“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Thursday, 16 February 2017 00:00

Di quel cielo, di questo fondale

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Antonio ha sognato Daria stesa per terra, in strada, intenta a chiedere l'elemosina nei pressi del Teatro Argentina di Roma: piove – ci racconta – gli schizzi rimbalzano sull'ombrello ed io mi affretto finché non vedo Daria, lacera accattona: rallento, l'osservo, la riconosco ma non si fermo, proseguendo diritto. “Io, nel sogno, non mi sono fermato. Perché?”.

Daria si riconosce nel sogno di Antonio – dice proprio così, avanzando a mezzo palco, evocata e quindi ora apparsa: “Mi riconosco in questo sogno” –, e lo dice probabilmente perché, pur essendo un sogno che non hai mai sognato, è questo un pensiero che invece ha pensato spesso: “Non posso appoggiare lo sguardo su certe donne buttate per terra” afferma, poiché d'immediato “viene da dirmi: dio, anche io faccio una fine così”. Daria tuttavia non si limita a riconoscersi nel sogno ma inizia a farne parte, dichiarando (inventando, immaginando) il proprio stato d'animo: “Guarda che io, nel sogno, non ci sono rimasta male. Perché quando dormi per strada non ti vergogni più di nessuno” e inoltre: l'ultima persona dalla quale vorresti un aiuto è proprio un amico; sai che ogni sostegno non è definitivo ma solo “provvisorio”; qualsiasi gesto che viene dall'altro comunque “non ti risolve niente”. Quindi stai tranquillo, Antonio, non è importante che tu, riconosciutami, sia andato via.
Francesco questo sogno di cui fanno parte Antonio e Daria lo commenta standosene come ai margini, sul limite, come avendovi un piede dentro e uno fuori, uno nel sogno e uno invece poggiato alla realtà e, infatti, è alla realtà – la sua – che immediatamente porta il discorso: “Anche io non ti avrei fatto l'elemosina”, accenna stando nel sogno per poi fuoriuscirne e dire però “faccio l'elemosina”, la faccio a un ragazzo “con il cappuccio”: non soldi, sia chiaro, ma “caffè e due brioche” – “le stesse che mangio io” precisa. E poi? Poi “faccio per andare via e cominciano i ragionamenti”: ho compiuto un bel gesto; è avvenuto in discrezione, senza che nessuno se ne sia accorto; poi sento l'esigenza di raccontarlo a qualcuno e così, con una scusa, telefono alla mia ragazza: sai amore, stamattina... Francesco continua a dire e, dicendo, continua a camminare – fa dieci passi – imbattendosi in una “barbona”, a cui non dà neanche uno spicciolo: “Punto primo, io i soldi non te li do, non sono una banca; punto secondo, giù le mani”. La barbona, spiega infatti Francesco a Daria ed Antonio, “è un po' stronza” perché si allunga come in preghiera, rimanendo in ginocchio distende le braccia, si fa notare, così “mettendomi alla prova”. Hai fatto l'elemosina a lui, voglio proprio vedere se non la fai anche a me. Francesco si ferma, respira, ripensa per un attimo a ciò che ha appena detto – una clochard che lo mette alla prova, con la miseria della propria fame, con lo strazio della propria sofferenza – e si chiede, come sorpreso di sé: “Ma che ragionamento sto facendo?”.
E Monica? “Monica tu dove sei?” le chiede Daria, così chiamandola alla partecipazione. Monica nel sogno c'è ma è come se non ci fosse. Lei sta seduta in un tram (mettiamo sia l'8 che passa proprio per Largo Argentina) avendo gli occhi chiusi, nelle orecchie le cuffie, in testa Città vuota di Mina: “Le strade piene / La folla intorno a me / Mi parla e ride / E nulla sa di te”. Monica si estranea così dal “tram pieno di gente che torna a casa”, dal traffico di auto, dall'incedere di una sirena, dal balbettio fastidioso dei clacson; si estranea, le palpebre abbassate come saracinesche di un negozio chiuso, e perciò non vede Daria per terra, Antonio che le passa accanto senza vederla, Francesco che sta sui margini del sogno.
“Perché non mi sono fermato?” ripete Antonio mentre Monica canta, iniziando ad aggiungere ricordi e dettagli personali: in quel periodo soffrivo di alopecia, mi cadevano le sopracciglia e poi le chiazze alle tempie, la paura di perdere i capelli, una storia d'amore appena finita. “A me adesso dispiace rovinare questa canzone che è così bella” – e che intanto Monica continua ancora a cantare – “ma lo ha già fatto Antonio...”: in questo modo Daria, volgendo il corpo verso il pubblico, interviene e condivide una sensazione privata che è comune e dunque diventa subito collettiva: quella per cui “tu senti una canzone che ti ricorda qualcosa e, mentre la senti,” la cosa che ti sei improvvisamente ricordata “te la dimentichi”. A chi non è capitato? Quel giorno in cui, quel sentimento che; quella promessa che mi hai fatto, quel tramonto visto assieme; quella persona che sembrava irrinunciabile e che ora non c'è più.
Intanto Il cielo non è un fondale è iniziato: da cinque minuti.

