“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 19 July 2017 00:00

Giardini culle di saggezza

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In tutte le culture, sin dall’antichità, il giardino, concreto o immaginario, è stato considerato un luogo privilegiato per la contemplazione e la riflessione. Della relazione tra giardino e saggezza in Occidente, dall’antichità greca fino ai nostri giorni, dalla tradizione religiosa a quella poetica e letteraria, passando da Epicuro a Platone, da Sant’Agostino a Montaigne, da Shakespeare a Nietzsche, si occupa il saggio di Hervé Brunon, Giardini di saggezza in Occidente (DeriveApprodi, 2017).

Da qualche tempo i benefici psichici del giardinaggio sembrano godere di un rinnovato interesse in Occidente, non a caso, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, nel mondo anglosassone si sono sviluppate pratiche, come la ortoterapia, finalizzate al miglioramento psico-fisico dei pazienti. In realtà già ad inizio Ottocento Philippe Pine, uno dei padri della psichiatria, indicava nei “lavori campestri” un metodo efficace per migliorare la salute degli “alienati”. Più in generale si può dire che una parte della cultura occidentale, a partire tanto dalla tradizione greco-romana, quanto da quella giudeo-cristiana, passando attraverso l’umanesimo, fino a giungere alla modernità, non ha mai cessato di pensare che il giardino possa contribuire alla “pacificazione interiore”.
A partire dai padri della Chiesa e fino all’Illuminismo, in Europa si è trasmessa la credenza che l’Eden non solo è realmente esistito, ma che esso sussista da qualche parte, tanto che la ricerca del giardino delle delizie ha prodotto numerose speculazioni erudite anche se per l’esegesi cristiana il senso spirituale conta assai di più di quello letterale: “Il paradiso terrestre offre l’immagine della felicità eterna e perfetta, quella che conosceranno i giusti alla fine dei tempi, evocata nel Nuovo Testamento dalla visione della Gerusalemme celeste” (p. 11).
Il chiostro, nell’architettura monastica, è da intendersi come figura simbolica del paradiso, congiunta con quella dell’hortus conclusus, metafora della Bene Amata nel Cantico dei cantici. Le evocazioni bibliche, congiunte con la tradizione greco-romana, creano un legame strutturale tra felicità e giardino. “Veicolata da dottrine di salvezza individuale come l’orfismo e il pitagorismo, l’idea mistica di un giardino dei Beati, sorta di paradiso ultraterreno che attende l’anima umana, riecheggia nella poesia latina” (p. 13). In Lucrezio, ad esempio, la descrizione dei piaceri dei lontani antenati riprende palesemente la descrizione della gioia di cui l’epicureismo inviata ad accontentarsi. Viene dunque ripreso il topos del paesaggio ideale così come si è fissato nella letteratura europea a partire da Omero. Nel De rerum natura il giardino è indicato come cornice di una felicità non solo primitiva o promessa, ma raggiungibile qui ed ora.
Prima di ricostruire la storia della relazione tra giardino e saggezza in Occidente, Hervé Brunon approfondisce il concetto di saggezza in Occidente passando in rassegna le riflessioni della cultura antica greco-romana e quelle teologiche legate alla tradizione cristiana, soffermandosi in particolare sull’apporto di Sant’Agostino, fino a giungere al pensiero filosofico Sette-Ottocentesco. A questo punto il volume, anziché procedere lungo un racconto diacronico unilaterale, si segmenta in quattro capitoli affrontanti altrettante funzioni al contempo reali e simboliche del giardino, “destinato al ritiro, al percorso meditativo, alla contemplazione, e a una forma responsabile di vita attiva la cui figura è incarnata dal giardiniere” (p. 25).
Nel capitolo dedicato al giardino come luogo di ritiro, lo studioso ricostruisce il valore attribuito all’otium dalla cultura romana a partire da Cicerone, per poi soffermarsi sull’elogio della vita solitaria proposto da Petrarca, sull’incoraggiamento all’isolamento presente nel pensiero cristiano, sull’ideale eremitico presente in diversi ordini religiosi, sugli eremi votati al distacco dalla vita mondana fino a giungere all’idea di giardino come luogo in cui rifugiarsi dal consumismo imperante nell’Occidente tardo Novecentesco.
Nella sezione dedicata al giardino come percorso meditativo, efficacemente intitolata “Camminare”, l’autore parte dalla constatazione di come, al di là di eventuali vocazioni produttive, ogni giardino ornamentale sembri disegnato per essere percorso. Ignazio di Loyola sottolinea come l’esaminare la propria coscienza, il meditare ed il pregare siano esercizi spirituali come il correre ed il camminare sono esercizi corporali. “È proprio nell’ambiente gesuita che nasce un rilevante tentativo di pensare a una tecnica di esercizio interiore fondata sull’esteriorità del giardino” (p. 45). Luigi Richeome, nel consacrare una corposa opera al noviziato di Sant’Andrea al Quirinale di Roma, dedica notevole spazio ai giardini che si estendevano su tre livelli tra la Basilica di San Vitale e la chiesa che verrà poi ricostruita dal Bernini, sul solco delle riflessioni sulla funzione devozionale delle immagini. Richeome “traspone i procedimenti dell’ermeneutica biblica al ‘grande libro scritto dalle diverse creature’ che è il mondo. Contemporaneamente, però, il giardino diventa spazio di apprendimento teologico e morale, adattando il precetto fondamentale delle arti della memoria che, originato dalla retorica antica, ha fornito il fondamento a una grande quantità di costruzioni fittizie e reali fino al XVIII secolo e che consiste nel disporre mentalmente rappresentazioni che restino impresse o simboli (imagines) in varie parti (loci) di un edificio a formare una serie ordinata in modo tale che l’oratore se ne ricordi ricapitolandoli grazie a un percorso interiore. Detto in altre parole il giardino diventa una disposizione di ‘luoghi della memoria’, nel senso classico dell’espressione” (p. 47).
