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Wednesday, 22 February 2017 00:00

Da soldato a poeta: per una nuova coscienza di obiezione

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In principio, era la guerra. Era il caos, un volo di pulviscoli alzati dal vento che brillavano in controluce. Un turbine di polvere e disperazione, un’aria irrespirabile. “Eppure. Quanto è stupefacente respirare”, ce lo ricorda Brian Turner. Un gesto banale, talmente ordinario da divenire involontario. Eppure magnifico, ordinariamente straordinario, ché a ogni respiro corrisponde la continuazione della nostra vita.

Turner questo lo sa bene. Lo sa perché ha vissuto in mezzo alla guerra, anzi alle guerre. Ci sono, prima di tutto, quelle dei racconti del nonno e dello zio, poi, ci sono le sue, quelle che ha vissuto in prima persona. Quelle che racconta con voce potente, una voce che racconta la guerra con una poesia che intinge le mani in quella polvere, che risuona degli spari e delle grida, dei frastuoni, tra sirene e silenzi assordanti, e degli odori.
Turner racconta di un mondo permeato dalla Guerra, con la lettera maiuscola perché ormai è come se fosse una persona, o un demonio, con vita propria. Dalla Seconda Guerra Mondiale, a quella del Vietnam, passando tra la Guerra Fredda a quella del Golfo, fino alla Guerra in Afghanistan e Iraq. Poi il Kosovo, la Bosnia, la Jugoslavia. Cos’altro?
La mia vita è un paese straniero. La vita che si rispecchia, che si frammenta, nelle guerre passate e negli scenari vissuti. Nei traumi che rendono insonni le notti. Che fa mantenere la distanza di sicurezza e che produce strascichi nella nostra ombra, soprattutto in chi l’ha vissuta. In un’ombra che non può essere lavata e che deve sopportare il peso delle tenebre.
“Chi non camminerebbe sul fondo dell’oceano, considerato il mondo degli uomini che c’è sopra?”.
Avevo acquistato il libro tempo fa, poi, come spesso accade, gli impegni si accumulano, i giorni passano, e i libri rimangono sul comodino, pazienti, in attesa che torni il loro tempo. Infine: una serata al cinema. È tempo di Oscar e la voglia di film sale. In programmazione c’è La battaglia di Hacksaw Ridge di Mel Gibson. Non sapevo cosa aspettarmi, speravo non fosse il solito film patriottico-guerrafondaio alla Clint Eastwood (a-là American Sniper, per intenderci) e poi vedo i film di Mel per l’amore e la fiducia incondizionato che mi lega a lui da Braveheart in poi. E non mi ha deluso, neanche stavolta. Gibosn descrive la guerra esattamente (o quasi) come Turner.
La descrive, poi, partendo dal punto di vista di chi la guerra l’ha fatta senza imbracciare neanche un’arma. Il punto di vista di Desmond Doss: uno dei primi obiettori di coscienza. Si racconta, soprattutto, di una battaglia – quella di Okinawa – dove si ebbe un immane dispiegamento di forze armate da ambo le parti con una gigantesca perdita di vite umane. Tra fango e polvere – americani e giapponesi – si confrontavano in un’estrema guerriglia, potenzialmente eterna, risolta poi col famoso atto finale su Hiroshima e Nagasaki. Uno stallo, un gioco al massacro, un tirare così tanto l’orgoglio fino ad arrivare al delirio.
Tra morti e disperazione quella del sergente Doss è la storia di chi, dalle armi, pur essendone stato educato all’uso, ne rifugge avendone vista la portata negativa. Un po’ un sasso in uno stagno, quello di Mel. In un’America dove le armi le compri mentre fai la spesa, c’è chi ne ha rifiutato l’uso anche in situazioni estreme, preferendo avere come priorità il salvare la vita agli altri. Nonostante una vena di pazzia filo-religiosa, è importante osservare la forza di volontà del sergente Doss all’interno del caos totale in cui era immerso. All’interno di una polveriera con una candela di luce in mano; un’ombra che come acqua dirada le tenebre della battaglia.
Quelle tenebre che Turner – dice – “ci portiamo dietro per il mondo”; Turner che, dal canto suo, non rifiuta le armi. Ma capisce, infine, che conta più una poesia; che colpisce più a fondo un’immagine evocata da una parola, che non un proiettile sputato fuori da una qualsiasi pistola. La parola contiene il peso della razionalità essendo stata scelta, tra altre mille parole, per essere inserita esattamente all’interno di quella precisa casella; la poesia, dopotutto, è un razionale gioco di equilibri. La pallottola è vana e irrazionale; è generalista, può colpire chiunque nel suo tragitto vorticoso. La parola colpisce solo chi sa coglierla e, se colpisce, lo fa con intenzione.
Turner parla della guerra e parlando della guerra parla dell’America. Lo fa con un linguaggio consapevole, lucido e mai banale.
Le pallottole intanto continuano a vorticare, le guerre proseguono nella loro distruzione, prosegue l’idea che annientare l’altro – rispetto al con-vivere – sia l’unica risposta. Si accatastano i morti, come una torre di Babele, e si accumulano le polveri alzate dalle bombe e dai respiri dei soldati. In questo caos le parole, come quelle di Turner, sono sempre più importanti per colpire i nostri cuori, le nostre anime, e per capire che la guerra è fatta di uomini che è difficile giudicare. Una guerra è fatta delle case che attendono il ritorno, mentre altre vengono distrutte; una guerra, un inutile gioco di equilibri squilibrati.
E le parole, be’, le parole possono salvarci da qualsiasi cosa. Le parole ci portano nei panni dell’altro e sono un fascio di raggi di sole che districano la nebbia di realtà complicate.
“[…] il punto non è tanto che è difficile tornare a casa, quanto che a casa non c’è spazio per tutto quello che devo portarci. L’America, smisurata ed estesa da un oceano all’altro, non ha abbastanza spazio per contenere la guerra che ognuno dei suoi soldati porta a casa.
E anche se ne avesse, non vorrebbe”.

 

 

 

Brian Turner
La mia vita è un paese straniero
traduzione di Guido Calza
NN Editore, 2016
pp. 196

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