“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 09 March 2017 00:00

Di là il respiro, di qua la cura

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Ci eravamo lasciati con un Kent Haruf epicofanico, con la benedizione cosmica di una natura che prosegue il suo corso e alle giornate assolate sostituisce le piogge copiose che lavano via, insieme alla polvere delle strade, perfino l’anima delle persone. Adesso esagero, ma non me ne curo molto: il finale della trilogia della pianura – i romanzi che ho voluto farvi scoprire, cari pickwickiani, ovvero Canto della pianura, Crepuscolo, Benedizione – è la trasposizione laico-letteraria più vicina ai passi della Genesi che citano il vento di Dio aleggiante sulle acque. Mentre la terra è deserta e vuota.

Ecco, la trilogia ha questo respiro ampio, è un universo in espansione dove brillano stelle di prima grandezza, a cominciare dai fratelli McPharon. È paradossale la parola universo quando tutto si svolge fondamentalmente in un buco di posto, in un Colorado scoraggiato che di nome fa Holt. Però, riposa qui la forza della fantasia. La potenza di una città partorita dalla testa di un autore funziona da moltiplicatore di effetti, e di affetti, perché si trasferisce ai lettori che a loro volta tramandano e passano parola. In tanti si sono innamorati della Holt di Haruf, calvinianamente invisibile più che macondamente magica.
Non sono un appassionato delle tendenze del momento e dei libri modaioli – cito come caso emblematico recente Le ragazze di Emma Cline – ma stavolta mi sono detto che Haruf meritava un’eccezione. Così quando NNE ha dato alle stampe anche Le nostre anime di notte in edizione italiana non ho esitato. Se vogliamo è una sorta di quarto capitolo, un prolungamento della trilogia, o forse sarebbe meglio dire trinità: primo perché siamo sempre a Holt, secondo perché a un certo punto appare la ferramenta di Benedizione, terzo perché si citano i fratelli McPharon. E possiamo rilevare con piacere che ce l’hanno fatta. Sono entrati nella memoria collettiva, sfuggendo meritatamente all’oblio.
Ma al netto della citazione sociologica che il traduttore Fabio Cremonesi propone, anche in maniera un po’ affrettata, nella sua nota a margine del romanzo e che non mi sento di seguire, questo romanzo è percorso da un sentimento di cura. Cremonesi parla di urgenza peraltro in una duplice veste: quella dello stesso Kent Haruf, di finire un romanzo che non vedrà pubblicato. L’urgenza dei protagonisti Addie Moore e Louis Waters. Due anziani che, per iniziativa di lei, cominciano a intrattenere una storia di amicizia che è poi amore. Questo loro rapporto non si scontra tanto con il pregiudizio dell’ambiente. In realtà, il vero ostacolo è quello frapposto dai rispettivi figli, soprattutto il maschio di Addie. Holt non mi pare si ribelli troppo a questo bisogno di intimità, reagisce semmai con compostezza. I suoi isolati hanno il vestito stinto della vecchiaia, la stessa dei protagonisti, è un mondo in là con gli anni che ha rispetto, come tutti i vecchi, per la libertà. È semmai Louis a farsi carico di un certo ritegno, inizialmente è lui la vera anima notturna, vaga tra casa sua e quella di Addie con circospezione, evitando strade e incontri.
Il figlio di Addie entra progressivamente nella vita dei vecchi, prima per l’interposta persona del suo bambino, poi invece in tackle scivolato, come si direbbe in un gergo a me familiare, ossia calcistico. I due anziani si trovano meravigliosamente bene con il piccolo, il nipote di Addie, perché in effetti anche i bambini hanno l’età giusta per apprezzare la libertà e godere dei suoi benefici. La vera vittima di tutta una vita, di tutte le vite, è l’età di mezzo. Ecco, io la vedo così, più intimamente che sociologicamente: il figlio di Addie non ha la forza di essere libero, magari è confuso dalla fase delicata che sta avendo con la moglie ma quando rientra a fatica nella sua dimensione familiare reca le scorie di un certo perbenismo mediocre, ricattatorio. Molto economicista. E le rovescia addosso a Addie e Louis.
A un certo punto Addie riflette: “Chi riesce ad avere quello che desidera? Non mi pare che capiti a tanti, forse proprio a nessuno. È sempre un incontro alla cieca tra due persone che mettono in scena vecchie idee e sogni e impressioni sbagliate. Anche se, ripeto, questo non vale per noi due. Non in questo momento, non oggi”.
Facciamo l’analisi sentimentale di questa breve estrapolazione dal testo: rassegnazione (fino a nessuno), disincanto (fino a sbagliate), speranza (fino a due), realismo (fino a oggi).
Ecco come e dove va spesa la cura: se il destino trasforma un incontro alla cieca in occasione di libertà, che è libertà di unire due solitudini che rimasticano sempre i soliti sogni di tanti altri, questa condizione va preservata. Al limite nell’arco di un orizzonte temporale strettissimo, che può essere oggi, un giorno, una telefonata fra due persone lontane che per riavvicinarsi devono fare appello, non a caso liberandole, alle loro anime di notte.

 

 

 

Kent Haruf
Le nostre anime di notte (Our Souls at Night)
traduzione di Fabio Cremonesi
NN Editore, Milano, 2017
pp. 162

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