Antonio, Daria, Francesco e Monica si muovono in uno spazio pulito, i cui unici segni scenografici sono un termosifone bianco, poggiato alla parete nuda di destra del Fabbricone (termosifone che serve per il finale, rispondendo alla legge cechoviana per cui se un fucile è appeso alla parete prima o poi verrà usato per sparare) e un fondale nero che inclina su un lato, poi avanza, indietreggia, prima di chiudersi di sbieco nell'angolo posteriore del teatro, generando un retroscena nel quale gli attori si ritireranno per uscirne a ricevere gli applausi.
In questo luogo dichiaratamente teatrale i quattro dialogano tra loro e con noi e vivono, o sembrano vivere, invece che recitare: la morbidezza dei muscoli, la distensione dei tratti del viso, la naturalezza dei passi, l'equilibrio dei toni e il fazzoletto che Monica a un punto porta agli occhi e poi al naso perché è raffreddata; la fatica di Daria nello spostare un termosifone, per cui lascia fare ad Antonio; lo sguardo ripetuto che Francesco dà al pubblico quando a uno spettatore – o a una spettatrice – cade qualcosa che, nel silenzio, produce un breve tonfo.
“Daria ed Antonio persone” – scrive Gerardo Guccini in Trilogia dell'invisibile – “si raccontano attraverso i propri equivalenti scenici” e così fanno in questo caso anche Francesco e Monica: sono loro – non sono altri, metafore o personaggi – e sono loro qui e ora, al cospetto di uomini e donne che hanno pagato un biglietto e che adesso siedono nella luce penombratile o chiara della platea: per il teatro di Deflorian e Tagliarini, aggiunge Guccini, “mostrare la propria identità non sostituita è un gesto propedeutico ed essenziale: da un lato sospende il continuum delle convenzioni teatrali” – nessuno fa finta che siamo altrove, che il falso sia vero, che questo palco sia un salotto borghese o che questa conversazione sembri una chiacchierata tra figure che in realtà non esistono – mentre “dall'altro introduce un continuum drammatico, che si rapporta al reale non già per imitarlo o raccontarlo ma per trasporlo, citarlo, adattarlo a vista, includerlo nelle relazioni in atto tra attori e spettatori”. Mostrando se stessi, presentandosi col loro nome, Antonio, Daria, Francesco e Monica comunicano “che quello che stanno facendo non è una rappresentazione e che la scena non è separata dalla realtà”.
Da corpi che intrecciano le proprie traiettorie viene quindi un intreccio di voci che diventa un'opera unica, un unico flusso verbale, memoriale, argomentativo. Così per un'ora e mezza circa si sommano dettagli intimi, sensazioni perdute, ritrovate e condivise, citazioni poetiche (Beppe Salvia) e strofe di canzoni cantate a cappella e al microfono, digressioni esistenziali, immaginazioni in aggiunta ai fatti riportati, la descrizione di una foto che non vedremo, brevi monologhi con aggiunte successive e interruzioni reciproche, schegge biografiche e autobiografiche, accenni di recitazione la cui recita è smascherata (perché dichiarata) in partenza.

