“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 27 January 2017 00:00

Dell'attore di Jouvet; dell'Elvira di Servillo

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Per un elogio del disordine
Ogni pensiero, ogni frase, ogni parola, ogni lacerto teorico – ogni lezione – con Jouvet assume la dimensione concreta, artigianale ed umana, del teatro allestito in teatro. Qui, sul palco, tra quinte scure, con qualche piazzato o qualche faro verticale a fare luce, nell'aria l'eco del rumore di un passo – un tacco ha appena battuto sul legno – mentre sulle poltrone della platea giacciono le borse, i cappelli, le sciarpe e i cappotti degli attori.

Non c'è pagina che Jouvet abbia scritto che non assuma una dimensione corporea, che non rimandi ai muscoli e alla testa di un interprete: non c'è scritto di Jouvet che non tenga conto dello sforzo che le prove impongono a mani, piedi, braccia, schiena, petto, ventre, gambe, occhi; non c'è concetto o idea, non c'è digressione storica, approfondimento esegetico, rilettura di una battuta che non sia destinata al comédien: al suo corpo, all'anima sua. Leggete – se amate il teatro – Elogio del disordine, appena ripubblicato da Cue Press: sfogliarne le pagine significa a tratti sentire il fiato che un attore emette mentre prova a dire questa frase, significa percepire lo spostamento d'aria che produce mentre si muove nello spazio, significa soprattutto stare con lui – il comédien – a bordo palco o in un bar, in strada, in una tavola calda, sulla soglia di casa o sul divano che ha in salotto – quando rimane solo, con i suoi dubbi, le sue contraddizioni, i suoi rovelli: terminate le prove, salutati i compagni di recita. “Il centro del suo lavoro è l'attore e la sua pratica quotidiana” scrive non a caso Stefano De Matteis nella prefazione a Elogio del disordine; “Louis Jouvet o la passione dell'attore” aggiunge: “la passione minuta, l'attenzione ossessiva, la riflessione costante sulla pratica e sulla materialità dell'agire nel teatro” dominano ogni sua analisi, colmano queste pagine composte al risveglio o nelle ore notturne, prima o dopo le prove, negli interstizi tra uno spettacolo e un altro, ne alimentano gli interrogativi e il ragionamento continuo, diventando l'unica vera materia del suo dire, del suo scrivere, del suo fare teatro in un teatro.
La vocazione, la sincerità, “l'illusione di voler essere altro” e di poterci riuscire naturalmente, quasi senza fatica; l'ingenuità con cui l'attore crede che “Oreste, Amleto o Alceste” non attendano altri che lui per animarsi: “l'amore degli eroi di Racine” è il suo amore, “la malinconia di de Musset” è la sua malinconia: “ogni cosa del teatro gli sembra che inizi con lui e grazie a lui”. E poi la logica, l'egoismo mostruoso, la vanità, la frenesia, il disincanto e talora il disgusto, l'appetito insaziabile di fare, di sapere, di agire; gli entusiasmi alternati a stati dolorosi, a insoddisfazioni tanto profonde da poter essere confessate solo a se stessi. L'illusoria possessione del personaggio, che non c'è, che non senti, che non hai; la sensazione di non riuscire; quest'imbroglio nel quale non metti la sincerità necessaria; il dispiacere per un ruolo troppo breve rispetto al bisogno di esprimere e l'incubo del fallimento, la percezione d'essere finito in un labirinto dal quale desideri solo scappare lontano; uno stato di paura, la situazione che a un tratto ti sembra ridicola, la percezione di un blocco, questa cosa che ieri mi riusciva ma che oggi ho perduto. E la convenzione, la simulazione, “la menzogna nella quale il comédien vive”. La comprensione del doppio, di dover stare in bilico tra essere e apparire, “in una dislocazione forzata”, sensibile e instabile, e la presa di coscienza “che quello che all'inizio chiamavi arte è innanzitutto una pratica, un lavoro” e che questo lavoro t'obbliga a vivere nel far credere e nel fare finta, a dire parole d'amore all'attrice che detesti, a bere grandi sorsate di vino quando hai lo stomaco vuoto o indisposto. E la modestia, a un punto, di capire che per esserci devi annullarti – devi disincarnarti – perché esista il  personaggio. Infine – ma accade raramente – il dominio delle proprie sensazioni, una conoscenza del proprio corpo assoluto e una convinzione alta, “calda, che potremmo definire intuitiva: l'attore si accosta al sentimento drammatico”.
