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Tuesday, 20 June 2017 00:00

Fuoco dei miei lombi

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"Io ti amavo. Ero un mostro pentapodo, ma ti amavo. Ero ignobile e brutale e turpido e tutto quello che vuoi, mais je t’aimais, je t’aimais! E c’erano momenti in cui sapevo come ti sentivi, e saperlo era l’inferno, piccola mia. Bambina Lolita, coraggiosa Dolly Schiller".



Se la letteratura, o almeno quella meritevole di tale nome, non ha nulla a che fare con la decenza, allora questo libro è un capolavoro, però attenzione: i moralisti si tengano lontani, quelli che interpretano tutto attraverso un codice morale, quasi misurassero scrupolosamente i centimetri della gonna pudica che deve ammantare ogni cosa.

Vladimir Nabokov in un commento a Lolita si vede costretto a difendere il suo libro e afferma: "Ci sono anime miti che giudicherebbero Lolita insignificante perché non insegna loro nulla. Io non sono né un lettore né uno scrittore di narrativa didattica e Lolita non si porta dietro nessuna morale. Per me un’opera di narrativa esiste solo se mi procura quella che chiamerò francamente voluttà estetica, cioè il senso di essere in contatto, in qualche modo, in qualche luogo, con altri stati dell’essere dove l’arte (curiosità, tenerezza, bontà, estasi) è la norma".
Lolita non ha nulla di morale o immorale, quasi con certezza è stato concepito dall’autore privo di qualsiasi vocazione etica, perché nella vera letteratura non c’è giudizio, ma solo l’impellente desiderio (e non bisogno) di raccontare una storia tra le tante storie umane troppo umane. Nabokov però scrivendo questo libro non ha tenuto forse conto che la platea di lettori autentici ne sarebbe uscita distrutta, perché sì, Lolita è un serpente che ti divora dall’interno, sparge il suo veleno e a tratti morde come una bestia feroce, fino alla fine, quando non ti resta che chiudere il libro e sentirti disperato.
La storia la conoscono in molti, divenuta famosa anche per le trasposizioni cinematografiche: un uomo di mezza età, un letterato, è quello che volgarmente definiremmo un pedofilo, ammaliato dalle ‘ninfette’, come ama chiamare le ragazzine dalle quali è ossessionato, si limita ad osservare il loro delicato e ignaro esistere, senza turbarne l’innocenza, finché non incontra Lolita, la dodicenne ninfetta che al primo sguardo sconvolgerà la sua vita per sempre. L’incontro tra il professore Humbert Humbert e Lolita è già il principio rivelatore di quello che sarà lo spessore poetico del libro, l’autore attraverso Humbert ci regala un momento, più che una pagina, talmente vivido e carnale da farci sentire nel luogo stesso in cui ha luogo l’incontro. Una serie di eventi porterà quest’uomo e questa ragazzina a peregrinare per le strade americane, notte e giorno, tra motel e alberghi di lusso, sfrecciando su corsie notturne fiancheggiate da vite a intermittenza come solo i neon illusori del nuovo continente sanno simulare.
Lolita è una ragazzina di dodici anni, come detto pocanzi, e possiede tutto quel fascino ancora rinchiuso e palpitante nel corpo acerbo già pronto a sprigionare il suo mistero femmineo, ma per il resto è una bambina, capricciosa e superficiale, iperattiva e disinteressata a tutto quello che non appartiene al suo mondo fatto di divertimenti e svaghi puerili. Humbert ci racconta questa storia, attraverso il filtro delle sue psicosi, tramite il codice poetico della scrittura consegna l’immortalità degli amanti infelici alla bellezza che è, in fin dei conti, il conforto e la sopravvissuta dea in un mondo debole schiacciato dalla morale. Quello che molti lettori hanno dichiarato è stato che il libro abbia un suo valore nelle prime pagine per poi apparire morente negli ultimi capitoli. Amici lettori sì, nelle prime battute è tutto una febbre, un desiderio, uno slancio, la turpitudine e la passione ci fanno precipitare in un delirio di scoperta e foga, il sentore che qualcosa stia accadendo, una frattura, oltre la quale chi è interessato solo all’appagamento dello slancio basico e pornografico si arresta per poi disinteressarsi del resto, perché sazio nella sua mitezza. La storia di Humbert ragazzo, l’incontro con Lolita, quella trama tirata alla maniacale registrazione degli eventi, nella nostra semplicità aspettiamo l’acme di queste dinamiche così allusive, l’evento banale del rapporto sessuale tra i due, il punto di non ritorno; qui tutto si spegne, la fabula è servita, da questo momento inizia la vera letteratura, quella che si occupa di luci e ombre per sfumare in un pulviscolo sudicio e magico, fatto di piccoli atomi, che sono la nostra pelle e non i nostri casti o volgari costumi.
