“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 05 May 2017 00:00

Papi per caso. A proposito di Paolo Sorrentino

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C’è un tipo di inquadratura frequente in The Young Pope di Paolo Sorrentino in cui il papa, di spalle o di tre quarti, esibisce un dettaglio non da poco dell’ormai celebre, leccatissima pettinatura: una sfumatura perfetta, fresca fresca di barbiere. Non se ne vede mai uno, di barbiere, nelle lunghe ore di ozio vaticano della serie, ma viene spesso in mente quel pezzo di Roland Barthes intitolato Les Romains au Cinéma, in Mythologies. Parla del Giulio Cesare di Mankiewicz e dice che il vero autore del film è il coiffeur, per via della frangetta da antico romano posta in capo a ciascun personaggio.

Il pensiero corre poi a una delle prime frasi di un romanzo di Sorrentino, Hanno tutti ragione (2010): “Solo una cosa sopporto”, scrive dopo aver snocciolato una lunga lista di cose che non sopporta. “La sfumatura”. Naturalmente questa associazione mentale non è che una battutina di basso conio. Parliamo di due sfumature diverse, quindi siamo nell’ambito dell’automatismo verbale, giochino da psicanalisti. Eppure la freddura, l’arguzia linguistica, perfino la barzelletta scema, pronunciata magari col viso smorto di un serissimo Titta Di Girolamo, sono parte non trascurabile del materiale narrativo e stilistico del regista napoletano. Anche solo la scelta dei personaggi biografati nei suoi film più politici, da Andreotti a Berlusconi, rivelano una certa attrazione per i barzellettieri nazionali e per quel legame magico tra Witz e potere. Inoltre, quando verrà Berlusconi, protagonista di un film finora solo annunciato, la pettinatura da giocatore di calcio-balilla di papa Lenny Belardo (in realtà c’è tutta una tradizione di arte sacra cartapestaia alle spalle) non sarà che un esercizio preparatorio nella timeline della filmografia finale. In fondo, dai papi a Papi il salto linguistico è breve.
Scherzi (non) a parte, in Sorrentino, come in Freud, sogno, lapsus e motto di spirito hanno meccanismi di funzionamento simili, e inciampare sulle parole – nel caso di un prete, addirittura un papa – non corrisponde a un semplice atto mancato, ma a una rivoluzione mancata. Perché i preti appartengono per antonomasia a quella categoria di soggetti che, secondo la teoria degli atti linguistici, “fanno cose con le parole”: dichiarano mariti e mogli, assolvono dai peccati, battezzano, operano transustanziazioni... The Young Pope comincia con un sogno del protagonista che subito, al suo primo discorso in Piazza San Pietro, esorta i fedeli a essere in armonia con se stessi prima ancora che con Dio, dunque li invita a usare i contraccettivi, masturbarsi senza complessi, abortire senza sensi di colpa, celebrare matrimoni senza ingabbiare l’orientamento sessuale dei coniugi, permettere agli esponenti del clero di amarsi liberamente, etc... etc... Solo un attimo dopo si scopre che era un sogno. Abbiamo scherzato.
Nella sua prima omelia vera, invece, colui che ha scelto di chiamarsi Pio XIII, e non nasconde il suo cattolicesimo arcaico e conservatore, parla del rapporto esclusivo tra uomo e Dio. “No room for free will”, dice. Nessuno spazio al libero arbitrio. Sembra la realizzazione a scoppio ritardato, in ambito cattolico romano, del protestantesimo ascetico di cui parla Max Weber nel suo saggio sull’etica protestante e lo spirito del nascente capitalismo. Un ascetismo rock, fatto di sigarette e incenso, tuta ginnica e tiara, palestra e penitenza, Coca-cola e oscurantismo grazioso, reso benvoluto più che benevolo, come qualunque agguerrito ufficio stampa del potere deve saper fare. Praticamente la storia del papato ai nostri giorni.

