“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 06 December 2017 00:00

Fenomenologia del divismo dal cinema ai social media

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Il culto della personalità è vecchio come il mondo ma questo non coincide con il divismo: i divi fanno parte delle società capitalistiche e democratiche e, non potendo imporre il culto, sono costretti a stabilire una sintonia con la cultura sociale del tempo di cui fanno parte. Vanni Codeluppi nel suo libro Il divismo. Cinema, televisione, web (Carocci, 2017) ricostruisce l'evoluzione storica del divismo a partire dall'era del cinema, per poi passare a quella della televisione fino a giungere all'età del web contraddistinta dall'arrivo di molti outsiders capaci di conquistare visibilità attraverso la rete.

Se secondo diversi studiosi il divismo può essere fatto risalire al mondo teatrale statunitense degli anni Venti dell'Ottocento, quando le compagnie teatrali diventando itineranti iniziano a sfruttare il nome di qualche attore per richiamare il pubblico, è soltanto con il cinema che si struttura il divismo così come abbiamo imparato a conoscerlo nel corso del Novecento.
La concentrazione della produzione in una luogo fisico ben preciso come Hollywood, un luogo per certi versi separato dal mondo dei comuni mortali, secondo Codeluppi ha finito con l'istituire una sorta di acropoli abitata dalle celebrità ben presto meta di pellegrinaggio da parte di turisti-spettatori-fan. Attraverso il divismo le case di produzione hanno stimolato, soprattutto attraverso gli articoli di costume della stampa, il rapporto tra il divo e il pubblico. Nel corso degli anni Trenta e Quaranta gli studios hollywoodiani hanno poi ulteriormente perfezionato il modello divistico gestendo direttamente e scientificamente l'immagine dei divi.
Le prime forme di divismo cinematografico sono soprattutto femminili e se in ambito americano Mary Pickford rappresenta probabilmente una delle prime dive, in ambito italiano si possono citare attrici come Lyda Borelli e Francesca Bertini, esponenti di spicco del cosiddetto “cinema delle divine”. Per quanto riguarda il divismo cinematografico maschile degli albori, Rodolfo Valentino e Douglas Fairbanks rappresentano sicuramente le punte di diamante.
Alla fine degli anni Cinquanta negli Stati Uniti il divismo tradizionale deve fare i conti col fatto che la televisione è presente già nel 90% delle abitazioni; inoltre, nel corso degli anni Settanta del Novecento il sistema cinematografico americano muta profondamente dando vita a quella che sarebbe poi stata definita la New Hollywood, caratterizzata da nuovi divi molto più vicini a quel pubblico giovanile divenuto il nuovo target della produzione che nel frattempo consegna le famiglie alla televisione. (vedi anche American storytelling). Il divismo cinematografico cambia nuovamente negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso quando la New Hollywood cede il passo a un sistema contraddistinto  dalla diffusione dell'home video e, successivamente, da Internet. Il nuovo cinema inizia ad abbandonare la compattezza narrativa tradizionale indirizzandosi verso un maggiore coinvolgimento sensoriale dello spettatore, adottando una narrazione aperta in grado di costruire mondi di finzione manipolabili all'infinito da media differenti dando vita a quella che verrà poi chiamata l'era del cinema della convergenza.
Il divo dell'era televisiva non è più un essere distante e superiore rispetto al suo pubblico ma diviene una sorta di “vicino di casa” che, appunto, entra nelle abitazioni quotidianamente e a tutte le ore. “Non è un caso che la televisione, medium della realtà per eccellenza, anziché creare dei propri particolari divi, come faceva il cinema, vada a cercare i suoi divi nella vita reale per poi tentare di renderli conosciuti e familiari. Perché uno dei principali effetti che la televisione è in grado di ottenere è proprio quello di creare tra i personaggi presentati e gli spettatori un rapporto basato sulla confidenza e sulla fiducia”.
I principali divi televisivi sono dei presentatori come Mike Bongiorno, personaggio capace, secondo Umberto Eco (Diario minimo, Mondadori, 1963), di non suscitare complessi di inferiorità nel suo pubblico. Sempre Eco segnala come (Sette anni di desiderio, Bompiani, 1983) nei primi anni Ottanta il modello della “Paleotelevisione” pedagogica, che riserva allo spettatore un ruolo esplicitamente passivo, lasci il posto ad una “Neotelevsione” preoccupata di far sentire il pubblico partecipe offrendogli, al contempo, forme di evasione. È la tv del telecomando, delle telefonate in diretta, delle risate preregistrate, dei presentatori − o dei giornalisti − che ci guardano negli occhi e “ci danno del tu”. Il presentatore televisivo è un divo particolare: è un mediatore, dunque dotato di una debole identità.