Con la caduta di Gerusalemme nel 1300, Bonifacio VIII istituisce il giubileo come strumento sostitutivo del viaggio in Palestina al fine di beneficiare dell’indulgenza plenaria. Nei secoli successi, sotto la spinta controriformista, in Italia si diffondono i Sacri Monti che, soprattutto in Lombardia e Piemonte, sono organizzati come giardini che compongono un itinerario che ricorda la salita del Cristo sul Calvario. In diversi casi questi giardini sono strutturati sul modello del pellegrinaggio sostitutivo.
Altra costruzione su cui si sofferma lo studioso è quella del labirinto che, con il suo imporre un procedere incerto, ricorda al cristiano le insidie del cammino della vita. L’analogia tra esistenza ed erranza induce nell’antichità a svariate letture del mito di Teseo in chiave moralistica. Sarebbe riduttivo leggere nei labirinti vegetali, così diffusi nei giardini europei a partire dal Rinascimento, un mero fine ludico. “Il labirinto – simbolo spaziale che a partire da Platone è immagine della ricerca della verità e del processo stesso della conoscenza intesa come esplorazione – si è prestato a progetti intellettualmente molto ambiziosi” (p. 51).
Il capitolo dedicato al giardino come percorso meditativo dedica spazio anche alla svolta epistemologica della seconda metà del Seicento, svolta che ha comportato il superamento del sistema di rappresentazioni e codici fondati sulla retorica classica, che, secondo lo studioso, provoca una cesura nella storia dei giardini come luoghi della memoria. Infine, una riflessione è dedicata al farsi largo dell’idea moderna di cimitero che, alle soglie dell’Ottocento, diviene uno spazio periurbano distaccato dalle chiese e sottratto alla gestione religiosa. Costruito dalle amministrazioni comunali sul modello dei giardini paesaggistici, in tale cimitero permane il principio dell’omologia tra meditazione e itinerario.
Nella sezione che affronta i giardini come luoghi di contemplazione, dopo un excursus in ambito antico, il saggio analizza come il cristianesimo abbia “condizionato l’approccio contemplativo ponendolo in una prospettiva teologica e metafisica piuttosto che etica e fisica” (p. 59). La contemplazione in prospettiva teologica tende a vedere nel giardino un puro simbolo la cui realtà sensibile vale come riflesso di un intellegibile, per dirlo in termini platonici, anche se il pensiero gesuita dell’immagine pone elementi di originalità.
In questo capitolo lo studioso si concentra sull’interrogativo circa come si possa “tenere insieme l’osservazione, qui e ora, della piccolezza finita di un filo d’erba con il pensiero dell’infinito che oltrepassa ogni esperienza, senza quella ‘giuntura’ rappresentata dalla creazione divina” (p. 61). A tal proposito Brunon riprende il concetto di eterotopia proposto da Michel Foucault applicandolo al giardino, notando come sin dall’antichità esso sia stato pensato come un’eterotopia felice e universalizzante e ciò risulterebbe possibile proprio perché, come sostiene Kant, esso è fabbricato a partire dalla natura. Hirschfeld vede nel giardino “un’arte amalgamata con la natura”, ove a colpire i sensi è la presenza reale degli oggetti e non il ricorso alla memoria o all’immaginazione. “Il giardino è dunque un luogo che racchiude simbolicamente e quasi ontologicamente, sul registro della sineddoche, la totalità del cosmos (‘ordine’) e, soprattutto, l’unità della physis, ovvero il principio vitale, il principio della crescita degli esseri o ancora del dispiegamento dell’Essere” (p. 62).
L’ultima sezione del volume è dedicata alla forma responsabile di vita attiva incarnata dalla figura del giardiniere. Dopo aver passato in rassegna riflessioni che vanno dalla filosofia antica al Vecchio e Nuovo Testamento, dalla cultura del lumi all’epoca contemporanea, lo studioso giunge a concludere che anziché mirare ad essere padroni e possessori della natura, “oggi si tratta di ricostruire un rapporto di appartenenza e al tempo stesso di rispetto, che potrebbe forse trovare espressione, sul modello del cogito cartesiano, in un ‘pianto dunque sono’, ‘semino dunque vivo’ o ‘coltivo dunque divengo’. E, sebbene in Europa i giardini di saggezza non rispondano a un unico principio formale, molti, almeno simbolicamente, hanno riservato uno spazio per la malerba, hanno accolto il fatto che il mondo sfugge al nostro volere e oltrepassa i limiti del nostro sapere. Un’erba è un’erba è un erba...” (p. 88).

 


 

Hervé Brunon
Giardini di saggezza in Occidente

DeriveApprodi, Roma, 2017
pp. 96

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