“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 16 March 2017 00:00

Il guappo di Eduardo, il boss di Martone

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La scena
Martone colloca Il sindaco del Rione Sanità su una pedana trasparente, quadrata (concretizzazione di quel mondo “meno tondo e più quadrato” cui aspira Barracano) e contraddistinta da tratti che ne fanno un labirinto: base domestica volutamente simbolica, rappresenta uno spazio nel quale chi lo abita ritorna sui suoi passi, sulle stesse dinamiche, su traiettorie quotidiane, ripetute e che non prevedono uscita definitiva (fisica e mentale). Questo è l'orizzonte prospettico, il contesto d'azione e – nella logica dell'autoreclusione da clan – il bunker in cui il boss ed il suo gruppo si riuniscono, tramano, ricevono o sequestrano, ascoltano o interrogano, operano, regolano conti, minacciano e  schiaffeggiano.

D'altronde Eduardo De Filippo ci dice che Antonio Barracano è una “belva intristita” costretta “a vivere in cattività”, “una bestia” di cui è necessario osservare ogni movimento, ogni sguardo, ogni posizione: una pantera in gabbia, viene da scrivere, o – se si preferisce una metafora diversa – un pugile costretto a combattere il suo incontro col resto del mondo standosene segregato (quasi) sempre tra le corde di questo ring. E ancora, in cerca di conferme: cos'è che dice il suo secondo, il suo compagno, ovvero il medico Della Ragione? “Mi tenete con voi come un prigioniero, in ostaggio” e “sono stanco di girare a vuoto”: proprio ciò che capita in una galera; ciò che succede se sei in un labirinto. E infatti – ulteriore conferma – la pedana si regge su una rete metallica che fa da bordo esterno e che genera una sotto-gabbia ulteriore nella quale – secondo il progetto originario dello spettacolo – avremmo dovuto vedere un cane vero: uno dei mastini di Barracano, di Barracano cioè l'equivalente animalesco.
Su questa pedana Martone colloca accenni d'arredo, di servizio alla trama: un divano a tre posti nell'angolo posteriore sinistro; sul fondo a destra un paio di mobili bassi; un tavolo che funge – nella neutralità anestetica e incolore datagli da uno stile d'arredamento moderno – tanto da luogo in cui fare colazione (il pane inzuppato nel latte) quanto da lettino operatorio (le lenzuola ospedaliere usate quando si deve estrarre il proiettile dalla coscia di 'O Palummiello). In aggiunta: una porta sul fondo, che funge da ingresso; un carrello coi ferri del mestiere, utili al medico; un paio di postazioni in aggiunta al palco e che fanno da balcone ossia da posizione di sosta, da angolo del ring, da zona di riposo, di riflessione o di ostentazione: sulla sinistra il balcone serve momentaneamente ad estraniarsi o prendere fiato (lì, ad esempio, Catiello/Adriano Pantaleo fuma o smanetta con lo smart) mentre quello anteriore e centrale porta gli attori a meno di un metro dalla prima fila e funziona perciò da ribalta, proscenio ulteriore, avamposto dimostrativo.
Questo interno – il contrario dello “stanzone gradevole, luminoso”, contraddistinto da “un'ampia vetrata” così come prevede il testo di Eduardo – è cinto dal nero dalle pareti nude del teatro: lo sormontano infilate di luci e due pannelli con dentro neon fissi: illuminazione da sottoscala, da palestra o da sala operatoria. Siamo ancora “ai piedi del Vesuvio, verso Terzigno o Somma Vesuviana” ma in un ambiente più costrittivo, infossato, buio.