Ci sarebbe un altro papa giovane e bello che esteriormente ricorda questo Lenny. È quello di Guido Morselli, in Roma senza papa. “Il bellissimo viso fratesco (dicono che abbiamo il più bel papa dei tempi moderni) guarda con una dolcezza ispirata e un po’ astratta”; molti piani di The Young Pope – quelli che puntano agli occhi di Jude Law, non alla sfumatura sulla nuca – potrebbero essere letti come la messa in quadro di questa frase di Morselli. Eppure quel Santo Padre è un Santo Figlio delle tensioni sociali e teologiche degli anni ‘60, non a caso si fa ribattezzare Giovanni XXIV e ha da tempo abbandonato Roma per andare in periferia, come gli avrebbe consigliato Pasolini, che in un articolo del ‘74 esorterà il papa a cedere paramenti e armamentari sacri a Cinecittà e trasferirsi dalle parti di Tormarancio o del Tuscolano (anche se Giovanni XXIV sta, per la precisione, a Zagarolo e, nei buffi cortocircuiti citazionisti postumi, finisce per ricordare più che altro Ultimo tango a Zagarol, film di Nando Cicero con Franco Franchi).
Nella Chiesa fantasticata da Morselli irrompe, malgrado tutto, il ‘900. È una Chiesa che, per evitare di essere superata (perché vige ancora il concetto moderno di superamento), rinuncia e si adatta. Va in cerca di una psicanalisi cattolica (trattando le ombre della psicanalisi come cosa salda e non già come divertimento per intellettuali, soprattutto del ramo Lettere); il suo papa tiene i classici dell’antropologia sul comodino, è agorafobo, timido e cunctator; ma cunctator e laconico per indole, perché in fondo insicuro e ritroso, non per scelta di stile. Il suo è uno stile per caso, mentre Lenny, che può appendere il ‘900 nella sua galleria di quadri della sigla iniziale, è tutto calcolo; conosce i paradossi del mercato e la visibilità accecante dell’invisibile. Si barrica nel cuore stesso della caput mundi e non fa mistero del suo essere reazionario. Un reazionario di successo in un mondo in cui il successo è il nuovo segno della grazia divina. Quando nel terzo episodio racconta il conclave che lo ha eletto, Pio XIII è papa per caso. Potrebbe essere un attore reduce dalla notte degli oscar, un cantante ai grammy awards o un giovane talento sul palco di un talent. Senza filtro, confessa di aver pregato soltanto affinché gli altri cardinali scegliessero lui. Più che giudice, Dio è giurato; e il pubblico, che ancora non vota da casa, è comunque invitato a simpatizzare col vincitore. Solo per questo, perché ha vinto.
Che il successo sia un segno divino lo dice a suo modo anche Tony Pagoda, il personaggio letterario che accompagna Sorrentino da anni, il suo alter ego dark e (neo)melodico. “Dimenticatevela la fortuna, se io sto qua da solo e voi tutti là, raggruppati nella platea come sfollati, una ragione tonda e pulita c’è. Ed è, semplicemente, che io sono meglio di voi”. Così parlò Pagoda, sempre in Hanno tutti ragione. Un santo da palcoscenico con una visione del pubblico un po’ da marchese del Grillo (io so’ io, e voi...), testimone scomodo di un’etica a suo modo protestante (nel senso weberiano che abbina grazia a successo) e camorrista, dato che un’altra massima di Tony, cantante che non disdegna relazioni pericolose, avverte: “Se c’è un ambiente che non ammette deroghe alla meritocrazia, stai tranquillo che quello è l’ambiente del crimine”. In fondo Napoli è la città dove meglio si effettua quella saldatura fra spirito del capitalismo ed etica della malavita, come tanta letteratura sul fenomeno malavitoso sembra indicare (meglio brandire come spada una buona appendice bibliografica, per evitare querele sul portale del sindaco De Magistris). E sempre dalla Campania viene Achille Bonito Oliva, critico d’arte tra i primi a impegnarsi a superare il superamento (transavanguardia) e a dire che non c’è arte senza successo, che valore estetico e valore di mercato coincidono e che i Van Gogh non si tagliano più l’orecchio, perché costano subito un occhio della testa.
I critici d’arte e il mercato, come Dio, i preti e le agenzie di rating, fanno cose con le parole. Non individuano virtù e difetti, li creano. E i personaggi del nostro regista di maggior successo internazionale l’ossessione del successo sembrano averla avuta sempre. Sin dall’esordio a basso costo, sin da L’uomo in più (2001), è un cinema che parla un linguaggio binario: ce l’hai o non ce l’hai, il successo. Forse l’hai avuto e adesso non ce l’hai più. Magari tornerai ad averlo, se saprai attendere la grazia. E cosa dice Frank Sinatra in persona a Tony Pagoda? “Il successo sta sul cesso”, luogo eccelso della paziente attesa. Ecco un significato profondo che rischia di scaturire da un motto di spirito nato solo da un’assonanza superficiale e malandrina. “Mondo mondo vasto mondo / se io mi chiamassi Raimondo / sarei una rima, non sarei una soluzione”, dice il poeta brasiliano Drummond de Andrade, pensando ancora che ci possa essere una soluzione fuori dal guizzo linguistico.
A corollario del successo, inteso come maggiore o minore visibilità sociale – oggi, per intendersi, si direbbe social, e non importa che Lenny, per essere più visibile, abbia scelto di non apparire in pubblico – si aggiunge che i suoi personaggi scopano assai o non scopano affatto. Tutto il loro rapporto con la vita si riassume nella posizione del missionario: chi sta sopra e chi sotto (il che ricorda anche una vecchia canzone di Renzo Arbore, giocata proprio sulle rime baciate e sbagliate).

