“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 25 April 2017 00:00

Frammenti implosi di gioventù bosniaca

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Il mio fiume di Faruk Šehić (Mimesis, 2017), romanzo vincitore del Premio Letterario dell'Unione Europea nel 2013, è un libro che si apre a diverse chiavi di lettura: fin dall'inizio vorrebbe essere una riflessione sull'infanzia, sul tempo e sulle cose perdute – esercizi lirici di memoria in salsa balcanica. Ma a poco a poco, come una pressione incombente, la guerra irrompe nella storia, la piega a sé, ridisegna il mondo reale e quello narrato, riforgia la memoria costringendola a guardare ai suoi lati oscuri e rimossi.

“Tutto mi allontanava dall'intenzione originaria: non ne potevo più di me stesso, del mio scrivere sulla guerra e sulle sue conseguenze. Desideravo fuggire verso il luogo idilliaco della mia infanzia sul fiume Una. Ma non volevo che fosse il classico romanzo di formazione” (p. 192).
L'infanzia sul fiume è un lungo prologo che introduce ai misteri dolorosi dell'età adulta – la guerra, l'identità, le scelte irreversibili.
Il libro si dipana lungo questa traiettoria: dalla dimensione del ricordo individuale ed esistenziale, all'immersione nella tragedia collettiva; dalla natura fluviale dell'Una, alle macerie fumanti della guerra fratricida, tutto consumato nei pochi anni infuocati di una giovinezza bosniaca.
Man mano che si procede la narrazione diventa fluida, proprio come lo scorrere di un fiume, con tanti livelli di memoria che si sovrappongono, confondendosi, come le correnti fredde fluviali sotto la superficie. L'io narrante, grazie a un ipnotista da circo, si abbandona passivamente a questo flusso di coscienza e tutto riemerge, con crudezza e delicatezza allo stesso tempo.
“Tutto era al servizio della nostra patria, la quarta forza militare della terra, delle cui ali militari d'acciaio eravamo così orgogliosi che perfino gli arbusti dei piccoli alberi del parco cittadino erano stati seminati con metodo e precisione geometrica affinché questo ordine andasse a formare una grande e frondosa stella a cinque punte. Nei cespugli della grande e frondosa stella a cinque punte, facevano il nido i pettirossi, la classe operaia degli uccelli, quel magnifico esercito dall'aspetto uniforme, che non si distingueva per le sue capacità canore, ma era una gioventù pragmatica e obbediente, che costruiva senza sosta case grigie e pencolanti fra gli arbusti di un albero che dava frutti dal succo rossiccio e dal gusto amaro” (p. 27).
L'infanzia nella Bosnia rurale, un territorio di montagne e fiumi che furono vallo e cerniera tra il mondo ottomano e l'Europa, non ha un sapore arcadico. La natura non è più incontaminata, l'innocenza della campagna e dei suoi figli sta cominciando a corrompersi (siamo negli anni '80), tutt'intorno si avvertono gli scricchiolii dell'edificio titoista, il maestoso fondale pieno di crepe del socialismo autogestionario: le sue retoriche  educano tre generazioni di giovani all'orgoglio iugoslavo, ma non impediranno l'esplosione del virus nazionalista, quando l'organismo socialista malato, pochi anni dopo l'89, perderà le ultime difese immunitarie.
Il mondo contadino, i suoi miti ancestrali, sono lo specchio della memoria: qualcosa che l'autore racconta come fosse quasi a portata di mano, pur appartenendo, di fatto, a un pianeta imploso.  Rupi, torrenti, bislacchi abitatori di villaggi balcanici, l'andirivieni poetico tra leggenda e realtà tipico dell'infanzia, fino all'impatto con la guerra: il “prima” e il “dopo” che spezza ogni vita, ridisegna la geografia politica, riempie cimiteri e fosse comuni, sbaraglia a colpi di cannone equilibri comunitari secolari. Qui il flusso di coscienza diventa dolente, stupito e rassegnato allo stesso tempo: non è solo dei Balcani che si sta parlando – la guerra è piantata dentro il destino umano, come una possibilità sempre pronta ad esplodere inaspettata.
Tema spesso affrontato dalla letteratura: qual è l'impatto dell'esperienza della guerra, quando essa precipita improvvisa sull'uomo qualunque e lo costringe alla milizia, allo schieramento attivo?
“... La mia biografia è una sequenza di casualità. Molte le ho scelte io, mentre altre hanno scelto me. Alla fine, se potessi spiegare tutto a me stesso, scaverei una fossa e mi ci sdraierei vivo, perchè la vita non ha senso. La mia biografia è sangue e carne, non entertainment. Io sono da qualche parte nel mezzo. Io sono uno, ma siamo migliaia, indistruttibili e spezzati. [...]. Una volta mi chiedevo perché. Perché uccidere? Adesso conosco la riposta e mi è indifferente. Non ho rimorsi per quegli uomini che immagino come spettri in fotografia a cui con un paio di forbici hanno decapitato la testa. Ancora un po' di tempo e scivoleranno nell'oscurità.  (pp. 12-13).
Ma se una lezione viene dal racconto di questo miliziano poeta e antieroe, è proprio che nessun oblio è possibile. I ricordi possono essere solo annegati dentro altri ricordi, non cancellati. Per quanto la memoria tossica delle atrocità stravolga l'individuo, la vita misteriosamente va avanti, scorre proprio come quel fiume sulle cui rive l'autore visse un'infanzia serena a caccia di rane e a pesca di trote.
Il fiume, l'Una, “continuerà a scorrere anche dopo che avrò finito il mio racconto” (p. 189).
Del suo presente, la Bosnia di oggi, la voce narrante racconta poco. Il tempo presente è fatto di confusione e disillusione. Sulle macerie dell'utopia federalista non sorge nessuna nuova prospettiva e, venti anni dopo la guerra, le anime in pena dei Balcani continuano ad aggirarsi incompiute, in mezzo alle rovine. Cos'è la Bosnia oggi, per un giovane che entra nell'età adulta, vent'anni dopo gli eventi raccontati da Faruk Šehić?
Disoccupazione di massa, enclave salafite finanziate dai petroldollari, traffici di ogni genere a cavallo fra tre o quattro frontiere porose.
La guerra, nei Balcani come altrove, lascia una testimonianza: gli uomini allo sbando, quando collassa un sistema di valori, raccattano i primi che trovano a portata di mano – generalmente i più rozzi e primitivi – pur di riconoscersi intruppati dentro un'identità qualsiasi. Ma alla lunga, l'ideologia del branco etnico non basta a ricostruire un orizzonte di senso, un progetto collettivo di vita.
Resta la memoria condivisa, la letteratura di testimonianza, le molti voci poetiche di quelle terre, come un'interrogazione aperta sul destino dell'Europa.

 

 

 

Faruk Šehić
Il mio fiume
traduzione di Elvira Mujčić
Edizioni Mimesis, Milano-Udine, 2017
pp. 208

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