Quando col terzo atto l'azione di sposta nell'ampia “stanza da pranzo dell'appartamento sito nel rione della Sanità” Martone sostituisce le lenzuola bianche che, secondo Eduardo, coprono tutti i mobili con veli dorati: è il segno più evidente della ricchezza kitsch del camorrista. Diventano dorati i pannelli superiori, sono orlati d'oro i bicchieri, fregiati d'oro i piatti, dorato è il beccuccio della brocca, dorato è il vassoio su cui viene portato il pollame, dorata è la tovaglia; dai riflessi dorati è il lampadario a dieci luci che cala dall'alto; dorati diventano i mobili sul fondo, compresa la base della lampada che vi sta sopra; giallo-dorata è la busta di plastica in cui circolano i contanti. Per quanto lo spazio sia contraddistinto dall'innalzamento della quarta parete (le dinamiche attorali sono interne; Barracano/Di Leva si specchia ponendosi nell'angolo anteriore sinistro o siede in poltrona dando le spalle a spettatori che non esistono) siamo in presenza di una scenografia testimoniale, direi quasi epica: guardate bene ciò che accade e prendetene coscienza, sembra dirci.
D'altro canto lo smascheramento della teatralità avviene di continuo giacché di continuo vengono usate le scalette d'accesso al palco e l'uscita laterale della sala, il cambio-scena avviene a vista e accadono nel golfo mistico tanto lo sparo con cui 'O Nait colpisce 'O Palummiello quanto la coltellata con la quale Arturo Santaniello ferisce Barracano: gli eventi non avvengono più “altrove”, per dirla con Nicola De Blasi, bensì in un altrove che è qui e non sono più “solo raccontati” ma offerti allo sguardo del pubblico e cioè al pubblico condivisi e (di)mostrati. Conseguenze del fatto che Il sindaco del Rione Sanità “è una commedia simbolica, non realistica, che parte da un personaggio vivo, vero, che affonda le proprie radici nella realtà ma si sgancia da essa”  –  come affermò Eduardo nel 1962? Può darsi, anche se io credo che ci sia un altro motivo: responsabilizzare chi sta guardando.
Tant'è che questa coabitazione di due opposti (l'immedesimazione attorale e l'epicità) viene confermata da molti aspetti dello spettacolo; cito, ad esempio, la posizione assunta dall'incontro/scontro dialogico che avviene tra Arturo Santaniello e Barracano: siedono frontalmente; frontalmente si affacciano dal palco chiacchierando di terre e abusivismo edilizio, di corruzione e di tangenti; stando l'uno di fronte all'altro – al centro, sempre in zona anteriore – Barracano racconta a Santaniello l'uccisione di Gioacchino, avvenuta anni prima: s'altera, accelera il dettato, sbuffa, le vene del collo gli s'ingrossano, s'arrossa il viso finché, stretto il pugno destro – “la mano quando parte è automatica” –  adesso (ri)simula le dieci coltellate che diede allora. Perché tutto ciò avviene davanti, in maniera evidente e dunque esposta? Perché sia chiaro ad ogni spettatore la relazione che queste dieci coltellate frenetiche e violente hanno con l'unica coltellata – fredda, precisa ma ugualmente omicida – che meno di un'ora dopo Santaniello darà al fianco di Barracano. In questo senso va letta anche la morte di Barracano che non avviene fuori scena, come prevede Eduardo, ma mentre è seduto con i commensali: il mento tocca il petto, il braccio destro si distende morbido mentre – a una tavola posta in orizzontale, perché si realizzi ancora la frontalità – il medico Della Ragione e Santaniello sono chiusi nei propri pensieri (il primo a mani giunte, intento all'ultima preghiera; il secondo con lo sguardo basso di chi sa di essere colpevole) mentre tutti gli altri iniziano a mangiare: squallidi (moralmente), volgari, unti alle dita. L'esposizione dell'istante fatale, dunque; il corpo sacro che fa dell'ultima cena una deposizione cristiana.
