi lavora onestamente e la butta fuori dal mercato”. L'Emilia Romagna è la quinta regione in Italia per “segnalazione di casi di riciclaggio”, la quarta per beni sequestrati e confiscati ed è al primo posto, tra quelle del Nord, per intimidazioni nei confronti degli eletti negli Enti; l'Emilia Romagna “è leader in Italia per lavoro nero e la seconda sul fronte degli irregolari” e da queste parti i reati di strozzo, in due anni, sono aumentati del 219%.
Eppure.
Latitano le denunce – il magistrato Lucia Musti dichiara infatti che “le intimidazioni denunciate sono pochissime” e che “quello che abbiamo lo abbiamo trovato grazie alle intercettazioni” – e predomina la negazione pubblica del fenomeno mentre aumenta l'arrendevolezza, la sopportazione, la compiacenza: il 19,2% delle attività terziarie italiane interessate dal racket dell'usura, ad esempio, è in Emilia Romagna ma la politica non se ne occupa e i commercianti scelgono spesso il silenzio o vi sono costretti, diventando dipendenti dei loro carnefici. A rompere l'ipocrisia nega-riduzionista e l'omertà collettiva ci pensa qualche sindaco o qualche assessore, gruppi di lavoratori, associazioni culturali, certi giornalisti (talora finendo sotto scorta: è il caso di Giovanni Tizian) mentre a Brescello – cittadina di 5.600 abitanti – c'è un vigile urbano.

 


La storia di un vigile urbano
A Brescello, racconta Antonio Roccuzzo su Il Fatto Quotidiano, non c'è un corrispondente e così un fotografo, Ermes Lasagna, segnala alla Gazzetta di Reggio “uno in gamba, che fa il vigile urbano ma che vuole fare il cronista, che ha letto tutti i libri di Don Camillo e Peppone e che è una scheggia”: si chiama Donato Ungaro. Viene convocato in redazione e gli offrono la possibilità di scrivere. Ungaro si fa autorizzare dal sindaco e accetta la proposta: “Quattro euro a pezzo”; lui ne è felice “come se fosse stato assunto al Corriere della Sera”. Donato Ungaro il lavoro di giornalista – cioè informare – lo svolge sul serio: denuncia casi di abusivismo edilizio, svela di macchine bruciate con l'acido, rivela il traffico di droga che avviene in provincia, poi filma le escavazioni illegali che un'azienda (la Bacchi) compie sul Po: si costruisce tanto, infatti, e serve sabbia di continuo. Infine “porta in redazione un'altra bella storia: un misterioso progetto di centrale a turbogas, da smontare in Portogallo e rimontare sul fiume”; una storia di terre pagate oltre il loro effettivo valore, di avvelenamento delle falde acquifere e di aumento vertiginoso dei casi di leucemia sulla Cisa, la strada che da Sarzana porta a Verona passando per Brescello; una storia di capitali dalla provenienza oscura, di grandi aziende (l'Ansaldo) interessate alla costruzione, di incontri tra faccendieri, 'ndranghetisti e politica locale e di delibere che d'improvviso mutano i suoli agricoli in zone edificabili. Succede quindi che l'allora sindaco di Brescello (Ermes Coffrini, DS) lo convochi, gli chieda di tacere e – ottenuto il rifiuto del vigile/cronista – lo licenzi. Il resto è un'attesa di giustizia lunga quanto è lungo quasi ogni processo in Italia e durante la quale Ungaro è costretto a emigrare: nessuna testata giornalistica che intanto pensi di assumerlo mentre i suoi ex-colleghi gli tolgono pure il saluto. “Ma chi te lo ha fatto fare?” gli chiedono di continuo.