La voce ruvida di Johnny Cash, che suona all'autoradio, di sera e in pieno agosto, mentre il vecchietto curvo che attraversa la strada ti saluta con la mano sinistra; la fortuna d'avere la piscina condominiale; il trans brasiliano e l'anziana con “lo sguardo nel vuoto” e un “principio di demenza senile” che, essendo due solitudini l'una momentaneamente poggiata all'altra, si danno fisicamente sostegno a vicenda come fanno le teste di due fidanzatini che siedono sulla stessa panchina o dormono usando solo un cuscino.
Le duemila lire all'ora che prendevo per fare lezione privata; il ristorante nel quale lavoravo come cameriera in attesa della gloria; la necessità di portarsi via da questa vita insoddisfacente, limitante, infelice; Jack London al Green Park di Londra che – addosso una giacca con un solo bottone e un pantalone tanto rigido da poter essere preso a pugni – è un vagabondo tra i vagabondi per scrivere Il popolo dell'abisso; Muhammad, il bambino che vive al quartiere Prenestino e dorme sull'armadio di un monolocale sovraffollato, o Alom, il venditore ambulante di rose che saluto ogni volta che incontro, che – un tempo – era generale dell'esercito del Bangladesh e che, della vita di allora, serba la dignità, la fierezza e questa “camminata elegante”, da “uomo degli anni Cinquanta”.
Il fallimento altrui che, senza che me ne accorga, sta anticipando il mio fallimento; la poesia sull'amicizia, scritta a sette anni, quando con gli amici neanche ci giocavo; l'amore per il buio che precede qualsiasi spettacolo – “quel buio che solo a teatro puoi trovare”  – ; la donna stesa per terra nei giardini di via Arenula, con addosso una tuta dell'Adidas blu scura, con “le tre linee sulla spalla”, che forse è polacca e alla quale, dopo averla interrogata confondendo pietismo e curiosità, regalo dieci euro, sentendomi rispondere “grazie, sono felicissima” senza sapere quanto questa frase sia vera. Il numero di telefono dei genitori, “l'unico che ancora adesso conosco a memoria”, l'“io ho sbagliato tutto nella vita” detto mentre me ne sto piegata a mettere chiodi nel muro senza saperlo fare e l'incidente d'auto che Antonio ha subito quando danzava – proprio quando “la carriera comincia a decollare” – e che gli impone il bianco di una stanza, il crocifisso a parete, le lenzuola, la fisioterapia, otto mesi tra casa e ospedale, un plantare di due centimetri, l'addio alla danza. “Quando Antonio ha fatto l'incidente io ero appoggiata alla parete di un ristorante” dicendomi “ho quarant'anni: dove sta andando la mia vita?” ricorda Daria mentre Francesco invece interviene così: “Una volta ho visto un incidente”, vittima un ragazzo, “poi è passato”; “cosa?” gli chiede Antonio, “il ricordo.” – risponde Francesco – “Col tempo è diventato un aneddoto che racconto alle cene quando si discute di sicurezza stradale”.
Eccolo un momento-chiave de Il cielo non è un fondale: l'incidente di Antonio (esperienza reale, sofferta, traumatica, bloccante e pressoché definitiva nel proprio accadere) che diventa per Daria il presupposto per manifestarsi ancora una volta parlando (questa maledetta abitudine che abbiamo di dire “Io” senza neanche aver finito d'ascoltare ciò che l'altro ci sta raccontando) mentre per Francesco ciò che è un trauma altrui scade in un racconto da ripetere tra un primo e un secondo, tra il dolce ed il caffè.
Eccolo il tema – la parola è inadeguata, lo so – di questo spettacolo (altra parola inadeguata): la relazione tra me e chi/cosa mi gira intorno, tra i miei pensieri e la vita degli altri, tra questo dentro (inteso anche come scatola cranica, cuore tra le costole, insieme dei muscoli sottopelle) e tutto ciò che mi sta fuori. L'illusione di comprendere e di essere compresi, la superficialità dei giudizi e la banalità dei commenti con cui interrompiamo l'osservazione, la momentaneità del mio interesse per quello che ti sta capitando; questa ferita di cui mi porto i segni addosso e che per te diventa niente dopo pochi minuti che te l'ho mostrata e la senzatetto alla quale ho dato dieci euro, pur sapendo che non le serviranno a niente; il venditore di fiori, che non lo sente nemmeno il calore episodico della mia pacca finto-amichevole sulla spalla; il bambino straniero, guardato con tenerezza sincera nello stesso momento in cui provo un sincero fastidio per il velo musulmano indossato da sua madre. La tua povertà, che mi ricorda che potrei diventare povero e ritrovarmi anch'io tra i cartoni, sotto un portico, sulle scale di questa chiesa o a dieci passi dal teatro in cui vado stasera. Questa maledetta umidità che ho in casa, che mi impregna il tappeto e che mi fa dimenticare che invece tu dormi in strada, tra pozzanghere e schizzi dei passanti. E il bisogno che provo ogni giorno di chiudere la porta alle mie spalle, di estraniarmi da tutto il resto, di sedere poggiando la schiena al caldo del termosifone: una birra accanto, nelle mani un libro di Dostoevskij sugli umiliati e offesi dal destino, lontano e altrove dagli umiliati e offesi veri e da quello che (gli) accade.
“Che cosa significa conoscere il mondo?” chiede Daria a un punto e la domanda si disperde nell'aria, come profumo d'ambiente volatilizzatosi in un salotto. Già, cosa significa conoscere il mondo, conoscere gli altri, essere (ri)conosciuti dagli altri? È possibile? E quanto è possibile?