La ragione? Enrico Fiore, su Controscena, ricorda la già citata intervista eduardiana: Barracano “si divinizza”. A me pare che la costruzione di questo momento debba molto a ciò che scrive Anna Barsotti nell'introduzione al terzo volume della Cantata dei giorni dispari: dopo essere stato un “sovrano enigmatico” che domina con lo sguardo (primo atto), ed un loico che “si sforza di parlare” (secondo), nel terzo atto il personaggio diventa un “Christus patiens”: “Per l'ultima cena da lui stesso concertata” – scrive la Barsotti – “attorno al tavolo centrale riunisce i discepoli fedeli e quelli infedeli; accanto al suo posto è seduto il giuda che l'ha colpito a tradimento, il padre di Rafiluccio”. Vittima della fede di cui s'è fatto primo esempio, testimonianza carnale e predicatore instancabile – divinità fattasi uomo e dagli uomini tradita (Vincenzo 'O Cuozzo, che prima lo definisce “un santo” e poi dimentica il miracolo che da questo santo ha ricevuto) – Barracano cala il capo come Cristo cala il capo sulla croce. D'altro canto lo stesso Eduardo come definisce Della Ragione? “Il discepolo che non ne può più dei metodi del maestro che ha adorato e che decide di cambiare” facendo della ragione (nomen omen) la sua nuova fede: “In fede” gli sentiremmo infatti dire se Martone non avesse deciso di tagliare il monologo conclusivo riducendone la reazione a un coltello che batte su un bicchiere – “Chi è stato?” chiede la cameriera; il coltello rimanda al padre di Rafiluccio – prima che il medico dica l'ultima frase dello spettacolo: “Santaniello, rispondete voi”. Torna così l'epicità politica e la presa di coscienza che la messinscena vuole generare (nel pubblico): la richiesta di onestà, il bisogno di verità e di un cambio etico-comportamentale coinvolge l'intera platea e non riguarda più solo un personaggio.


Tra gli elogi, un dubbio (drammaturgico)
Qui a Napoli arrivo da buon ultimo a scrivere de Il sindaco del Rione Sanità, arrivo – cioè – dopo aver letto ed essermi confrontato con l'ininterrotta serie di recensioni che ne sottolineano il valore. “Miracolo” è un termine che torna spesso, “rivoluzione riuscita” leggo, “allestimento straordinario” è una formula replicata puntualmente. Le valenze sociali, dovute anche al contesto urbano cui il teatro Nest appartiene e in cui agisce; la presenza di interpreti evidentemente ancora in formazione, cui è data la possibilità di crescere recitando accanto a chi conosce il mestiere; l'importanza di lavorare sulla tradizione perché non sia giacenza museale ma spettacolo vivente; la complessità di un'operazione produttiva che unisce gli sforzi del Nest, di Elledieffe, dello Stabile di Torino e che congiunge, tiene assieme, pone in stretto rapporto (non ideale ma effettivo e perdurante) Luca De Filippo a Francesco Di Leva e i ragazzi dello spazio di San Giovanni.
Più di una recensione – più di ogni recensione – parlano i fatti: la sala è piena; lo spettacolo genera una mobilità dal centro alla periferia (che spero continui quando non fungeranno da richiamo Martone e un titolo di Eduardo giacché lo sforzo del Nest – e dei teatri come il Nest – è votato soprattutto al giovane teatro italiano, ai nomi ancora sconosciuti, alla nuova drammaturgia) e inoltre: al termine di ogni replica si registrano applausi scroscianti e – me ne rendo conto immediatamente – questo Sindaco riesce a generare in chi vi assiste empatia, partecipazione emotiva: uno spettatore, rapito dalla trama, ne anticipa le battute mentre altri, alla fine, sentono il bisogno di alzarsi in piedi così ringraziando per lo spettacolo veduto.
Rispetto a tutto ciò non ho che da offrire qualche dubbio che non riguarda tanto le contraddizioni scenico-poetiche (nel Sindaco convivono la canzone rappata al microfono e la verisimiglianza delle ferite sanguinanti, l'alcol versato nel catino e una lama inesistente) che mi sembrano la conseguenza del tentativo di realizzare una responsabilizzazione collettiva che dal palco si estenda alla platea: i dubbi riguardano invece questo Barracano e, scrivendolo, non mi riferisco all'interpretazione – Di Leva è crudele e umano, riesce ad essere pater e padrone, mostra forza e debolezza – ma alla sua caratterizzazione drammaturgica: le parole che dice (vecchie) rispetto ai gesti che compie (nuovi).
Questo Barracano ha poco più di trent'anni, appena sveglio indossa una tuta col cappuccio, cammina scalzo, ha il fisico glabro e muscoloso e quando dialoga con Della Ragione usa la panca per gli addominali – mobilità da recluso: mi vengono in mente i carcerati che si dedicano all'attività fisica e gli sportivi che si tengono in allenamento ogni giorno ma è anche un rimando a una battuta: “Don Anto', voi avete una fibra d'acciaio e una salute di ferro”.