A Marco Martinelli “la vicenda esemplare del vigile di Brescello” gliela racconta Massimo Manzoli ovvero uno degli autori di Tra la via Aemilia e il West: lo leggo nella cartellina che accompagna la messa in scena di Va Pensiero. Martinelli se ne appassiona tanto da farne l'argomento di Saluti da Brescello, un atto unico con il quale prende parte a Ritratto di una Nazione, il progetto con cui Antonio Calbi e Fabrizio Arcuri chiedono a drammaturghi, registi e attori di diversa provenienza di “aprire squarci sulla propria regione” raccontando fatti “più o meno conosciuti” così da creare un ritratto collettivo dell'Italia presente. In Saluti da Brescello a parlare di Donato Ungaro sono le statue di Don Camillo e Peppone che, dal 2001, sono poste in piazza Matteotti, nel centro del paese. Avanzano dunque le statue in proscenio e, dopo aver battibeccato tra loro, si rivolgono agli spettatori facendo nomi e cognomi e mettendo in ordine ogni circostanza: “Ungaro, o la smetti di scrivere o ti licenzio”; “Ma cosa ho fatto di male?”.
Ma a Martinelli lo scorcio biografico non basta: l'eccezionalità tragica costituita da Donato Ungaro (un uomo che compie il proprio dovere di vigile urbano e di giornalista pagandone le conseguenze) necessita di essere collocata in un affresco più ampio, le sue gesta vanno contestualizzate perché fungano da torcia che illumina il buio, rendendolo a tutti visibile. Così Martinelli comincia ad accumulare materiali: parla con magistrati e giornalisti; da amici, conoscenti e colleghi si fa raccontare dell'Aspromonte e della Calabria; legge molti libri: 'Ndrangheta padana di Ciconte, ad esempio, e Gotica di Tizian, La malapianta di Gratteri e Operazione Aemilia di Sabrina Pignedoli: una “giornalista coraggiosa”, leggo, “minacciata da un poliziotto” che lavorava come “ufficio stampa della Questura reggiana” e che è stato “condannato, in primo grado, a otto anni e mezzo”. Poi, da questo caos – cioè da questo “magma” composto dalla “ricchezza dei tanti materiali” messi assieme – prova a trarne qualcosa di diverso: un “tessuto conclusivo e unitario”, “il concertato dell'opera”, “un'architettura di relazioni”. Cioè uno spettacolo in grado di mostrare in palcoscenico questo cumulo di criminali, politici degenerati, faccendieri, professionisti corrotti, di lestofanti e di vittime, di giornalisti servili e di cittadini non informati perché, come scrive Martinelli in Primavera eretica, “il microcosmo del teatro” contenga “in sé il macrocosmo della società”.
Un racconto (Saluti da Brescello) dunque non basta più: occorre scrivere un romanzo. Ma a chi ispirarsi? E quale forma, quindi, dare al lavoro?

 