Così, “trovando il proprio mestiere, può dare senso alla propria vita”.


L'unico modo che un attore ha per parlare
Quella di Jouvet non è che tra le più alte manifestazioni, per dirla con Strehler, dell'unico vero modo di parlare che ha l'attore: “l'attore sa” – scrive infatti Strehler in Per un teatro umano – “che un'unica espressione gli è consentita, attraverso la parola altrui sul palcoscenico” ed è per questo che “non sa parlare, neanche del proprio mestiere”, se non quando questo parlare assume una dimensione immediata, fisica, da hic et nunc.
“L'attore”, continua Strehler, “medita sempre su ciò che è teatrabile” – giacché “nessun luogo più del teatro stimola il pensiero sul teatro” – e medita “su ciò che fa parte del suo mestiere ma senza sistema, come in una disvelazione, come un fatto personale. Un fatto di pensiero-sensazione condizionato dall'azione del teatro e che nell'azione del teatro soltanto si definisce e si chiarifica”. “L'uomo di teatro non riesce, se è uomo di teatro, a sfuggire al limite concreto del suo mestiere di teatrante” aggiunge ancora, ed è per questo che “il diario umano ed estetico di un uomo di teatro è scritto con azioni teatrali, nel teatro, per il teatro, attraverso il teatro e si brucia, pagina per pagina, nei limiti di una ribalta, reale o immaginaria che sia”. Il testo da leggere e da imparare, che non è che la premessa letteraria della possibilità d'agire e di recitare in concreto; questo sentimento, a cui torno con timore – e come precipitando nel tempo d'allora e nella situazione di quel tempo – perché mi sia comprensibile qui, adesso, in assito, il patema del personaggio; quell'uomo o quella donna che vedo seduti, sulla banchina della stazione, e che all'improvviso mi riportano alla creatura di quest'opera, sulla cui resa sto lavorando da giorni.
Infine.
È l'operare quotidiano del teatro, afferma Strehler, che dice cosa è stata davvero tutta questa vita dedicata al teatro ed è – il pensiero di Strehler – tanto un rimando alla concretezza agita e vissuta da ogni esistenza teatrale quanto un richiamo alla responsabilità del proprio ruolo, alla coerenza delle proprie scelte, all'onestà (con se stessi innanzitutto) del proprio impegno, del proprio percorso, del proprio tempo speso in questo mondo, su questo palcoscenico. Così da un lato emerge che il teatro è innanzitutto “un amore” che − come ogni vero amore − non vive di picchi e di lampi, non si manifesta per sbalzi improvvisi e passeggeri, non si esprime per dichiarazioni focose e momentanee ma si misura e conferma “nella dura, monotona, continuità della pratica teatrale quotidiana, nei piccoli particolari del proprio lavoro: giorno dopo giorno, mese dopo mese, anno dopo anno”. Dall'altro lato Strehler afferma l'importanza di un rigore morale che – proprio perché attuato in concreto – va dimostrato non con le petizioni di principio, gli appelli pubblici, le affermazioni assolute, le citazioni artistiche dotte ma “con la pratica continua del mestiere”. Quando Strehler dice che “la verità o la falsità di una vita di teatro, la nascita di un'estetica teatrale, avviene soltanto attraverso l'esempio e il valore sul palcoscenico” fonde infine i due aspetti: io, voi, questo gesto, il senso del dovere, la disciplina, il palcoscenico, tutta la mia vita.