Questo Barracano dopo gli esercizi si asciuga la schiena con un asciugamano bianco da palestra e, guardandosi allo specchio, si tocca la mascella inferiore: come fosse un pugile. Questo Barracano ha la barba folta, indossa una cravatta blu elettrico su abiti scuri, porta una fede d'oro bianco, si aggira tra ragazzi dai giubbotti di pelle, cappellini con visiera e capelli rasati, donne dagli orecchini grossi e tondi, cameriere che vestono t-shirt leopardate e bambine che hanno maglie nere con decori dorati e scarpe luccicanti. Tatuaggi, qualche gioiello, stivali di pelle (i poveri, Rafiluccio e 'O Cuozzo, invece hanno felpe monocolori e scarpe da ginnastica).
Questo Barracano è un boss del 2017, che opera nel 2017 e che nel 2017 muore. Attualizzazione comprensibile, prossima non alla fiction  ma alla cronaca giacché sappiamo che la camorra – che è guerra tra bande e non un sistema centralizzato e unitario com'è la mafia – brucia vite acerbe ammazzando di continuo: i barbudos, gli scissionisti, le paranze; le gang a protezione delle piazze di spaccio; i ragazzini che, zaino in spalla, fanno da corriere; la manovalanza minorile dominata da capo-clan trentenni o poco più. Guardarli in tv, quando sono arrestati, e sorprendersi: ma quanti anni hanno? Ma a che età hanno cominciato?
Attualizzazione che però mi porta a una domanda: Antonio Barracano, quello di Eduardo, era davvero un boss? Era proprio un camorrista?


Alla ricerca del vero Barracano
Sappiamo che Eduardo trae dal vero facendone spettacolo: legge gli articoli di giornale; studia Napoli – “questo paese curioso” che è un “teatro antico” –; si dirige anche nei tribunali così mettendo in fila “una serie di personaggi” tratti dal reale. E nel caso di Barracano? Il riferimento è Luigi Campoluongo: “Si chiamava Campoluongo. Era un pezzo d'uomo bruno. Venivano da lui a chiedere pareri su come si dovevano comporre le vertenze nel rione Sanità”. Poi Eduardo aggiunge una frase che per me diventa una pulce all'orecchio: “Questi Campoluongo”, afferma, “non facevano la camorra. Vivevano del loro mestiere, erano dei mobilieri”. Non facevano la camorra, dunque. E allora cosa?
Sappiamo anche altro: che un personaggio può essere la fusione creativa di più esseri umani e che, non di rado, un autore cela le vere fonti, i punti di riferimento principali. Quando si scrive di Barracano si scrive in automatico di Campoluongo eppure c'è un'altra figura – rimossa – che mi sembra alla base del personaggio: si tratta di Vittorio Nappi. Chi é?
“In provincia di Salerno, in particolare nell'agro nocerino-sarnese” scrive Isaia Sales ne Le strade della violenza, “c'era Vittorio Nappi detto 'o Studente”. Vittorio Nappi prende a schiaffi Lucky Luciano all'ippodromo di Agnano (e per risposta gli spaccano la fronte con una chiave inglese); gestisce i traffici della zona acquietando ogni conflittualità; domina imponendo rispetto con la presenza, un'occhiata, un gesto: qui niente furti, né rapine né bande criminali. È “il tutore dell'ordine” insomma, è “il garante della pax”.
Vittorio Nappi – come il Barracano di Eduardo – sa leggere; ha per amico un altro scafatese, tale Alfonso Annunziata, che negli anni gli diventa legale di fiducia cioè gli funge da dottore; riesce a oliare la macchina della giustizia infilando “banconote” in una “busta”: compra testimoni, assolda giudici, addomestica sentenze. Inoltre: ha due figlie ed ha un figlio al quale affida un negozio da gestire (il compito che nel Sindaco ha Gennarino).