Non si tratta tanto di affermare un progetto, ma di affermarsi. L’elezione al pontificato, prima ancora che l’affermazione di un nuovo corso teologico, è il mero raggiungimento di un traguardo, una promozione. Una vittoria che merita e reclama consenso in quanto tale, come nelle dirette televisive notturne dai seggi elettorali, da Roma a Parigi a Washington. Guai attaccarsi troppo alle idee, intralciano la marcia. E non è cinismo, è atletismo. Il cinema di Sorrentino nasce proprio con la storia di un soccombente (per dirla alla Thomas Bernhard), l’atleta Antonio Pisapia, il calciatore con un’etica di gioco e un’idea tattica ossessiva (l’uomo in più, appunto) che gli rovinerà la carriera e lo porterà al suicidio. Appassionarsi a qualcosa, qualunque cosa, ci espone alle “conseguenze dell’amore”. E si pagano.
Nel gioco della vita il fine ultimo, la meta cui ogni uomo di successo deve saper tendere è, neanche a dirlo, il goal. A ogni costo: sia dopo una sgroppata eroica da metà campo, sia con un leggero tocco di mano che l’arbitro non vede. Sorrentino l’ha sempre detto: Maradona magister vitae. Non a caso il cardinale Voiello/Silvio Orlando ne osserva rapito i video, fotogramma a fotogramma, come grani di un rosario ben noto. D’altronde il calcio è il rito per eccellenza dei nostri tempi, cerimonia religiosa solo fisica, senza trascendenza. Fantasia senza immaginazione. Propugnare una Chiesa sportiva è volere una Chiesa che non cambia, eppur si muove (Galileo è rimorto).
Poi viene Tony Pagoda a ricordarci che, a volte, a far goal sono i più ottusi, proprio perché essi vedono unicamente la porta (una sorta di cretinismo ascetico, come nel San Giuseppe da Copertino riletto da Carmelo Bene, qui in versione calcistica). Gli altri si perdono nel palleggio. Che è dialogo. I dialoghi in Sorrentino sono sempre più palleggi o dribbling. Funzionano, ancora una volta, come un motto di spirito, con la scarica finale di estro/eros, come appunto un goal dopo una lunga azione. Le opinioni non contano. Che opinioni può avere un dribblatore? Hanno tutti ragione, ma poi uno avrà più ragione degli altri. Conta dunque l’agilità con cui fintare l’attesa dell’altro. L’incontro fra il giovane papa e il giovane premier italiano, in questo senso, è un pezzo esemplare, ma non unico. “Ti è piaciuta la mia omelia?” Chiede papa Lenny al cardinale Voiello, nel terzo episodio. “Questo non è il punto”, risponde il cardinale partenopeo. “Il punto è che i fedeli sono rimasti sorpresi”. È del profeta il fin la meraviglia. La paracitazione marinista sarà vecchia, abusata e anche un po’ decontestualizzata, ma Sorrentino sembra davvero la gemma più recente nel secolare ramo del marinismo italiano (e napoletano). Lo dice il fraseggio dei suoi libri e dei suoi film.