Un'opera di almeno mille pagine
“Chi voleva scrivere il romanzo del proprio tempo non poteva scegliere una trama con due personaggi. Sulla sua enorme scena – che precipitava da tutti i lati nell'Inferno, nel Purgatorio e nell'Ade – doveva raccogliere una moltitudine di figure, quante uno ne trova in un'osteria popolare, in un teatro o in un circo” e “moltiplicare i centri romanzeschi finché le forze gli bastavano”. Dunque “scrivere romanzi più brevi di mille pagine era per lui un errore mortale: se lo avesse letto avrebbe trovato Guerra e Pace un libro fin troppo semplice e ordinato”. Pietro Citati conclude così il proprio saggio su Dickens ne Il Male Assoluto.
Dickens crea opere-mondo (per usare un'espressione cara a Franco Moretti) generando immense strutture composte per associazione di quadri e momenti – un'organizzazione apparentemente confusa (quando leggiamo Dickens abbiamo la sensazione, a un punto, di esserci persi) – ma che trova infine compimento in un disegno preciso, fattosi progressivamente chiaro anche all'autore: i suoi romanzi sono “la tessitura di una ragnatela”, per Maria Teresa Chialant, “un contenitore generoso” per Giorgio Manganelli.
In queste opere-mondo egli colloca da un lato una figura onesta, virtuosa e candida, che funge da vittima sacrificale (Pip, Oliver Twist, Joe, David Copperfield, la piccola Nell); dall'altra parte, agli antipodi eppure a un tiro di schioppo, sistema invece una “sagoma nera”, come la definisce Cesare Garboli, un cattivo assoluto, ombratile e schifoso, che funga da emblema del Male: Jonas Chuzzlewit, che domanda se sia possibile tagliare una gola col bisturi; Uriah Heep, che viene dalle profondità del sottosuolo; Rosa Dartle, col suo labbro sfregiato, e Quilp, Bradley Headstone o la Mrs. Gargery di Grandi speranze. Nel mezzo, tra il Bene e il Male, fa muovere vorticosamente politici corrotti e poliziotti incapaci, sfruttatori industriali e tenutari crudeli, commercianti imbroglioni, padri-padroni, sorellastre inacidite e assassini feroci facendoli convivere con le vittime ulteriori che abitano ogni romanzo dickensiano: una pletora di anime buone che vengono offese, fraintese o schiacciate dal grande meccanismo londinese: certi galeotti innocenti, i nullatenenti e i vagabondi, gli ammalati, i bravi lavoratori, i bambini rinchiusi negli orfanotrofi o usati come schiavi nelle fabbriche, i ragazzi e le ragazze che subiscono abusi, percosse e minacce.
Questo infinito elenco di nomi si muove in una città annerita, intrisa di umidità, sbiadita dalla nebbia e appestata dal fumo delle ciminiere, mentre in basso (pensate allo splendido inizio del Nostro comune amico) il Tamigi è un corso melmoso di liquami, detriti, carcasse e di avanzi materiali ed umani. Di questa città, nella quale sembra avverarsi l'irrimediabile “sconfitta della luce” (Pontiggia), egli non ci offre tutto il contesto ma soltanto quegli scorci utili a collocare le immagini-chiave della vicenda (la prigione, il tribunale, la stanza dei bambini e il cimitero, il fiume, la palude, lo studio dell'avvocato, l'ufficio del procuratore, la bottega dell'antiquario): luoghi che sono “un'estensione dei personaggi”, come scrive la Chialant, e “concezioni del mondo”, “condizioni esistenziali” e “materializzazione dei valori” che vengono rappresentati in lotta tra di loro. Nell'aria, infine, flebile e appena avvertibile – ma ogni tanto imperiosa nel far sentire la sua voce – c'è la grande tradizione inglese di cui Dickens è il ricordante: un insieme di precetti che servono da richiamo memoriale e da avvertenza sul presente: nell'Inghilterra “color cenere” che Dickens mette in scena c'è dunque un coro di “fiammelle” ideali, per dirla con Zweig, che fremono d'improvviso, richiamando tutti (a cominciare dai lettori) al rispetto di quelle leggi scritte e non scritte che regolano la nostra convivenza, che sono a salvaguardia dei giusti e dei più deboli e che fanno – o dovrebbero fare – della società un posto migliore di quel che appare o ci sembra.
Questa composizione – una sequenza di singole scene che si completano come le tessere completano un mosaico – prevede che a vivere nei suoi romanzi siano non personaggi, dotati di una loro profondità psicologica, ma figure, caratterizzate dal lessico (la maniera unica che hanno di parlare: pensate alla passione di Mrs. Nickleby per le metafore) e contraddistinte per una gestualità ripetuta, significante e d'impatto: “Chi conosce davvero Dickens”, non a caso scrive Manganelli, cerca nei suoi protagonisti non “la totalità interiore” ma “l'angolatura aspra e abbreviata, la sveltezza, la virulenza”, talora la “sconcia deformità”; non a caso – aggiunge Zweig – sono “i piccoli segni” (la macchia sul vestito, il modo di camminare o di tossire, la maniera in cui una mano stringe un oggetto) a definire davvero queste apparenze, intense e vive solo per il tempo in cui agiscono, prima di tornarsene tra le quinte: in attesa che venga di nuovo il loro turno. Così Dickens va avanti per centinaia di pagine, rendendole tutte primi attori, ingaggiati per svolgere una funzione specifica all'interno dell'opera. Si aggiunga lo smascheramento del processo autorale – Dickens non nasconde mai il fatto che sta raccontando una storia, che abbiamo in mano un suo libro e che lo ascoltiamo leggendolo – ed avremo così la trasformazione del reale (la Londra nella quale egli visse) in una visione a un tempo fantasiosa e puntuale, vera e sembrabile, allusiva ma sincera: tant'è che, a distanza di più di due secoli, i critici ancora discutono (litigando tra loro) se questo scrittore sia stato un realista crudele o un affabulatore un po' barocco, molto romantico, fin troppo sdolcinato.