Come Barracano Vittorio Nappi ama l'eleganza – ha una predilezione per i gemelli – e mostra un insieme di “savoir faire ed efferatezza criminale” con cui si impone “alla massa di delinquenti locali”; sia chiaro: compiuto il primo omicidio, da cui gli viene il rispetto collettivo, non si sporca più le mani. Vittorio Nappi è apprezzato dalla popolazione; è detto “santo” e “salvatore della Chiesa locale” da don Domenico Cannavacciuolo che lo ringrazia per essersi opposto alla presenza dei nazisti; mostra “un'educazione superiore rispetto al resto dei delinquenti”. Fisico asciutto, da sportivo, e “sguardo gelido, da sfida”, Vittorio Nappi vive a lungo e negli ultimi anni apre “un ufficio” in cui “riceve in continuazione uomini e donne per tutta la mattinata, risolvendo problemi tra persone che, in caso contrario si sarebbero ammazzate, dirimendo questioni, intervenendo là dove la legge non aveva potuto” ovvero, per dirla con la Barsotti: come Barracano sostituisce “la giustizia pubblica con la propria giustizia”.
Vittorio Nappi ama i cani (un altro soprannome è “Vittorio cu' 'o cane”) e infatti si aggira con “un inseparabile mastino napoletano, Brigante, che sembra assumere la stessa posa del padrone”. Di più: una sera uno dei mastini, “addestrati per difendere la casa e per attaccare ogni invasore”, aggredisce “la moglie strappandole parte del seno”: proprio come avviene ad Armida, la consorte di Barracano.
Nel 1960, quando Eduardo scrive Il sindaco del rione Sanità, Vittorio Nappi è un personaggio pubblico: di lui si mormora, si dice, si scrive: “Il vostro processo”, per citare Arturo Santaniello, “appassionò tutta la cittadinanza e poi, in quell'epoca, mi piaceva di seguire i fatti di cronaca”. Un altro indizio? La Tenuta Marvizzo di Gioacchino si trova “a Scafati, la città che tutti quelli che leggono i giornali sanno che è dominata proprio da Vittorio Nappi” scrive Isaia Sales.
Ebbene: appurato chi è quest'uomo adesso mi chiedo cosa sia sul piano criminale. Mi risponde ancora Sales: Vittorio Nappi non è un boss; non è un camorrista ma un pre-camorrista; Vittorio Nappi è “un guappo”.


Barracano-guappo, Barracano-camorrista
Ad un tempo “criminale e non”, intento “a mettersi fuori dalla legge e ad imporre la sua legge”, il guappo è un personaggio che protegge i delinquenti (guadagnando dai loro illeciti) ma che passa anche per “benefattore cavalleresco, addirittura eroico”. Professionista dell'intimidazione, figura d'alterità sociale, attento calcolatore economico (non a caso Barracano, parlando con Rafiluccio, usa i verbi “amministrare” e “valorizzare”) il guappo si differenzia dall'ambiente cui appartiene tramite i vestiti, ha un curriculum ridotto a un unico omicidio, viene di solito ammazzato a tarda età. È una figura potente la cui forza tuttavia degrada in modo progressivo col trascorrere degli anni, col raggiungimento della vecchiaia: per questo apre un ufficio/archivio, si riduce a giudice di pace e si circonda, più che di seguaci armati, di scartoffie ingiallite mentre fuori – fallito o passato il suo potere di controllo – iniziano/tornano a sparare.
Il guappo non è il capo di una masnada, dice ancora Sales, ma “un artigiano della criminalità, la ditta individuale” di quella che solo dopo – dopo Vittorio Nappi – diventerà ciò che chiamiamo “la camorra”: la camorra che Martone mette in scena.
La differenza è abissale, siamo addirittura all'opposto: “Mentre per i guappi la manifestazione pubblica del proprio potere avviene controllando la violenza e ottenendo risultati senza esercitarla, per i camorristi è esattamente il contrario: la violenza è un capitale che va speso quotidianamente, senza assilli per le conseguenze”. Perciò quel Barracano, il Barracano di Eduardo, nel 1960 può esaltare il valore della vita o i legami parentali per ragioni in realtà economiche e di tranquillità territoriale mentre questo Barracano, il Barracano del 2017, ripetendo le stesse battute (conseguenza della fedeltà al testo) non è in accordo col suo tempo e con la sua forza né col camorrismo di cui è espressione scenica.
