“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 23 November 2017 00:00

Dal silenzio al silenzio. Insieme

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Di cca si vede tuttu u munnu.
Si vidunu tutti i cosi.
Puru chiddi chi non si vidunu.

(Tino Caspanello, 'Nta 'llaria)

 

 

Un balcone. Un doppio raggio di luce. Il cinguettio dei canarini. Poi la luce degrada, i canarini tacciono. Il balcone scompare. Silenzio.
Buio.

Dal buio del silenzio sorgono due operai che se ne stanno nel balcone, intenti a grattarne una ringhiera che fa da soglia, coincidendo col proscenio, e che deve essere ridipinta di nero: dall'alto i fari tornano a produrre un chiarore giallognolo – perché sembri la luce di un caldo pomeriggio meridionale, certo; perché la scena sia toccata da un'illuminazione quasi pittorica – mentre il ricordo del cinguettio dilata idealmente lo spazio dicendoci che non c'è niente e nessuno al cospetto dei due se si esclude, in penombra, una platea con una quarantina di spettatori, questa sera, al Teatro Sanità.
I due operai danno vita a una partitura che sembra negare il silenzio da cui essi stessi vengono: ecco dunque un frammento dialogico in messinese (lingua che ha dentro sacche di vuoto, momenti di stasi, una musicalità composta anche per assenza), che inizia di solito con una domanda (“Chi ttalii?”; “U vinu finiu, veru?”; “Stasera finemu?”) e a cui segue un botta-e-risposta composto da venti/trenta battute, poi di nuovo il silenzio, cui subito segue un nuovo botta-e-risposta. Il pensiero va a Clov e Hamm o a Vladimiro ed Estragone (“Come va il tuo piede?”; “Volevi parlarmi?”; “Che cos'hai?”) ma si tratta fondamentalmente di un errore: “guarda”, mi disse una volta Caspanello ai margini di una trasmissione radiofonica, “che in questo andamento c'è sopratutto il mare che va incontro allo scoglio”: infatti come fa il mare? Viene, fa sentire la sua voce battendo sulla roccia, poi si ritrae per tornare, pochi secondi dopo, a battere di nuovo. Io perciò li guardo, questi due operai, e soprattutto li ascolto e mi accorgo che uno dei due comincia il discorso (eccolo il mare) mentre l'altro – fisso nell'angolo anteriore sinistro del balcone – se ne sta immobile, facendo da scoglio alle parole.
Ebbene: dove stanno il mare e gli scogli in città? Di lato, a fare da limite e orizzonte; il mare e gli scogli sono un altrove liminare, un luogo diverso rispetto all'urbanità affollata dei centri storici, alle case costruite per accumulo, ai rumori crescenti della mobilità uniformante. Andiamocene al mare, diciamo con la stessa intonazione di chi fugge per lasciarsi tutto alle spalle, e lo diciamo cercando un'aria diversa, un tempo più lento, la possibilità di starcene con gli occhi chiusi, di respirare piano, di non fare nient'altro che sentirci vivere. I due operai stanno dunque agli orli del mondo e il balcone – prima di essere un luogo – è una condizione: la marginalità, mi viene adesso da scrivere; la stessa, tra l'altro, che in partenza contraddistingue il teatro.
Questi due operai se ne stanno dunque ai margini del mondo eppure seguono i dettami del mondo: lavorano e dunque il loro tempo è un tempo economico e i loro gesti sono finalizzati alla produzione: lavoriamo sempre, dirà uno e, quando non lavoriamo, dormiamo. Ingranaggi periferici del grande meccanismo, i due operai sono assuefatti alle norme che determinano la nostra appartenenza al consesso civile, norme dettate dal capitale e che impongono la subordinazione agli ordini, l'ottimizzazione nell'impiego della forza-lavoro, la meccanizzazione delle risorse umane, l'inaccettabilità della stanchezza, la materialità e l'immediatezza del risultato.
“A ttia ti piaci stu travagghiu?”
“Chistu stavi pensannu?”
“Sì. Ti piaci?” [...]
“S'u facemu bbonu, forsi nni piaci”.
“Ll'avem'a ffari niru, veru?”
“Così u vonnu”.
“Si era u mei, u facia di nn'autru culuri”.
“Ma siccome on è u toi, u fai niru e bbasta”.
“Travagghiamu va'”.
Fossi un filologo mi soffermerei sulla coniugazione di “lavorare” in “travaglio” – che conduce al latino “tripalium” e rimanda a un antico strumento di tortura –; sono tuttavia solo uno spettatore e mi concentro quindi su chi appare, su quello che succede.