 


Questo romanzo teatrale
Marco Martinelli ed Ermanna Montanari fanno del palcoscenico un contenitore cupo, ferito ogni tanto da tagli di luce lunare, orizzontali o diagonali: conferma di una poetica (“Qualcosa chiede di farsi visibile. C'è una richiesta da ascoltare. I corpi pretendono aria intorno; spesso quest'aria ha un colore: il nero” dichiara la Montanari in un'intervista), questo contenitore è il luogo-mondo di Va Pensiero, l'antro-volume nel quale – a ritmo sostenuto e per quasi tre ore – i protagonisti entrano ed escono di continuo. Nel mezzo del palco è posizionata una pedana di legno, che funge da perimetro (ri)collocativo: allestita di volta in volta, con l'uso di pochi oggetti accuratamente scelti, questa pedana diventa il pavimento di un interno specifico generando l'angolo cittadino nel quale – in questo preciso momento – sta avvenendo ciò che deve avvenire: abbiamo quindi l'ufficio del sindaco (scrivania a sinistra, un paio di sedie, le bandiere dell'Italia e dell'Europa), la villa kitsch dello 'ndranghetista (poltrona di pelle rossa, tavolino basso dorato); lo studio moderno della faccendiera (la scrivania posizionata centralmente e le sedie di lato) mentre – osservando tutto il palco – siamo a Piazza Mazzini e sull'argine del fiume, al teatro comunale e nei bagni di un autogrill, in casa del vigile e nei pressi di una gelateria gestita da una coppia di napoletani. Questi scorci – che dicono di una struttura in frammenti – sono, per usare un'espressione della Chialant, “le sfere separate di una narrazione” che si rivela però unitaria nel suo darsi progressivo. Sul fondo un velatino – sul quale l'indicazione del luogo si alterna alla parte dell'opera che sta per accadere – mentre, dietro al velatino e dall'inizio alla fine, c'è il Coro lirico Alessandro Bonci di Cesena che intona arie da La Traviata, il Rigoletto, La forza del destino, Il Trovatore; dal Requiem o da I Lombardi alla prima Crociata, infine il Va Pensiero dal Nabucco, il cui canto viene affidato al pubblico come un padre affida a suo figlio la propria eredità etica, spirituale e sentimentale. Eccola, dunque, la tradizione dickensiana che osserva gli eventi stando nell'ombra, facendosi sentire ogni tanto, eccola (attraverso il coro) rimarcare un accadimento e condannarne un altro, additare una scelta, ricordare un precetto, intonare una strofa facendo memoria e ricordando a tutti di quel tempo che fu o che dovrebbe/potrebbe essere adesso. Un'aggiunta: in alto e sui lati i drappi di velluto rosso che – illuminati da un bagliore livido – rimandano cromaticamente alla storia/bandiera comunista e socialdemocratica emiliana: è la maniera in cui Martinelli e la Montanari coniugano un'altra caratteristica dei romanzi di Dickens, quella per la quale alcuni grandi elementi architettonici (esempio: le ciminiere, le campane, la facciata di una fabbrica, “i simboli che il mondo moderno stava generando” per usare una frase di Citati) partecipano alla narrazione completandone l'impatto visivo.