D'altro canto pensate solo ad un aspetto: i guappi agivano realizzando “la zumpata”, ossia il duello, che doveva essere necessariamente preceduta da un “avvertimento”: per questo Barracano dice a Rafaniello che il padre “deve sapere le sue intenzioni”, cioè deve essere cosciente che il figlio vuole ucciderlo prima che ciò avvenga: si tratta di rispettare un codice. Invece come agiscono i boss odierni, ai quali rimanda per attualizzazione visiva e gestuale il Barracano di Martone? Per assalto, sorprendendo le vittime, dispensando proiettili a tradimento e all'impazzata. La differenza è culturale ed è storica, ricorda Sales, tant'è che “il primo delitto di camorra con agguato (e non faccia a faccia) avviene solo nel 1967”. Sette anni dopo la morte scenica del Barracano di Eduardo.
Qui dunque risiede la contraddizione forte de Il sindaco del Rione Sanità: Martone fa del guappo eduardiano un boss; posiziona un pre-camorrista nel tempo e nelle circostanze della camorra; trascina una figura del 1960 (retaggi, abitudini, modelli di comportamento, forme dell'attività criminogena) al 2017 e tutto questo è comprensibile così come sono comprensibili le urgenze che motivano la scelta; meno lo è il fatto che non ne adegui il pensiero, non ne modifichi fino in fondo le parole, non gli fornisca un'identità diversa e – a questo punto, scelta la contemporaneità – necessaria.


Conseguenze (testuali)
“Don Vittorio era lapidario. Quando si faceva un'idea di una persona non la cancellava più, ed era quasi sempre giusta. I suoi pochi, sapienti consigli, li ho nella mente come leggi sacre”. A parlare – ne Il camorrista di Joe Marrazzo – è Raffaele Cutolo per il quale Vittorio Nappi fu maestro, di più: fu “padre spirituale”, “verbo incarnato” della guapparia. Eccola la vera divinizzazione del Barracano eduardiano.
Da Nappi Cutolo non impara solo che il denaro è l'arma principale, lo strumento con cui piegare a sé popolo, giudici e politici: deriva anche l'idea di un sistema che federi la moltitudine di bande evitando il nascente gangsterismo urbano. Cutolo pensa la camorra in termini di mafia: una federazione criminale quanto più allargata possibile che adoperi una strategia condivisa. Questo progetto ha un nome – Nuova Camorra Organizzata – e si rivela un'utopia: i primi a schierarsi contro sono i Giuliano di Forcella. Segue, negli anni Ottanta, il tentativo dell'Alleanza di Secondigliano, cui si oppongono gli scissionisti. Il processo di frantumazione s'acuisce man mano e fino ai giorni nostri: “La camorra mostra di essere refrattaria a qualsiasi federazione,” scrive Sales, “a qualsiasi comando unitario”. Ecco nel 2017 i giovani killer in moto che fanno uso di cocaina; che al telefono dicono “Gli ho schiattato la testa, ora andiamoci a bere una bottiglia” (leggo da Il Mattino); che colpiscono passanti inermi durante le loro scese; ecco non l'omicidio mafioso – motivato da una logica strategica, improntato alla massima efficienza – ma l'atto d'impulso, superficiale, che avviene per scatto e per vendetta, per cui “si agisce risposta a risposta, omicidio a omicidio” generando il “tutti contro tutti”. Ecco “la giovanissima camorra-massa” come leggo su Il Corriere del Mezzogiorno, che ha tramutato “la questione criminale” in “questione generazionale” e per la quale “il nemico non va avvertito o rieducato ma annientato” anche quando, come nel caso di Mattia Campanile, ha quattordici anni (“è muccuso, ma tiene la pistola”). Eccoli questi ragazzi che, per usare le parole di uno di loro (Pasquale Sibillo) non avranno né vogliono futuro tanto da augurarsi che “il cammino in questo mondo sia breve” ovvero di andare presto incontro alla morte: come fosse un premio da ottenere combattendo una guerra breve, di rapina, quotidiana.