Il processo creativo e poetico di Deflorian/Tagliarini mi sembra abbia principi narrativi: c'è la letteratura alla base di questo e d'altri spettacoli precedenti. C'è sopratutto il principio di Éscrire la vie di Annie Ernaux, che contraddistingue ogni romanzo dell'autrice francese e che comporta – leggeteli Gli anni o Il posto, tradotti da L'Orma Editore – uno scrivere di sé che diventa, alla lettura, un raccontare anche degli altri. “Siamo incappati ne Gli anni.” dice la Deflorian a Doppiozero, “un libro capitale. Potevamo fermarci lì, era già tanto, invece abbiamo letto tutto, anche in un francese ancora poco praticato”.
La Ernaux, dunque.
Io ci sono nei miei romanzi e come parte di me mio padre, mia madre, il resto della mia famiglia, questa casa, questa strada, il concorso pubblico a cui ho partecipato, quest'odore che viene dalla cucina o la puzza che emana il cadavere il terzo giorno e che giunge dalla camera da letto dei miei. Scrivere di ciò che si conosce o si presume si conosca (me stessa e ciò che mi ha riguardato) e farlo attraverso una lingua dal tono dimesso, controllato, anti-drammatico in cui dolori, sofferenze, gioie lancinanti, improvvise sorprese (positive o negative) sono come anestetizzate dall'inchiostro riversato sulla pagina. Un presunto naturalismo autobiografico che – in maniera antinaturalista – espone costantemente la propria fattura artistica, dichiarandola perché non ci sia alcuna presa in giro verso i lettori. Così – riprendo in mano Il posto, ad esempio – la Ernaux (de)scrive dicendo del passato (“mio padre è morto esattamente due mesi dopo. Aveva sessantasette anni e con mia madre gestiva un bar-alimentari in un quartiere tranquillo”) al presente (“Ora è un altro tempo”), accenna ricordi di cose ormai sparite (gli abiti stropicciati e lasciati sulla sedia, la bicicletta, il rasoio con cui si radeva ogni due giorni usando il lavello della cucina), cita frasi dette da una voce che il tempo e la morte hanno zittito (“vado a mangiare mezza fetta di prosciutto”, “dammene un mezzo bicchiere”, “come la va?”), commemora aneddoti richiamandoli in pagina (le amiche portate a casa, il risvolto ai pantaloni, la passeggiata domenicale, le cadute economiche e gli sforzi lavorativi, la dignità mantenuta durante un'intera esistenza vissuta al limite della condizione di povertà) e fa tutto questo generando frammenti; brevi capitoli; ritagli di chiacchiera; flash di due, dieci, venti, cinquanta o novanta righe. Di tanto in tanto − in questo scrivere che diventa come un racconto a voce, come una confessione faccia-a-faccia − la condivisione delle intenzioni, la stanchezza nel battere a macchina, i momenti di vuoto, la paura di non riuscire ad esprimersi, il timore dell'infedeltà o dell'invenzione menzognera, la certezza di non poterne dire fino in fondo, come sarebbe necessario: “Volevo dire, scrivere riguardo a mio padre, alla sua vita, e a questa distanza che si è creata durante l'adolescenza tra lui e me”; “ho cominciato a scrivere un romanzo di cui era il personaggio principale. Sensazione di disgusto a metà della narrazione”; “da poco so che il romanzo è impossibile. Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho diritto di prendere in prestito l'arte, né di provare a fare qualcosa di appassionante o commovente” e “vorrei ritardare la stesura delle ultime pagine, che siano sempre là da venire”.