Un divismo televisivo più recente è quello dei reality show, programmi che hanno ottenuto un notevole successo probabilmente anche per il loro rispondere al desiderio diffuso nella società contemporanea di “poter essere inquadrati da una qualche telecamera”. Nel reality lo spettatore si trova contemporaneamente davanti e dentro allo schermo in quanto “spettatori e concorrenti hanno in comune il possesso di un corpo biologico e nei reality è necessario soprattutto saper comunicare attraverso un linguaggio diretto come quello del corpo [...]. Il modello del reality show però ha successo principalmente perché tra il flusso della vita quotidiana e il flusso televisivo esiste una naturale affinità. Entrambi si basano infatti sull'idea di contemporaneità, di evento che si svolge proprio nel momento in cui lo si sta guardando”.
Per certi versi il reality porta a compimento la promessa televisiva di catturare e restituire allo spettatore la realtà mentre questa si svolge, inoltre rappresenta una forma di comunicazione, per quanto artificiale e illusoria, capace di presentarsi come una comunità, seppure dalla durata limitata.
Nel reality la televisione diviene uno specchio in cui lo spettatore sperimenta la sensazione di divenire divo esso stesso. Si ha l'impressione che uno sconosciuto, un uomo qualunque come lo spettatore, possa divenire improvvisamente una celebrità e chi partecipa al programma deve dimostrare di essere abile nel “gestire pubblicamente la sua immagine, nel trasformare la sua vita in spettacolo”.
Oltre a passare in rassegna i fenomeni del divismo nel mondo della musica, dello sport e della moda, il volume si sofferma sui social media sia come strumenti di supporto alle varie forme di divismo, grazie alla loro capacità di offrire un maggior contato tra divo e fan, sia per il ruolo partecipativo che, grazie ad essi,  viene ad assumere l'utente. Anche se la distinzione tra divo e fan sembra restare comunque ben salda, è innegabile che l'era dei social media sia caratterizzata da una maggiore esposizione mediatica sia dei divi che dei normali utenti che, proprio come le celebrità, si trovano a curare l'immagine di sé che intendono trasmettere al pubblico che si devono costruire. Secondo Codeluppi tale ricerca di un audience sempre più allargata conduce l'individuo ad adottare un modello culturale conformista. Lo youtuber di successo, sottolinea lo studioso, il più delle volte è un personaggio costruito da società specializzate nella creazione di strategie di vendita e “nel nuovo mondo digitale il successo arriva soprattutto a chi accetta maggiormente di diventare una merce per propagandare nuove merci“.
Il saggio analizza alcuni casi esemplari di divi − Rodolfo Valentino; Marilyn Monroe; Evis Presley; Michael Jordan; Kate Moss; Angleina Jolie; Maurizio Cattelan; Lady Gaga; Carlo Cracco; David Bowie − per poi passare in rassegna le principali teorie del divismo soffermandosi sulla concezione del divo come merce proposta da Edgar Morin (I divi, Garzanti, 1977), sul rapporto tra divismo e seduzione esposto da Jean Baudrillard (Della seduzione, Cappelli, 1980) e sulla concezione religiosa del divismo che caratterizza l'approccio di autori come Neal Gabler, Richard Dyer, Jacques Ellul e Dell deChant.
Ad essere preso in esame dal libro è anche il rapporto tra il divo e il fan con particolare attenzione all'epoca più recente caratterizzata da un ruolo decisamente − o apparentemente, secondo Robert Kozinets − attivo di quest'ultimo. Spazio viene concesso anche all'interessante ricerca empirica condotta da Letteria Fassari (Poplife. Il realitysmo tra mimetismo e chance sociale, Carocci, 2014) sugli aspiranti partecipanti al Grande Fratello dell'edizione italiana da cui emerge l'aspirazione di questi giovani a “collocarsi in un flusso informativo che tende a fa coincidere il lavoratore e il comunicatore” e che permette ai partecipanti di abitare “un luogo particolare che non appartiene né alla realtà esterna, né al mondo interiore del soggetto”.
Le ultime pagine del volume di Codeluppi sono dedicate al rapporto tra divismo e politica e in particolare al venir meno della netta distinzione tra divi dello spettacolo e personaggi delle élite tradizionali economiche e politiche così come era stata delineata da Wright Mills (L'immaginazione sociologica, Il Saggiatore, 1962). Le televisioni e il web avrebbero progressivamente avvicinato i due ambiti, tanto che il politico contemporaneo sembrerebbe essersi trasformato in una sorta di celebrità interessata più alla politica simbolica che non alla politica reale, sempre più determinata, quest'ultima, da agenzie internazionali che non si preoccupano di conquistare il consenso.

 




Vanni Codeluppi
Il divismo. Cinema, televisione, web

Carocci editore, 2017
pp. 132

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