Vedeteci in questo Jouvet, vedeteci anche Strehler stesso se vi va; vedeteci Leo de Berardinis quando dice e scrive dell'“artista responsabile di ciò che egli è in palcoscenico” e che “riesce a trasformare qualsiasi materia testuale in virtù della sua creatività, che non è altro che la sua biografia interiore, talmente profonda da diventare esemplare”; vedeteci – se preferite – Eduardo che, attraverso la maschera di Campese nell'Arte della Commedia, dice a Sua Eccellenza il Prefetto De Caro “quando cammino per la strada e mi capita di battere due o tre volte il piede in terra, perché mi si è attaccato qualcosa sotto la scarpa, mi sorprende il fatto che quei colpi battuti non producono lo stesso rumore di quando batto un piede sulle tavole di un palcoscenico” (ecco il risultato di tutta una vita trascorsa in teatro) e glielo dice prima di rivendicare ciò che – in Italia, nel 2017 – non ha ancora trovato realizzazione effettiva: il riconoscimento e il rispetto per l'attore in quanto lavoratore: “L'uomo che fa l'attore” –  caro Prefetto – “svolge un'attività utile al suo Paese o no?” perché vedete – caro Prefetto – sul sillabario dato ai bambini nella pagina Arti e Mestieri “il medico c'è, l'avvocato c'è, l'ingegnere c'è; poi c'è il sarto, il falegname, il fabbro, il maniscalco, l'arrotino… l'attore non c'è”. Oggi come allora – caro Prefetto, cara Eccellenza – “questo punto è rimasto inalterato”.
Ecco, questa è la mia premessa all'Elvira di Servillo ed è in tutto questo – mi pare – che ci sia il senso vero dello spettacolo.


Solo un ruolo, solo il quarto atto
Un palcoscenico vuoto, sul quale una pedana funge da ribalta di prova, da trampolino di lancio; due sedie; luci verticali fisse; nell'angolo anteriore sinistro una scrivania: un lume già acceso prima dell'inizio dell'Elvira – a segnalare che siamo nel mezzo di prove già in atto e non al loro inizio – e fogli, testi, il copione. Altri due copioni, rimanenza delle precedenti giornate, giacciono in abbandono, in attesa di essere ripresi: il primo è in bilico su una delle scalette che collega il palco alla platea; il secondo si mantiene in equilibrio in proscenio: metà delle pagine adagiate sulle tavole di legno, metà come proiettate all'esterno, fuori, verso spettatori ad un tempo presenti ed assenti. Mi sembrano questi copioni simboli di raccordo tra il sopra e il sotto, tra qui e lì, tra il palco e il resto del mondo. La scenografia comprende anche la prima fila del Bellini, in parte sventrata: quattro poltrone a destra e quattro a sinistra, che suggeriscono il luogo in cui dobbiamo immaginare, percepire, sentire di essere: pur sedendo qui stasera, infatti, noi non ci siamo giacché il Bellini dev'essere inteso come un teatro vuoto, privo di estranei, di osservatori o curiosi. Sulle poltrone le sciarpe, i cappelli, i cappotti, la borsa delle uniche persone che possono dunque abitare il palcoscenico prima che uno spettacolo diventi ciò che noi comunemente chiamiamo “spettacolo”: il regista e gli attori, impegnati nelle prove. In questo luogo che è tana, rifugio, altrove a parte dal mondo, che è palestra, casa e galera, cantuccio, studio dove in penombra si tenta di far venire alla luce ciò che ancora non è chiaro va in scena l'Elvira di Servillo.
La drammaturgia è composta da sette delle tredici lezioni che Jouvet dedica al Don Giovanni di Molière e precisamente quelle che vanno dal 14 febbraio 1940 al 21 settembre dello stesso anno. La loro trascrizione si deve a Charlotte Delbo, che poi finì ad Auschwitz e che ad Auschwitz continuò a fare teatro, allestendo con le proprie compagne di baracca Il malato immaginario mentre alle spalle continuavano a bruciare i corpi nei forni e che, per sentirsi viva veramente, non esitò a barattare cibo con una copia del Misantropo. Credo sia necessario ricordarlo poiché il suo nome scompare presto dalle edizioni dei libri di Jouvet. Non ci sono – anche se mi pare d'intuirne talora una frase, un concetto – invece le lezioni del 1939 e quelle dell'ottobre-novembre-dicembre del 1940. Potete leggerle, se volete, queste tredici Lezioni su Molière: sono state pubblicate da Officina Edizioni.
Annunciate da una voce nel buio, sorge la singola giornata – “Parigi, 14 febbraio 1940”; “Parigi, 21 febbraio 1940” e così di seguito. Sono giorni strappati al resto dei giorni, sono una parte di prove rubate alla loro continuità quotidiana.