Nel libro, come avviene anche ne Il cielo non è un fondale, pur essendovi una narrazione il più possibile aderente ai fatti – “Metterò insieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, i fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un'esistenza che ho condiviso anch'io” scrive l'Ernaux – emerge il tema dell'incomunicabilità, assumono valore certi silenzi che possono essere soltanto ricordati ma non compresi, ci sono frasi o episodi che segnano un fraintendimento: così, ad esempio, il padre dice un giorno “non ti ho mai fatta vergognare” e lo dice a una figlia che quel sentimento – la vergogna – l'ha provato. Antonio, non fa nulla se non ti sei fermato – nel sogno – a darmi una mano; Daria, me ne vergogno, lo vuoi capire?
Ne Il cielo non è un fondale, della Ernaux, torna in qualche modo la costruzione memoriale per accumulo e messa in sequenza, la precisione della partitura verbale, il senso della misura compositiva; torna la passione per le canzoni come “espansione nel passato” e “sentimento felice del tempo” che fu e torna il recupero di foto dette e non mostrate (ne Il posto: “Una mia foto, da sola, all'aperto, con alla mia destra una schiera di baracche, vecchie e nuove rimesse. Probabilmente non ho ancora nozioni estetiche. Tuttavia so già come mettermi nella posizione migliore: di tre quarti per attenuare le rotondità dei fianchi avvolti in una gonna stretta, il petto in fuori, una ciocca di capelli a scendere lungo la fronte. Sorrido per avere l'aria dolce”); tornano le incertezze creative, i dubbi realizzativi, la voglia di non porre un termine (giaccé la vita non conclude); torna finanche qualche immagine: ad esempio quella finale del romanzo: “L'anno scorso, ad ottobre, mentre facevo la fila al supermercato, ho riconosciuto alla cassa...” leggo ne Il posto mentre ne Il cielo non è un fondale Daria si trova a fare la spesa al supermercato quando alla cassa c'è Monica. Non si tratta di un citazionismo nascosto, sia chiaro, ed il libro non è nello spettacolo: è la vita invece, di Daria come di Annie Ernaux, che porta tutti – loro, me che sto scrivendo, voi che mi leggete – negli stessi luoghi, a vivere esperienze simili, che sembrano tenerci uniti e che ci danno l'illusione – soltanto l'illusione – di poterci conoscere, di poter capire.
È quando Annie e suo padre non vivono lo stesso avvenimento con un sentimento somigliante, così allontanandosi pur stando accanto – è quando Francesco accusa Daria di non aver dato a lui il biglietto per la prima all'Argentina mentre Daria è intenta a raccontare del suo incontro con la clochard – che ripenso a  La solitudine di Maupassant: “Ci travaglia un torturante bisogno d'unione, ma tutti i nostri sforzi rimangono sterili, i nostri abbandoni inutili, le nostre confidenze infruttuose, i nostri amplessi impotenti, le nostre carezze vane.” – scrive – “Quando vogliamo compenetrarci, gli slanci dell'uno verso l'altro non fanno che urtarci l'uno contro l'altro. E io ho un bel volere a donarmi interamente, aprire tutte le porte della mia anima: non riesco ad abbandonarmi”. “Questo perché”, continua, “conservo fino in fondo, proprio nell'ultimo, quel luogo segreto di me dove nessuno penetra. Nessuno può scoprirlo, entrarvi, perché nessuno mi assomiglia, perché nessuno comprende nessun altro”.
Così “l'essenziale sfugge sempre”, per dirla con Attilio Scarpellini.