Ecco l'attualità a cui va ogni spettatore de Il sindaco del Rione Sanità di Martone; l'attualità che lo stesso Martone d'altronde suggerisce quando – in conferenza stampa – motiva la scelta del suo giovane Barracano proprio con l'attenzione posta ai “baby boss”: attualità che viene affidata alla forza, all'energia, alla giovinezza della compagnia del Nest. Di contro, però, smentendo aspetto fisico e dato anagrafico (e dunque contesto reale di riferimento) il Barracano di Martone persiste nel possedere un sistema di pensiero pre-cutoliano, che risale ad almeno cinquant'anni prima: la zumpata, l'avvertimento, la pagnotta che è pagnotta. Si tratta di un cortocircuito non risolto – anzi acuito – proprio dalla scelta di fare di un guappo anziano un giovane boss che però continua a riflettere, programmare, disquisire come faceva il vecchio settantacinquenne: ugualmente incapace di adeguare il tempo interno (se stesso) al tempo esterno; di dare un senso attuale alle sue parole: “Voi siete vicchiariello” gli fa notare non a caso Rita, e l'espressione “'a femmana mia” adesso “significa un'altra cosa”.
Dunque.
Ne Il sindaco del Rione Sanità i cellulari dimenticati in macchina prendono il posto delle galline nel pollaio, la svedese viene sostituita da “una rumena”, sul tavolo giace un pacchetto di Marlboro mentre Immacolata canta Ragione e sentimento di Maria Nazionale. Si tratta di adeguamenti cronologici rispetto ai quali, nonostante quel che appare, Barracano rimane escluso: fermo ancora al guapparume degli anni Sessanta, a quel metodo, a quel codice.
È un peccato, perché è invece da riconoscere a Martone un'intuizione interessante. Premesso che alcuni personaggi perdono funzioni che il testo di Eduardo gli assegnava (esempio: Rafiluccio non è solo un figlio a cui si vuole impedire il parricidio; era anche il ragazzo nel quale il vecchio guappo riconosceva se stesso giovane: usano le medesime parole, soffrono il medesimo senso di ingiustizia, patiscono la medesima ossessione), Martone portando il testo da allora ad oggi − dal tempo del crimine pseudo-onorevole a quello del massacro senza regole − comprende che non vi sono più possibilità di salvezza morale: né collettiva né individuale. Nessuna figura nel suo Sindaco è esente dal male, da una macchia, da un grado variabile di colpevolezza. E d'altronde: proprio Rafiluccio è un onesto lavoratore o lo scansafatiche di cui dice il padre? Arturo Santaniello è un panettiere che si è guadagnato col sudore della fronte ogni centesimo, che adesso non vuol sprecare, oppure (occhio all'orologio d'oro) sta dissipando la sua fortuna preferendo al sostegno al figlio i vizi di “quella puttana rumena”? Gennarino si occupa del negozio ma tiene alla mano una pistola; 'O Cuozzo incassa i favori, promette devozione ma poi fa finta di non vedere; lo strozzino (Pasquale 'O Nasone) tiene famiglia per il bene della quale strangola le famiglie altrui; 'O Palummiello e 'O Nait sono amici eppure si affrontano con le pistole. Non si salvano neanche le figure femminili: Armida è succube e così complice; Immacolata agisce da infermiera; Geraldina (nonostante sia solo una bambina) porta un fascicolo al padre entrando così a far parte del sistema. Non si salva neanche Rita, che merita un discorso a parte.
Inaspettatamente Martone ne muta le caratteristiche e, in un primo momento, la scelta mi pare incomprensibile. Dov'è finita la giovane emaciata, pallida, fragile e affamata che sviene nel giardino? In scena vedo invece una “puttanella” truccata, in salute e in minigonna, cui Barracano poggia la mano sulla coscia, tra le cui gambe spia quand'ella siede sul tavolo (“Scusate, don Anto', ma la ragazza non ha capito la personalità che si trova di fronte” dice adesso ingenuamente Rafiluccio) e da cui riceve un bacio lento e sensuale, sulla guancia sì ma a pochi centimetri dalle labbra. Rifletto e penso che i motivi della trasformazione sono due. Il primo: serve a far aleggiare in scena una sessualità fremente, appena trattenuta, non associabile a un Barracano settantacinquenne ma fisiologicamente normale per un trentenne. Il secondo: non c'è più alcuna purezza, nessuna verginità è possibile e proprio Rita ne è la dimostrazione più evidente.