Dunque le prove, ma le prove di cosa? A cosa assistiamo in concreto? Cosa l'Elvira ci offre? La risposta più immediata contiene un inganno: stiamo osservando la nascita di uno spettacolo. Errore. Quel che Elvira mostra ha dimensioni più ridotte. Riproviamo: stiamo osservando il lavoro compiuto su un frammento di uno spettacolo e precisamente l'atto quarto, scena sesta, del Don Giovanni. Ci siamo, ma non ancora del tutto. Altro  tentativo: stiamo assistendo al lavoro svolto su un ruolo, un ruolo solo – quello di Elvira – in relazione alla sesta scena del quarto atto dell'opera di Molière.
È importante questa piccolezza, questa frammentarietà, questa dimensione parziale; è importante tenerla a mente perché serve a dirci quanto esercizio, quante parole, quanto pensiero appartengano a un solo minuto espresso da un solo personaggio della messinscena di cui siamo spettatori. Lo sappiamo, il teatro si fonda sulla compressione del tempo per cui raramente i dieci minuti dello spettacolo coincidono con i dieci minuti di chi siede in poltrona: da Shakespeare all'opera che sarà scritta domani, nel volgere di due battute possiamo viaggiare da un paese ad un altro, da un secolo al secolo seguente. Ma c'è un'altra compressione cronologica, nascosta, su cui si fonda il teatro ed è quella che coniuga l'ampiezza del prima all'immediatezza dell'adesso: mesi condensati nell'ora della recita; settimane che trovano la loro espressione in questo gesto, che dura pochi secondi; giorni che diventano una posa silenziosa, compiuta per un istante, prima di sparire tra le quinte. L'Elvira inverte il processo e ci consente, attraverso l'immediatezza dell'adesso, di vedere l'ampiezza del prima


Servillo, Jouvet, il teatro
Non c'è – come ha già scritto Enrico Fiore nella sua recensione – alcun rimando all'Elvira o la passione teatrale di Giorgio Strehler, che fu spettacolo inaugurale de Il Piccolo Teatro Studio e in cui il regista, interpretando Jouvet, interpretò soprattutto se stesso; mi pare vicino invece – ne guardo e ne riguardo da giorni su Youtube la messinscena – l'Elvire Jouvet 40 di Brigitte Jacques che funge da riferimento drammaturgico: vicino nei toni, nei movimenti, nei tempi, nel bianco-nero degli abiti di lei, nella scrivania con lume già acceso posizionato anch'essa a sinistra. E tuttavia presto questo Elvira diventa un altro Elvira ancora e per rendersene conto basta seguire Toni Servillo badando ai suoi toni, ai suoi movimenti, ai suoi tempi e al modo nel quale genera e vive le pause significandole, alla direzione dello sguardo quando è volto verso una platea che per lui è vuota, noi non ci siamo se non come orizzonte ideale, nell'attimo in cui misura lo spazio e già vede le luci eventuali di uno spettacolo che non sarà mai realizzato.
La mimica del volto che, per dirla con l'Anna Barsotti de Il teatro di Toni Servillo, trova “nella condizione pre-espressiva dell'attore” una sua forma, basandosi sulla rinuncia all'eclatante e sulla caratterizzazione continua per piccoli segni; il ritmo della voce che accelera e rallenta valorizzando il dettato, che marca le parole-chiave di una frase, impone un concetto, fissa nell'aria un'espressione per poi rinunciare, magari con la battuta seguente, alla corretta dizione di un periodo, che finisce abbozzato, masticato, come puro suono onomatopeico: un rimando, penso, “alla dizione poco chiara” di Jouvet, difetto che tutti gli imputavano prevedendo per lui una carriera di ruoli marginali. E la posizione nello spazio, questa millimetrica attenzione alla relazione col teatro nudo ma anche nei riguardi dei compagni di recita: tracciandone sul taccuino alcuni movimenti m'accorgo di quanto sia calibrata ogni direzione, individuale e collettiva: eccolo, ad un punto, seduto sulla poltrona ad osservare la Claudia-Elvira di Petra Valentini; uno scatto, la postura verticale, la salita in palcoscenico, la vicinanza all'attrice che rende l'Octave-Don Giovanni di Francesco Marino e il Léon-Sganarello di Davide Cirri ciò che devono essere – spettatori interni; eccoli tutti e quattro in proscenio, la coppia centrale serratissima: l'uno affianco all'altra mentre gli osservatori se ne stanno di lato, finché lo Jouvet di Servillo non prende definitivamente parola prendendo definitivamente presenza e centralità: Elvira, Don Giovanni, Sganarello (meglio: Claudia, Octave, Lèon; meglio ancora: Petra, Francesco e Davide) scendono in platea, siedono in poltrona mentr'egli guardandoli dice “trovo che sia il monologo più straordinario di tutto il teatro”.