Io mi inginocchierei, se potessi, di fronte alla perfezione e allo struggimento delle ultime pagine, un film non potrà mai rendere l’idea di questo uragano che spazza via tutto, vizi e ossessioni, narrazioni e nevrosi, per lasciare spazio in questa deriva alla forza più devastante attraverso la quale, se esiste un Dio, egli ci ha condannati. Per l’intero libro non conosciamo che il pensiero di Humbert, con le cose e le persone – Lolita compresa – veniamo a contatto attraverso di lui, quindi la ragazzina per buona parte del romanzo non è che una ninfetta speciale, superiore alle sue ancelle, ma pur sempre una ragazzina capricciosa e superficiale. È nell’ultima parte che, con la scomparsa di Lolita e l’incontro che avviene tra i due a distanza di molti anni, iniziamo a conoscere veramente questa ragazza, Lolita si umanizza ai nostri occhi grazie all’amore ormai rivelato e dolorosamente svelato di Humbert, colui che l’aveva celata eleggendola regina del suo mero desiderio.
Lolita è un oggetto per buona parte del libro, intorno a lei aleggia una narrazione confusa, perché è chiaro essere la prediletta, insostituibile, ma tutto ciò viene legato e giustificato dal solo slancio erotico di Humbert, ma alla fine Lolita risorge davanti a noi, e lo fa quando è sfiorita, gravida del figlio di un altro, ormai perduta. Questa ragazza spenta e contaminata ha ora il potere di uccidere Humbert col solo tocco, e lui indietreggia, non perché Lolita lo repelle, ma perché adesso più che mai è diventata la condanna vivente e morente del suo amante, il totem indistruttibile della sua colpa. Perché questo senso di colpa nasca in Humbert è necessario che in lui affiori finalmente la consapevolezza del suo amore, solo tramite questo canale può lasciare, come rami secchi alla deriva, i condizionamenti del desiderio malato e vorace per fare spazio in un gesto spossato e stanco alla vera immagine di questo amore che lui ha distrutto. Lolita ci viene restituita finalmente, Humbert ci regala la seconda vita di questa ragazzina, e lo fa con scene di una bellezza disarmante: lo sguardo assente di Lolita, colto ma ignorato, il suo mirare una scena paterna con struggente dispersione, il corpo di Lolita tramante e sfinito e la sua vista puntata verso un infinito che è solo vuoto perso tra la luce filtrata da una persiana chiusa.
La malattia di Humbert se prima era la presunta pedofilia, nella seconda parte è l'amore, una malattia aggravata dalla consapevolezza tarda di non aver saputo salvare l'oggetto del proprio amore da se stesso. Significativo e devo ammettere quasi insopportabile per sofferenza è il momento in cui il professore sale sulla collina e osservando il paese che si stende ai piedi del monte percepisce esclusivamente un coro di voci infantili, il solo rumore che proviene da quell’agglomerato di case e strade è il coro che formano le risate dei bambini e afferma: "E allora capii che la cosa disperatamente straziante non era l'assenza di Lolita dal mio fianco, ma l'assenza della sua voce da quel concerto di suoni". Lolita è morta nel mondo dell’infanzia, la sua voce da ninfetta è assente da quel coro melodioso, qui il vero strazio di Humbert, del lettore e dell’intero romanzo. Il libro di memorie che scrive è l’ultima testimonianza di quanto accaduto, ed è all’arte che il professore Humbert Humbert consegna la loro immortalità, quella dimensione senza colpa e senza giudizio, eternamente bella nelle sue declinazioni, anche le più terribili.

 



Vladimir Nabokov
Lolita

traduzione Giulia Arborio Mella
Milano, Adelphi, 1996
pp. 395

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