Qui dodici figure si muovono di continuo contrapponendosi e coabitando, forzando le coincidenze, serrando il ritmo o dilatandolo, osservandosi da lontano o rincorrendosi in circolo, ora sostituendosi in scena ora, dopo averlo quasi svuotato del tutto, affollando di nuovo l'assito: figure che emergono dalle quinte “come le creste d'onda emergono dal mare” direbbe Zweig procedendo “a braccetto, ignorandosi o respingendosi”: “eppure in questo accumulo non c'è alcuna casualità ma un piano: i fili poi si ricongiungono” e noi comprendiamo il senso di quello che avviene. D'altronde – aggiungo – Dickens scrisse a Forster che “il mondo è più piccolo di quello che noi pensiamo: noi tutti siamo collegati senza saperlo e persone che supponiamo lontane l'una dall'altra si urtano costantemente col gomito”. È esattamente quello che succede: nella vita, nei romanzi di Dickens (pensate al finale del David Copperfield, in cui tutti i cattivi si ritrovano nella stessa prigione) e in questo spettacolo.
Ma di che figure si tratta?
La vicenda di Donato Ungaro, “esemplare” a detta di Martinelli, viene appunto resa in Va Pensiero per esemplarità: abbiamo dunque il Bene (il vigile Vincenzo Benedetti) e il Male (il mafioso Antonio Dragone), abbiamo uomini e donne corrotti dal Male (dal sindaco all'ufficio stampa del Comune), vittime ulteriori (i gelatai, costretti a pagare il pizzo anche in Emilia) e cittadini di passaggio. Nessuna di queste creature momentanee è secondaria, tutte assolvono a un ruolo necessario e inderogabile: così, ad esempio, Olmo Tassinari, che al sindaco si rivolge di continuo perché assuma provvedimenti contro l'invasione delle nutrie, da un lato è l'emblema di quest'Emilia distratta, che non vuole prendere coscienza di abitare in una terra intrisa di mafia, e dall'altro svolge il compito di controbilanciare comicamente il tema della presenza 'ndranghetista metaforizzandolo: come espressioni di primo piano delle cosche (da Procopio Di Maggio a Tano Badalamenti) sono state importate in Emilia Romagna dallo Stato, a partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, per “redimersi” ed essere poste “sotto sorveglianza” così le nutrie sono state importate dal Sudamerica, “dove si facevano tranquillamente i fatti loro”: entrambe (cosche mafiose e nutrie) si sono riprodotte moltiplicandosi, entrambe agiscono quasi indisturbate, entrambe stanno cibandosi anche di questo luogo: morso dopo morso.
Inoltre.
Tutte le figure di Va Pensiero sono tipiche, monche e comprensibili perché risultino subito riconoscibili all'interno della narrazione: sono contraddistinte quindi da un lessico identitario (il dialetto calabrese o napoletano, la cadenza emiliana, l'uso di epiteti, di soprannomi, di frasi da gergo meridionale o settentrionale che tornano ogni tanto) e appaiono come un groviglio di gesti che fungono da “segni”, buoni per accennare la condizione emotiva, composta da pensieri che non verranno mai rivelati del tutto perché non vi sia alcuno scavo pseudo-psicologico. Si tratta di una scelta coerente con la storia del Teatro delle Albe (la linea Aristofane-Jarry-Pinocchio-Totò che produce “falsi sembianti”, “antiuniversi”, “feriti senza sangue” e “fantocci”: “perché di fantocci si tratta”, per dirla con la Montanari,  di “pezzi cuciti con evidenza”; d'altro canto sempre la Montanari dichiara altrove: “Tutto quel che ha a vedere con la psicologia del