La mano destra allungata verso la platea – ora in maniera netta, ora in modo accennato – quando usa la parola “pubblico” o che viene adoperata, all'improvviso, per zittire i due interpreti mentre lei sta recitando il monologo; la lunga pausa che anticipa la considerazione sul personaggio di Elvira: “è una donna che non può parlare”; lo sguardo velocissimo alle attrezzerie, che rende una delle caratteristiche specifiche di Jouvet (l'interesse che ebbe per l'aspetto tecnico e architettonico del luogo teatrale); questo continuo rovello di un'espressione, che si raddoppia facendomi pensare a un'onda più piccola che s'accalca sull'onda grande che l'ha preceduta: “voi non lo fate mai, voi non lo fate mai”, “è così, è così”, “lo senti, lo senti” e “ascoltatemi bene”, “non è vero”, “per te no”.
Jouvet, certo, giacché Servillo si è disincarnato per far emergere il regista francese ma soltanto Jouvet mi chiedo?
Il silenzio come tempo-e-spazio dello studio, della riflessione, dell'approfondimento; la parola coniugata sempre in azione (non c'è frase che non diventi un atto, verbo messo in pratica, gesto d'accompagnamento traduttivo); questo ritorno sonoro che rimanda alla reiterazione delle prove: il Jouvet di Servillo è una metafora carnale, gestuale, ritmica – attorale – del teatro in quanto teatro e nel suo corpo “esemplare”, per richiamare Leo de Berardinis, alberga ciò che gli alberga intorno e che appare forma e materia dello spettacolo: il silenzio dello studio, la parola cui segue l'azione, la prova di una scena che viene tentata e ritentata di continuo.


Perché va visto
In alcune recensioni seguite alle recite tenutesi a Il Piccolo di Milano – ma, di sfuggita, anche in alcune frasi ascoltate nel foyer del Bellini – c'è chi scrive o parla di emozione mancante, di relazione algida con la platea, c'è chi, apprezzata l'indubbia bravura degli interpreti e la bellezza della lezione moleriana di Jouvet, lamenta (quasi provando un senso di colpa) il non essere riuscito ad entrare in empatia, fino in fondo, con lo spettacolo. È una sensazione, naturalmente individuale e aggiungerei minoritaria, che non mi sorprende e che comprendo: perché la dinamica dell'Elvira è necessariamente tutta interna, finalizzata com'è a definire i rapporti tra il regista e gli interpreti; perché – nonostante la perlustrazione della platea, nonostante gli attori rasentino i muri laterali, l'attrice usi il corridoio centrale, il regista si esponga fin quasi a mezza sala, non c'è né dev'esserci mai caduta della quarta parete o meglio: non può esserci alcuna cessione a un rapporto diretto con spettatori che, pur essendoci, non esistono. Se soltanto uno sguardo cedesse – lo sguardo di uno qualsiasi degli interpreti – l'intero Elvira crollerebbe come crolla un castello di carte con un soffio. Perché siamo al cospetto di uno spettacolo che è l'opposto della teatralità data dal performer, che in quanto performer, afferma innanzitutto se stesso in quanto se stesso attraverso la frontalità, la relazione costante con chi lo osserva, l'esposizione della propria abilità e della propria tecnica. Infine. Perché si tratta di una lezione, occorre non dimenticarlo, che ha nel senso naturale della misura e del rigore – l'innaturale trova nella forma errata che sta assumendo la recita del Don Giovanni l'espressione più evidente – la propria cifra stilistica.