Non c'è solo la Ernaux in questo metodo di costruzione; c'è – forse come suggestione argomentativa tenuta poi nascosta – Il miracolo segreto, racconto con cui  Borges dice della distanza tra ciò che s'immagina e ciò che è reale (“La realtà fu meno ricca” leggo), tra ciò che si crea e ciò che accade per davvero; soprattutto c'è la narrativa di Sebald ed Austerlitz in particolare: il confronto tra l'Io e il resto del mondo, l'identità in (de)formazione continua, la propensione a viaggiare verso l'infinito – fuggendo da biblioteche, alberghi, aeroporti, carceri, parchi zoologici ed ogni altro ambiente chiuso – per scoprire qualcosa di sé attraverso gli incontri con interlocutori occasionali. C'è tanto la letteratura nel processo teatrale di Deflorian e Tagliarini che il titolo dello spettacolo, Il cielo non è un fondale, rimanda a Disumane lettere di Carla Benedetti e, in particolare, al capitolo in cui “si guarda il cielo e si capisce che non è un fondale” ovvero in cui si tenta di trovare “antidoti all'astrazione di tante narrazioni odierne che separano le storie degli uomini dal profondo abisso del mondo”. Cosa dice la Benedetti? Che in letteratura sempre più spesso c'è l'abitudine a costruire storie che separano i personaggi dal resto dell'universo; che – in un tempo in cui le migrazioni spostano milioni di uomini e donne da un continente all'altro, in cui il clima si sta modificando ed ogni cosa è in movimento vorticoso – ci sono autori che sottraggono i loro personaggi a questo fluire costruendogli attorno nicchie narrative, piccoli mondi messi in pagina come certi presepi posti sotto-vetro, generando un “fondale di convenzione”, “un palcoscenico artificiale”. “L'artificiosità di certi romanzi” – scrive la Benedetti – “sta proprio in questo palcoscenico artificiale che non corrisponde alla reale situazione degli uomini. È questa la finzione prima su cui molte narrazioni contemporanee allestiscono la storia e le storie, con le loro concatenazioni causali semplicistiche”. Una falsità a cui, per dire solo alcuni nomi, hanno tentato di ribellarsi Gadda (facendo i conti con l'impossibilità a concludere dei propri romanzi e dunque col proprio fallimento) e, più di recente, Permunian (La vita in tempo di pace) o Moresco: “Non siamo un tratto calligrafico di scrittura su una superficie bianca, un ornamento” dice Moresco alla Benedetti; siamo invece “un corpo che si divincola in qualche cosa che ha spessore, che ha attrito. Noi siamo degli organismi, dei corpi viventi che si trovano immersi in una situazione di questo tipo, come i pesci in un acquario, come i lombrichi sotto terra. Noi ci troviamo in una condizione così” ma, invece, molto spesso – in letteratura come nel quotidiano dell'esistenza – “ci facciamo un'idea astratta, consolatoria, del nostro essere” nel mondo e “ci autorappresentiamo appunto come dei tratti grafici su una superficie bianca”.
Eccolo, dalla letteratura di Moresco, il passaggio al teatro di Deflorian e Tagliarini, eccolo il mezzo di trasporto che ci riporta al Fabbricone. Perché il mettere se stessi in scena, fare del palco solo un palco, guardare negli occhi gli spettatori, accennare alla mimesi per poi dichiararne l'inefficacia, abortire un personaggio prima che prenda forma, posizionarsi in un corridoio laterale o presso l'uscita del teatro, accennare un passo di danza o replicare per tre volte una caduta, usare il microfono o fare dei suoi fili i cavi della luce di un fondale che funziona da parete di casa, rendere ciò che è intimo parte di una struttura drammaturgica che – certo – viene replicata ogni sera ad un pubblico diverso, in uno teatro differente, sono tentativi che Daria Deflorian e Antonio Tagliarini (e coloro che collaborano con loro) fanno per tentare di mettere in relazione vitale e non fintata l'hic et nunc teatrale col mondo di fuori, la loro recita (il meno possibile recitata) con la vita che intanto, per gli altri e altrove, sta proseguendo. Insomma, si tratta, per riprendere Moresco, di provare ad essere e a rappresentarsi non come “un tratto calligrafico su una superficie bianca” ma “come corpi viventi”, tridimensionali, non astratti, facenti parte del resto del mondo come i lombrichi fanno parte della terra.
“Tentativi” ho scritto, della cui fallibilità Deflorian e Tagliarini mi sembrano coscienti; “tentativi” perché Il cielo non è un fondale – il teatro in quanto teatro – sconta comunque il suo paradosso atavico: per esserci deve estrarsi dalla vita, diventando forma; così è costretto, il teatro, ad esistere riducendosi a inscenare l'esistenza.