Anticipata da due fischi – che vengono dal fondo della sala, oltre la tendina: si tratta di un sonoro evocativo, che permette la materializzazione carnale del personaggio fino ad allora inesistente – giunge nel balcone una donna: borsa verde, calzini e scarpe nere, cappotto giallo e, sotto il cappotto, un abito candido a fiori, indossato su una maglia che ha buchi, scuciture, rattoppi. Servetta pirandelliana, che non porta al pubblico i personaggi ma coincide col personaggio che è in cerca dell'autore? Traduzione al femminile dei clochard circensi di Samuel Beckett? Paziente scappata al maniconio? Figura spaesata, che viene dai testi ormai dimenticati di Beniamino Joppolo? “Rarefatta Giulietta degli Spiriti” per dirla con Tomasello? O clown che ha in sé la dipinta e slabrata tristezza dei pagliacci, attrice avanzata a certe trame del teatro dell'assurdo, apparizione che genera il riassetto della visione (basta notare l'accensione di un terzo faro verticale, al suo arrivo)? A ogni spettatore la sua risposta. Quel che è certo è che la donna penetra nel balcone facendone “u me' postu”, vi assume posizione centrale, determina progressivamente la sospensione del lavoro, modifica cioè l'andamento previsto della giornata, inducendo alla digressione e al racconto, all'immaginazione, alla finzione, all'illusione e alla fantasia. Si tratta – aggiungo – di una donna di cui s'ignora l'origine e il nome, che non sapremo da dove viene, da cosa sia scampata, quale sia il suo passato e se abbia o meno un futuro ma che – lo vediamo – con il to play della recita adesso libera i due operai dal giogo economico, dalla segregazione lavorativa, dall'automatismo gestuale, dalla schiavitù del travaglio, dalla fatica a testa bassa che va avanti da mattina a sera.
Li libera dalla mancanza dell'idea di libertà, dall'assenza di colore.
Così dalla borsa, che funge da trovarobe portatile, tira fuori i praticabili (acqua, vino, una sigaretta, l'accendino e “u zzuccuru”, il termos con il caffè, un bicchiere rosso, il pane, una penna, un foglio, un vecchio libro) improvvisando un cumulo di mini-trame momentanee; si diletta nel travestimento proprio e altrui (il cappello, una collana di perle, il rossetto: “pariti propriu n'autra cristiana!”); da senso al luogo, ricordandosi e ricordandone la forma della gabbia (quando si abbassa e guarda verso la platea attraverso la ringhiera); mostra il reimpiego di un oggetto (il ventaglio usato come fosse carta vetrata); vive e fa vivere il recupero del rimosso (certi spaventi antichi che ritornano); suggerisce tentativi di mimesi (“Comi fa u ventu?” Come fa l'acqua “quando gghiovi?”, Come fanno “u trenu” e “i navi” e “Comi fa u tempu?”); s'inventa l'esistenza di un panorama fatto di case, strade, gente e musica, festa, “tanti luci 'nta ll'aria” mentre – quando si tratta di rapportarsi con la fine – muore ma per finta, svenendo per qualche minuto per poi risuscitare: così d'altronde il teatro da sempre neutralizza la morte, finendo con la fine di ogni replica per risorgere la sera successiva.
Come termina 'Nta ll'aria? Unendo solitudini che, dichiaratesi come tali l'una all'altra, adesso formano un insieme. Espulse singolarmente dal buio di partenza – dal loro buio –  ora se ne stanno sedute, senza più dirsi niente, e guardano un orizzonte ideale che in concreto coincide con l'ultima fila di una platea e – mentre osservo loro che stanno osservando il posto in cui siedo anch'io – mi viene in mente Roberto Latini (gli artisti, si sa, tra loro parlano: anche senza saperlo) quando – in un testo dedicato al teatro e intitolato In silenzio in coro – scrive di “quel silenzio che è improvviso, consolante, sempre nuovo, enorme ma così leggero” e che diventa “la misura di quanto siamo, di chi siamo e chi possiamo assieme”, che è “suono che s'inventa” e alla cui invenzione partecipa anche lo spettatore: “L'accordo del silenzio è la voce degli spettatori” scrive Latini, ed è “la condizione necessaria, la prima aspirazione. Lo spettacolo invita al silenzio tutti assieme. Per metterci in ascolto e in relazione”.
Ecco: i tre adesso stanno ai margini, stanno in silenzio, stanno assieme.
Noi stiamo ai margini, stiamo in silenzio, stiamo assieme.
Cos'altro chiedere al teatro, questa sera?

 




N.B.: La foto di copertina è di Mario Gelardi; la terza foto, a corredo dell'articolo, è di Tino Caspanello.





leggi anche:
Alessandro Toppi, Prime note sul teatro di Tino Caspanello (Il Pickwick, 21 luglio 2014)
Alessandro Toppi, Beckett, Carullo/Minasi, Caspanello (Il Pickwick, 17 settembre 2014)
Alessandro Toppi, Se il mare non è mare (Il Pickwick, 14 gennaio 2014)
Caterina Piccione, Onde dentro onde (Il Pickwick, 28 marzo 2017)
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'Nta ll'aria
drammaturgia
Tino Caspanello
regia Tino Caspanello
con Cinzia Muscolino, Tino Calabrò, Alessio Bonaffini
assistente alla regia Alessandra d'Amico
produzione Teatro Pubblico Incanto
lingua messinese
durata 55'
Napoli, Nuovo Teatro Sanità, 11 novembre 2017
in scena 11 e 12 novembre 2017





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