Restano dunque, al margine di queste riletture testuali, perplessità sul protagonista e su una sua definizione contraddittoria, da cui derivano alcune incongruenze e vuoti biografici. Ad esempio: il vecchio Barracano, dopo aver ucciso Gioacchino, trascorre diciassette anni in America ed è lì che si forma stando a servizio di “un conoscente” passando in questo modo da povero capraio a ricco tenutario (ed è in relazione a ciò che ha senso il viaggio del dottore in America, la minaccia americana allusa dal guappo, la lettera d'accompagnamento che viene scritta sul finale); invece il giovane Barracano al servizio di chi si forma? Com'è la sua vita dai diciotto anni (età in cui presumibilmente compie anch'egli l'omicidio) ai trenta/trentacinque che ha durante lo spettacolo? Tagliato il brano eduardiano non c'è sostituzione, non c'è reinvenzione, non c'è spiegazione: c'è il silenzio, c'è una voragine.


Infine
“Usciranno i figli di don Antonio, i parenti di don Arturo, i compari, i comparielli, gli amici, i protettori: una carneficina, una guerra” predice nel testo Della Ragione.
Eduardo aveva compreso tutto: aveva visto, nel '60, il tempo futuro, fatto di bande e di cadaveri, e perfino questi giorni in cui un adolescente spara alla schiena a un suo coetaneo il giorno prima di essere a sua volta sparato alla schiena da un altro coetaneo: sarà, profetizza, “una distruzione totale”.
Queste frasi, dette nel testo da Della Ragione, non le sentiamo perché Martone col suo Sindaco la realtà odierna la mostra sbattendocela sul muso, nel tentativo di imporcela alla mente e alla coscienza. La morte di Barracano, non celata dietro una quinta di teatro, risponde allo stesso scopo: ad un tempo ci chiama alla contemplazione e ci accusa; ci addita e ci passa il testimone. Questa morte dice infatti che non c'è soluzione che possa venire dall'autoregolamentazione di chi produce il crimine (compreso chi il crimine cerca di ridurlo ad affarismo silenzioso, a controllo di quartiere, a “tutta brava gente” che non spara e s'arricchisce): appartiene invece alla società civile l'antidoto, ammesso che società civile e antidoto esistano e funzionino. Ma dice anche che, proprio per questo, siamo tutti corresponsabili: voyeur compresi, noi che del crimine quotidiano siamo spettatori inerti, ormai assuefatti.
Questo infine sembra dirmi il Sindaco. Si tratta dell'ultimo lascito dello spettacolo, con il quale chiudo l'articolo.

 

 

 

Il sindaco del Rione Sanità
di
Eduardo De Filippo
regia Mario Martone
con Francesco Di Leva, Giovanni Ludeno, Adriano Pantaleo, Giuseppe Gaudino, Daniele Ioia, Gennaro Di Colandrea, Viviana Cangiano, Salvatore Presutto, Lucienne Perreca, Mimmo Esposito, Morena Di Leva, Ralph P, Armando De Giulio, Daniele Baselice
con la partecipazione di Massimiliano Gallo
scene Carmine Guarino
costumi Giovanna Napolitano
luci Cesare Accetta
musiche originali Ralph P
regista collaboratore Giuseppe Miale Di Mauro
assistente scenografo Mauro Rea
capo elettricista Giuseppe Di Lorenzo
fotografie Mario Spada
manifesto Carmine Luino
produzione Elledieffe, Nest – Napoli Est Teatro, Teatro Stabile di Torino
durata 1h 55'
lingua napoletano, italiano
Napoli, Nest – Napoli Est Teatro, 10 marzo 2017
in scena dal 6 al 17 marzo 2017

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