“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 23 June 2017 00:00

Le metamorfosi della scrittura

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I racconti di Annamaria Travaglini inclusi nella raccolta Non siamo tutti qualcuno è in galera, usciti nel 2015 per le labroniche Edizioni del Boccale, sono caratterizzati da una scrittura metamorfica e in divenire, una scrittura che non si lascia incasellare in nessuno stile predeterminato. Allo stesso modo, i personaggi che popolano queste pagine sono tanti “forzati” “che non riescono ad affrancarsi dalla vita, quella che origina dall’istanza sociale di rivestire un ruolo” e che in modo incessante cercano di sfuggire all’imposizione di tale ruolo. Sono quelli che si ritrovano sbattuti nella galera delle necessità sociali imposte dalla vita, una cella da cui è assai difficile fuggire.

Fra tanti “forzati” e prigionieri, i protagonisti dei racconti, sia maschili che femminili – probabilmente tanti riflessi autobiografici dell’autrice – si muovono opponendo un pacato ma anche doloroso rifiuto alla necessità di rivestire dei ruoli. Un po’ come Bartleby, il protagonista di Bartleby lo scrivano di Herman Melville, che, quando il suo capo gli chiede di fare il suo dovere, risponde con calma: “Preferirei di no”. Nell’opporre un rifiuto così netto ed assoluto, Bartleby assume le caratteristiche di una sorta di “uomo senza qualità”, un homo tantum, un mero uomo e nient’altro. Opponendo un rifiuto al lavoro, all’autorità, alla servitù volontaria, il personaggio finisce per avvicinarsi sempre di più alla nuda umanità, alla nuda vita, al nudo essere.
Così, la protagonista del primo racconto, Villa Capriglio, una poetessa invitata per una lettura da una comunità di artisti che ha la sede in un’antica villa, rifiuta il ruolo che le viene imposto, quello del “poeta”, dell’“artista” che, per riuscire bene nella sua performance, deve sballarsi ad ogni costo. Il rifiuto che i personaggi di Travaglini oppongono a qualsiasi convenzione sociale (anche a quella, come nel caso di questo racconto, portata avanti da istanze contestatarie) non avviene però, come per Bartleby, in modo quasi indolore; c’è rabbia, c’è profondo dolore, c’è amara consapevolezza di impotenza nell’opporre un rifiuto ai ruoli che gli altri ti vorrebbero affibbiare. Un dolore che, spesso, rimane nascosto, racchiuso dentro tante azioni portate avanti con semplicità e quotidiana rassegnazione. Come fa “l’uomo più forte del mondo”, nell’omonimo racconto, quando rifiuta di allenarsi per poter vincere l’oro olimpico di lancio col giavellotto e preferisce restare a fare il buttafuori “in uno schifo di disco bar”. Come Silvano, nel racconto che ha per titolo il suo nome, che, espulso dalla sua occupazione di chierichetto, preferisce trascorrere il suo tempo “tra scogli pescatori e bestemmie”. O la protagonista di Chef pasticcere taumaturgo (sicuramente uno dei racconti migliori della raccolta), imbarcata per lavoro su una nave in mezzo a tanti marittimi uomini che, forse, riesce a superare il dolore rappreso nella dura quotidianità che sempre uguale si ripete, per mezzo della poesia che si trasforma in una vera e propria, ostinata “lotta di classe”: “Io continuo a considerare privilegiata la mia sopravvivenza, per origine e ostinazione. Attraverso l’analisi, cerco di isolare anomalie evidenti degli equilibri cosmici e con la poesia tento di aggiustare le cose. Per alcuni il mio senso dell’esistenza ha della lotta di classe, intenzione demodé nell’era dei media”.
La scrittura di Non siamo tutti qualcuno è in galera, si diceva, è sottilmente pervasa da una continua metamorfosi che permette alla stessa forma letteraria in cui agiscono i suoi personaggi di sfuggire a qualsiasi costrizione stilistica. La scrittura di Travaglini prosegue quasi per libera associazione ‘surrealista’, mentre un certo realismo che sembrerebbe promanare dalle sue pagine appare costantemente attraversato da un’aura onirica. Ad esempio, Un altro petrolio si apre con l’immagine aerea di voli di gabbiani e piccioni ‘cittadini’ per poi focalizzarsi su una delle tante signore che fanno la spesa al mercato, personaggio che poi diverrà il nucleo centrale della storia. La scrittura si trasforma perciò da descrittiva in psicologica; dal grande al piccolo, come una macchina da presa che compie uno zoom, da una descrizione cittadina solcata dai voli degli uccelli fino al ciondolo a forma di teschio che la signora porta al collo. Un altro movimento metamorfico che avviene nel racconto è quello dal fuori al dentro: da uno spazio aperto cittadino ad uno spazio chiuso e ristretto, la stanza dove vive la protagonista ma anche, metaforicamente, lo spazio più interno ed oscuro dei suoi meandri psicologici. Anche il già citato Chef pasticcere taumaturgo, per mezzo di una lenta e sottile metamorfosi, comincia e prosegue nello spazio di bordo delle navi, “enormi ventri di ferro che agitano vite come dadi” – come le navi sulle quali si giocano le vite dei personaggi di Marinai perduti di Jean-Claude Izzo o di Ilona arriva con la pioggia di Álvaro Mutis – per concludersi in un’aula scolastica (navi e scuola, entrambi spazi separati dal normale scorrere del tempo quotidiano, come la galera, del resto) per “spaccare la faccia alla Bulleri”. Un altro esempio di metamorfosi ‘strutturale’ è offerto da Ladri in bicicletta, la cui scrittura si inerpica sulla genealogia del protagonista per poi proseguire nella focalizzazione della sua vita segnata da una continua ed ostinata calma resistenza ad ogni ingiuria (anche nel continuare ad ogni costo ad essere se stessi, perciò, si può opporre un rifiuto alle convenzioni) e per concludersi, infine, sull’immagine di “sua madre immobile di fronte al tedesco che le urlava in faccia chissà cosa”. Un’altra metamorfosi che avvolge la scrittura, nel libro, può essere considerata anche la tensione continua verso l’immagine, già presente in nuce in quasi tutti i racconti: la raccolta è infatti corredata di alcuni disegni dell’autrice e del gruppo Tre Punti (Aldo Galeazzi, Annamaria Travaglini, Stefano Vullo).
I racconti di Non siamo tutti qualcuno è in galera possiedono quindi un brillante impianto narrativo caratterizzato da questa tensione continua verso un ‘altrove’, che è rappresentato dalle plaghe più surreali e oniriche della scrittura stessa e dalla forza visiva e immaginifica che promana dallo stile dell’autrice, uno stile che, grazie alla poesia, riesce a librarsi verso una tensione continua alla libertà. Come afferma Ettore Borzacchini in una conversazione con l’autrice che apre il libro, venata di irriverente e salace spirito labronico, “può darsi che qualche scriteriato ti dia la possibilità di pubblicare e di diffondere quello che scrivi e che un certo pubblico ti trovi gradevole, o – cazzo del cazzo – trendy. Non scrivere mai per loro, buzzurri, indifferenti e distratti. Scrivi per la Travaglini, che è sempre la meglio lettrice”. Le metamorfosi della scrittura, la sua poesia e la sua aspirazione alla libertà non sono fatte davvero per lettori buzzurri, indifferenti e distratti.    

 

 

                                                                                    

 

 

 

Annamaria Travaglini
Non siamo tutti qualcuno è in galera
Edizioni del Boccale, Livorno, 2015
pp. 100 

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