personaggio in qualche modo mi turba, mi pare senza consistenza. Mi trovo a mio agio” invece “ad attraversare figure”) ed è una scelta coerente con la scrittura dickensiana per cui – durante Va Pensiero – è nel particolare che va colto il tratto distintivo, rivelatore, caratterizzante: la camminata spavalda e sicura di Antonio Dragone; la maniera in cui “tira diritto” il vigile Vincenzo Benedetti; la testa inclinata di Licia, segretaria costretta a subire le angherie del Sindaco; il volto marmoreo, la schiena diritta, le gambe impiantate, le labbra tirate, la voce ridotta a striduli, gli scatti delle braccia e questi continui conati di vomito che scuotono il Sindaco, questa “Zarina” (il nome viene dall'Operazione Zarina, svolta dai carabinieri a Reggio Emilia nel 2010/2011) ingabbiata a suo tempo dal padre/Partito – stalinismo di ferro, vecchio PCI – in un ruolo pubblico ch'ella detesta, in cui non ha mai creduto, per interpretare il quale non ha vocazione e verso il quale non sente dunque alcun obbligo.
Aggiungo il costante smascheramento del fatto teatrale (le proiezioni sul velatino, il cambio scenografico a vista, gli interpreti che fungono anche da servi di scena, il rifiuto di ogni naturalismo, la presenza dei cantanti), il rapporto epico tra gli interpreti e le figure (l'entra ed esci dalla parte, la funzione testimoniale, l'uso della terza persona singolare in alternanza alla prima e al dialogo) e la confidenzialità diretta al pubblico (l'utilizzo dei microfoni posti in proscenio; i “Ma dove siamo?”, “Avreste detto di no?”, “Voi che fareste?”) ed ecco che il procedimento narrativo di Dickens trova coniugazione in questo “romanzo teatrale”: con una differenza, tuttavia.
Nel finale dei suoi libri Dickens – incapace di lasciare nei guai una fanciulla o un orfanello qualsiasi – distribuisce punizioni e trionfi, ripara ogni torto, cancella ogni debito: assicura alle galere i criminali, celebra i matrimoni tra gli innamorati, trova una nuova famiglia a chi è rimasto senza né padre né madre. Nell'ultima pagina – dopo tanta fuliggine, notte e foschia – ecco un raggio di luce che passa le nuvole e raggiunge la finestra di una casa, una via, illumina una città intera: oggi è un nuovo giorno, oggi comincia una nuova vita.
In Va Pensiero questo non accade: perché è teatro – e dunque non è contraddistinto dalla cronometria letteraria, scandita dall'incedere netto della quarta di copertina, ma dal tempo incerto e sfrangiato del contatto fisico con l'altro: al quale lo spettacolo si affida materialmente – ma anche perché al Teatro delle Albe non importa esporre un giudizio, leggere una sentenza, indicare una soluzione: importa invece mostrare “i nodi della polis”, che sono ancora qui, “sotto i nostri occhi, dentro i nostri cervelli, irrisolti” – come leggo in Ragione asinina; importa esibire le ferite e “le infezioni” collettive, non accantonandone l'orrore “se non si hanno risposte o cure”: coscienti della “propria impotenza in un mondo smisurato in cui l'azione individuale pare perdersi e svanire come una goccia nel deserto” ma coscienti anche del fatto che non ci resta altro che agire, ognuno assumendosi – fino in fondo – la responsabilità delle proprie scelte.