E a questo punto, altra memoria involontaria per spettatori di una certa età, viene in mente un vecchio sketch di Silvio Orlando. Agli inizi della sua carriera di comico, nel programma L’Araba Fenice, il futuro cardinale Voiello e attore simbolo di un bel po’ dell’ultimo cinema italiano d’autore interpretava un critico cinematografico che, la voce strozzata, urlava a un pubblico vociante: “Il cinema d’autore è vivo!”. Per poi presentare il grande cineasta seduto al suo fianco: Pedro Alvarez Montecucco (David Riondino), che a sua volta presentava i suoi film, tutti fatti di inquadrature bislacche affastellate come la punteggiatura di Totò e Peppino nella famosa scena della lettera. Campi, controcampi e piani-sequenza, giusto per non far vedere che siamo provinciali. Potrebbe essere la descrizione del cinema di Sorrentino nella penna di un critico che non ama i suoi barocchismi. Oppure una delle tante parodie online, come l’ottimo generatore automatico di “prossimi film” sorrentiniani. Però è un esempio di stilistica coerente, ed è normale che il marchio stilistico forte non solo generi parodie, degradando dal serio al buffo, ma legittimi la buona parodia in quanto meccanismo serio di analisi e decostruzione del modello parodiato. A proposito di Ultimo tango a Zagarol, anche in quel caso qualche critico disse che era superiore all’originale parigino di Bertolucci.
Se poi si aggiunge che le interviste al grande Montecucco avvenivano sotto il busto di un poeta barbuto (appunto Giovan Battista Marino), che in altri momenti del programma Orlando decantava campanilisticamente come immenso poeta napoletano, allora è quasi un cerchio che si chiude. Una parodia in anticipo di qualche decennio, la profezia farsesca di una rinascita barocco-pop del cinema italiano d’autore in nuce in un programma di Antonio Ricci, considerato, da Drive in in poi, l’anticipatore di molta parte del nostro carattere nazionale di fine secolo. Uno scorcio di secolo che ha visto nascere Papi Berlusconi e i papi superstar; flora, fauna e ossigeno nell’universo cinematografico sorrentiniano.

 

 

 

The Young Pope
ideazione e regia Paolo Sorrentino
sceneggiatura Paolo Sorrentino, Stefano Rulli, Tony Grisoni, Umberto Contarello
con Jude Law, Diane Keaton, Silvio Orlando, Javier Cámara, Scott Shepherd, Cécile de France, Ludivine Sagnier, Toni Bertorelli, Stefano Accorsi, James Cromwell
fotografia Luca Bigazzi
montaggio Cristiano Travaglioli
musiche Lele Marchitelli, Bill Conti
costumi Carlo Poggioli, Luca Canfora
scenografia Ludovica Ferrario
produttori Jude Law, Ben Jackson
casa di produzione Wildside, HBO, Haut et Court TV, Mediapro
paese Italia, USA, Spagna
lingua originale italiano, inglese, spagnolo
colore a colori
anno 2016
durata 10 episodi (46-60 min.)

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