Di contro mi chiedo: chi dovrebbe vederlo e perché?
Dovrebbero vederlo gli attori e, in particolare, gli allievi di scuole, accademie, corsi, laboratori. Dovrebbero vederlo per comprendere quanta strada c'è da fare, quanto sia comprensibile ma illusoria certa padronanza del mestiere che sentono di possedere dopo aver fatto la comparsa nel loro primo spettacolo, perché abbiano chiaro che è la fine dell'orgoglio personale il presupposto per tentare di avvicinarsi al sentimento drammatico; perché comprendano cosa comporta e dunque quale peso ha la parola "attore"; perché capiscano quanti errori, quale immenso numero di passi sbagliati – di entrate in scena inadeguate – servono per intuire soltanto come va poggiato il piede, venendo dalle quinte. Dovrebbero vederlo perché gli restino in mente i “quanto a recitare siamo ancora lontani”, i “vai troppo veloce” o “sei troppo lenta”, i “non fermarti al punto”, “ti accorgi che è difficile?”, “questo modo di lavorare non è giusto”.
Dovrebbero vederlo perché ad un tempo sul palco c'è il lavoro quotidiano del teatro, c'è il logorio che questo lavoro determina e c'è il teatro (l'arte) che lavora sugli uomini, cosa cioè produce questa dedizione assoluta all'atto creativo in coloro che se ne assumono la responsabilità; dovrebbero inoltre vederlo perché l'Elvira non presenta un'attrice straordinaria in grado di trovare adesso, subito, ora sì che ho capito, il modo di cedere al suo personaggio rendendolo come va reso: mostra, al contrario, un'interprete che sbaglia, che non riesce e che studia, si arrovella, ripete, che si trattiene in pedana o sul fondo quando tutti sono andati via, che si entusiasma, apprende, insiste, che per un attimo rapisce i presenti col suo monologo – tenendosi sul filo delle lacrime, tenendoci col fiato sospeso –  prima di sentirsi dire che ha sbagliato ancora, che non è ancora riuscita.
“Che ne pensi?”
“Ho l'impressione di averti annoiato, io invece mi sono sentita bene, sento uno stato d'animo piacevole quando recito questa parte”.
“Ascoltate bene quello che dice Claudia: quando prova questa scena si sente in uno stato piacevole”; “insomma, a te dà piacere”.
“Mi sembra di essere nello stato d'animo di Elvira”.
“E allora vi suggerisco una cosa che ritengo fondamentale: tutte le volte che avvertirete la sensazione che qualcosa vi riesce facile, mi riferisco a qualcosa che otterrete senza sforzo, non va bene. Recitare una parte, qualunque parte essa sia, comporta sempre un certo grado di fatica e di sofferenza, lo sforzo è una componente sempre presente”.
Sì, dovrebbero vederlo gli allievi di scuole, accademie, corsi, laboratori: per ascoltare questo dialogo che, non a caso, rappresenta l'inizio dell'Elvira.
Ma in realtà dovremmo vederlo tutti noi spettatori assidui o episodici di teatro. Noi che stiamo al di qua, noi che sediamo in platea talora con la stessa leggerezza scomposta con cui sediamo in metropolitana, noi che spegniamo il cellulare un minuto dopo che lo spettacolo è iniziato; dovremmo vederlo noi – e qui scrivo parafrasando Jouvet – perché dovremmo sapere, proprio in quanto spettatori, cos'è il teatro; perché dovremmo averne un'idea; perché dovremmo essere coscienti – quando compriamo un biglietto, quando entriamo in sala, quando attendiamo l'inizio – che esiste un mestiere di teatro, una vocazione di teatro, una professione di teatro che merita rispetto, attenzione, silenzio, capacità di ascolto.
Vengano poi gli applausi, se crediamo; poi vengano i fischi.


La guerra, fuori
Tralascio il gioco di rimandi che l'Elvira presuppone (un'attrice che s'annulla per far emergere un'attrice che a sua volta cerca d'annullarsi per far emergere il personaggio; un attore che interpreta un regista; uno spettacolo che inscena le prove in vista di uno spettacolo) lasciandone il piacere agli spettatori e mi soffermo su un altro aspetto.