 


Infine
In Va Pensiero convivono musica, lirica, teatro, poesia, giornalismo e letteratura, l'afflato risorgimentale e il romanzo dell'Ottocento, Dickens, Verdi e Donato Ungaro, la fedeltà alla cronaca giudiziaria (c'è una parte dello spettacolo, scandita dalla frase “Se fosse una fiaba”, che è la ripresa di un capitolo di Tra la via Aemilia e il West), le figure standardizzate e la libera riscrittura degli eventi; convivono nomi veri (Antonio Dragone) e nomi falsi, circostanze effettive e forzature narrative, versi e prosa, schegge-immagini e tempi lunghi, temi tragici e gesti comici. In Va Pensiero c'è l'avvenuta riduzione dell'umano a un bestiario (donne e uomini sono oche, cornacchie, squali, cagnolini e maiali, caproni, serpenti, nutrie: mettono “becco”, saltano “in mezzo”, necessitano di un “capobranco”); c'è il tema dell'eredità dei Padri, svilita nel concreto (quei precetti che vengono ancora ripetuti ma che non hanno più presa sul reale); c'è la crisi sancita di ogni grande Chiesa, laica o religiosa che sia, e c'è la perdita del valore effettivo della Parola; a un punto c'è anche il nichilismo dostoevskijano, espresso dalla Zarina: “Se voi poteste calpestare la Legge con la certezza che nessuno lo verrà mai a sapere, non lo commettereste quel crimine?”. C'è – per me che sono iscritto all'Ordine dei giornalisti – anche il tema dell'informazione ridotta in comunicazione, del cronista (critico della società) che rispetto alle istituzioni non fa da controvoce ma da portavoce scrivendo comunicati stampa, promuovendo eventi-truffa o stando attento a cosa non chiedere nell'intervista, di cosa oggi non scrivere.
In Va Pensiero c'è questo e altro eppure l'opera ha una forma in grado di parlare non a tutti – quest'audience indistinta che è un'invenzione del commercio potenziale – ma a quante più persone è possibile: all'adulto di sedici anni, che mi siede accanto, e all'adolescente di ottanta, che ha comprato il biglietto di prima fila. C'è in questo il rispetto della vocazione primigenia del Teatro delle Albe, abituato a fare (prima che a dire) a Nairobi e a New York, a Ravenna e Lamezia Terme, nel grande teatro comunale come nella saletta dei Quartieri, al cospetto di file ordinate di bravi cittadini e avendo davanti gli studenti scalmanati di un liceo, che dei Premi Ubu “se ne fottono” o che “non sanno neanche cosa siano”. Ma in questo c'è anche una voglia insopprimibile di dire e di agire, stando assieme – usando le parole che appartengono al quotidiano della vita senza smettere di re/citare Dante o William Shakespeare – ed è l'ultimo lascito che mi fa questo spettacolo: non so se dipenda da don Milani, caro a Martinelli, o dall'origine campianese di Ermanna Montanari, se derivi dai libri letti e poi dimenticati o se sia una conseguenza del sudore speso nelle attività della non-scuola: so soltanto che le vette di riflessione pianeggiano nel lessico e, senza rinunciare alla complessità, condividono pensieri.
Va pensiero, appunto.

 

 


le immagini relative a
Va Pensiero sono di Silvia Lelli; l'immagine relativa a Saluti da Brescello è di Futura Tittaferrante.




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Caterina Piccione Per far crescere peschi e ciliegi (Il Pickwick, 20 gennaio 2018)
Francesca Giuliani, “Va Pensiero” e il teatro come esercizio di cittadinanza (PAC, 18 dicembre 2017)
Rossella Menna La luce ustoria dei fiammiferi (Doppiozero, 14 dicembre 2017)

 




Va Pensiero
di
Marco Martinelli
ideazione e regia Marco Martinelli, Ermanna Montanari
in scena Ermanna Montanari, Alessandro Argnani, Salvatore Caruso, Tonia Garante, Roberto Magnani, Mirella Mastronardi, Ernesto Orrico, Gianni Parmiani, Laura Radaelli, Alessandro Renda
con la partecipazione del Coro lirico Alessandro Bonci di Cesena
nell'esecuzione di alcune opere di Giuseppe Verdi
arrangiamento, adattamenti musicali, accompagnatore e maestro del coro Stefano Nanni
incursioni sceniche Fagio, Luca Pagliano
scene Edoardo Sanchi
costumi Giada Masi
disegno luci Fabio Sajiz
musiche originali Marco Olivieri
suono Marco Olivieri, Fagio
consulenza musicale Gerardo Guccini
editing video Alessandro Renda
assistente alle scene Carla Conti Guglia
tecnico luci Luca Pagliano
macchinista Danilo Maniscalco
elementi di scena realizzati dalla squadra tecnica del Teatro delle Albe, Alessandro Bonoli, Fabio Ceroni, Enrico Isola, Danilo Maniscalco, Deniss Masotti
direzione tecnica Fagio
sartoria Laura Graziani Alta Moda
capi vintage A.N.G.E.L.O.
foto di scena Silvia Lelli
organizzazione e promozione Silvia Pagliano, Francesca Venturi
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro delle Albe / Ravenna Teatro
lingua italiano, romagnolo, calabrese, napoletano
durata 2h 40'
Ravenna, Teatro Alighieri, 13 dicembre 2017
in scena dal 7 al 14 dicembre 2017

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