È stato Renato Palazzi il primo a porre in rapporto il teatro di Deflorian e Tagliarini a quello di Pirandello nel nome del “tentativo” – anch'egli usa questo termine – “di uscire dalle strutture chiuse del teatro stesso, portando allo scoperto le convenzioni della rappresentazione, svelandone e denunciandone gli apparati illusori”. Pirandello è chiamato in causa anche da Attilio Scarpellini quando – citando Sei personaggi in cerca d'autore o Questa sera si recita a soggetto – tratta “dell'irrisolta ambiguità tra persona e personaggio”. E d'altronde l'impossibilità di mettere in scena ciò che provo o che è accaduto nel modo esatto in cui l'ho vissuto e lo ricordo – pensate al Padre di Sei personaggi, che non si riconosce nell'attore che ne sta interpretando il dramma – torna nel teatro di Deflorian e Tagliarini: dal “posso fare anche lei che muore, ma cosa ci risolve?” di Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni all'“io le posizioni le so fare, le facce no. Per questo uso il cappuccio” di Francesco ne Il cielo non è un fondale.
Ed è qui che questo spettacolo sconta l'inevitabilità del limite e l'impossibilità della sua cancellazione definitiva: perché rimane in piedi una parete divisoria che separa l'interno dall'esterno e perché per quanto somigli all'esistenza Il cielo non è un fondale l'esistenza la nomina, la ricorda, la dice e dicendola in qualche modo la formalizza; perché seduti in una platea, partecipiamo a un rito che per quanto possa essere ampio è comunque circoscritto; perché dentro fa caldo mentre fuori tira un vento gelido (lo si sente sibilare, battente alle finestre); perché questo stare qui genera un noi che ci separa e ci differenzia da tutti gli altri; perché qui c'è la luce (per quanto sia artificiale) mentre tutto intorno è buio pesto. Perché si canta, c'è un dialogo costruito per far ridere e questi sei termosifoni che sul finale invadono la scena sono segno, simbolo, metafora dietro i quali – significativamente – i quattro attori concludono, separandosi da chi li ha guardati e ascoltati. Perché l'incidente che ti ha impedito per sempre di danzare lo puoi dire ma quanto resta forte la visione diretta e fugace della cicatrice che porti sotto il ginocchio sinistro: quel segno, traccia della vita vivente direbbe Pirandello, fa tacere ogni parola.
Perché la vita o la vivi o la scrivi avrebbe detto Pirandello – e la Ernaux sa bene che sta scrivendo di ciò che è/di ciò che ha già vissuto: “Quando scrivo non ho l'impressione di guardare dentro me stessa, guardo in una memoria” dice – e così esattamente Daria, Antonio, Francesco e Monica, nell'attimo esatto in cui appaiono al nostro cospetto, non fanno che rivivere l'accaduto, ciò che è stato, quello che hanno provato nel passato, riattivando − per dirla con Scarpellini − “la malinconia perduta”: non fanno, cioè, che guardare in una memoria rievocando l'invisibile.
Perché ogni dentro, ogni Io, ogni noi presuppone un fuori, presuppone gli altri, presuppone loro. Perché il cielo non può entrare in un teatro: in un teatro può starci al massimo un fondale. È questo il dramma ineliminabile del teatro, che del teatro tuttavia è pure la fortuna e il fondamento.
“Tra la vita che si vive e la vita che si sente, che si intuisce, che si vede di lontano” scrive Musil ne I turbamenti del giovane Törless, vi “è una frontiera invisibile; una porta stretta in cui le immagini degli avvenimenti debbono infilarsi, per passare nell'uomo” e tra uomo e uomo. Rubo a Musil per concludere: Deflorian e Tagliarini sono sul ciglio di questa porta, così l'immagino; hanno le punte dei piedi ad un millimetro dal reale e sono poggiati tuttavia interamente sulla scena.
Alle spalle il perimetro chiuso del teatro, negli occhi l'infinito orizzonte della vita.