La drammaturgia dice che siamo nel 1940; ad un punto le parole di Goebbels passano le pareti del teatro dandomi la sensazione di uno stupro, di una penetrazione carnale: Claudia che –  rimasta da sola in teatro, sta rileggendo la parte d'Elvira – s'alza, stringe le cose che ha in mano e va via. Preme dall'esterno il nazifascismo che impedì la messinscena del Don Giovanni a Jouvet, che scacciò la vera Claudia (ossia Paula Dehelly) da ogni teatro in quanto ebrea, che spinse il regista all'esilio e mi tornano in mente – ripensando Jouvet in viaggio verso la Svizzera – i concetti di senso del dovere e di onestà verso se stessi e verso un lavoro che con se stessi coincide: “Le ragioni per le quali ho lasciato Parigi” – scrisse infatti Jouvet – “non sono né religiose né politiche. Ho lasciato Parigi perché mi è stato impedito di recitare due dei miei autori: li hanno trovati anticulturali e mi proponevano di sostituirli con Schiller e Goethe. Non era più il mio mestiere. Non si fa teatro in ultimo” – continua – “che per piacere e in libertà. Avere una professione e praticarla nel rispetto di tutti i suoi principi mi è sembrato allora, e mi sembra oggi più che mai, il mezzo migliore e più sicuro, per un uomo di teatro, di fare politica e di avere una religione”.
Il 1940, il sonoro di Goebbels, il nazifascismo che avanza. Probabile che appartengano, per tornare alla recensione di Enrico Fiore, alla “visione storicistica” del teatro di Servillo. Probabile che siano la conseguenza della fedeltà al testo di partenza, alla biografia del regista, alla situazione di allora che viene adesso evocata. Probabile che rimandino anche a una convinzione di Jouvet: il teatro, nei momenti di crisi, si è salvato sempre attraverso gli attori ma, con la guerra, era venuto il momento di prepararsi all'invasione tecnologica del piccolo artigianato teatrale: dalla guerra in poi "la radio, il cinema, avrebbero imposto agli attori di teatro la loro scienza" come scrive Stefano Geraci nella postfazione alle Lezioni. E tuttavia sembra anche un richiamo al presente, intensissimo nel non essere né dichiarato né ostentato. Dicono infatti queste prove che non porteranno a uno spettacolo di quanto il teatro sia fragile giacché umano (scritto da uomini, messo in scena da uomini al cospetto di altri uomini); dicono di quanto sia facile affaticarlo, denutrirlo, impedirlo, finanche spazzarlo via; dicono quanto sia semplice vanificarne ogni impegno, dicono quanto sia immediato ridurne vocazione ed entusiasmi all'inazione; dicono che c'è ancora e di nuovo e sempre il pericolo che il palcoscenico rimanga deserto, che un teatro giaccia muto: che non ne resti che il legno, forse, e le luci e la polvere e un silenzio assordante, prodotto dall'assenza degli attori.
Ci avvertono i rombi di guerra dell'Elvira –  quest'audio in tedesco – che dovremmo voler bene al teatro, che è giunta l'ora di prendercene cura e di proteggerlo davvero, partecipando in ogni modo possibile alla sua crescita perché sia fondamento sociale, parte essenziale del discorso collettivo, fenomeno in questo senso politico.
Perché basta poco – anche solo un taglio burocratico, una norma scritta da qualcuno per qualcun altro in commissione, un diritto tramutato in privilegio – perché una sala piena si svuoti, perché una storia che sta iniziando termini, perché un attore smetta di recitare al cospetto del pubblico.

 

 

Elvira (Elvire Jouvet 40)
di
Brigitte Jacques
da Molière e la commedia classica
di Louis Jouvet
traduzione Giuseppe Montesano
regia Toni Servillo
con Toni Servillo, Petra Valentini, Francesco Marino, Davide Cirri
costumi Ortensia De Francesco
luci Pasquale Mari
suono Daghi Rondanini
aiuto regia Costanza Boccardi
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d'Europa, Teatri Uniti
foto di scena Fabio Esposito
lingua italiano
durata 1h 10'
Napoli, Teatro Bellini, 24 gennaio 2017
in scena dal 24 gennaio al 12 febbraio 2017

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