 

 

 

leggi anche:
Caterina Piccione, Show Reality (Il Pickwick, 16 maggio 2016)
Francesca Saturnino, Deflorian/Tagliarini: la vie est un point de vue (Il Pickwick, 3 marzo 2016)
Simone Nebbia, Deflorian/Tagliarini. Roma, stupenda e misera città (Teatro e Critica, 28 luglio 2016)


su Il cielo non è un fondale:
Daria Deflorian, Antonio Tagliarini, Noi e Annie (Ernaux) (Doppiozero, 9 febbraio 2017)
Sergio Lo Gatto, Deflorian/Tagliarini. Il dormiveglia della memoria (Teatro e Critica, 1 dicembre 2016)
Andrea Porcheddu, Deflorian e Tagliarini: il mondo sotto questo cielo (glistatigenerali, 5 dicembre 2016)
Graziano Graziani, Deflorian/Tagliarini. Elogio del termosifone (Doppiozero, 1 dicembre 2016)
Giulio Sonno, Quell'identità sospesa tra il sé e l'altro: il paesaggio interiore di Deflorian/Tagliarini (Paper Street, 24 novembre 2016)
Michele Ortore, Il cielo non è un fondale. Il teatro di parola di Deflorian/Tagliarini (KLP, 5 dicembre 2016)


su Annie Ernaux leggi:
Marco Caneschi, Salvare qualcosa del tempo in cui non saremo mai più (Il Pickwick, 8 febbraio 2017)

 

 

Il cielo non è un fondale
di
Daria Deflorian, Antonio Tagliarini
regia Daria Deflorian, Antonio Tagliarini
con Francesco Alberici, Daria Deflorian, Monica Demuru, Antonio Tagliarini
collaborazione al progetto Francesco Alberici, Monica Demuru
testo su Jack London Attilio Scarpellini
assistente alla regia Davide Grillo
disegno luci Gianni Straropoli
costumi Metella Raboni
produzione Sardegna Teatro, Teatro Metastasio di Prato, Emilia Romagna Teatro Fondazione
coproduzione Odéon – Théâtre de l'Europe, Festival d'Automne à Paris,  Théâtre Garonne, Scène européenne
con il sostegno di Teatro di Roma
in collaborazione con Laboratori Permanenti / Residenza Sansepolcro, Carrozzerie n.o.t. /Residenza Produttiva Roma, Fivizzaro 27 /Nuova script Associazione Culturale Roma
foto di scena a corredo dell'articolo Elisabeth Carecchio, Claudia Pajewski, Giorgio Termini
lingua italiano
durata 1h 30'
Prato, Fabbricone – Teatro Metastasio, 8 febbraio 2016
in scena dal 7 al 12 febbraio 2016

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