“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 16 November 2016 00:00

La grazia dell'inservibilità

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“Un fioco idillio nelle piatte lande estive”
 

Donald Richard DeLillo è uno scrittore americano, considerato uno dei capostipiti del postmodernismo. Faccio questa premessa per coloro che in questi giorni vedendomi con Punto omega in mano, appunto un libro di Don DeLillo, mi hanno chiesto ripetutamente se stessi leggendo l’opera di un prete. Don DeLillo non è un prete, ma un maestro, una mente e una sensibilità di quelle rare. Anni fa lessi la sua prima fatica letteraria Americana, oggi posso dire che la sensazione che accompagna la lettura dei suoi libri si ripete. Faccio fatica ad immergermi nella narrazione, sono disorientata, i suoi universi sono rebus, la percezione in agguato che una qualche chiave di lettura sia nascosta e solo quando l’avrai trovata riuscirai davvero a sentirti partecipe del tutto.

Ogni cosa sembra collocata nel posto sbagliato, la linearità delle immagini e della narrazione è continuamente spezzata, i personaggi si muovono incompleti dentro una storia già avviata, gli eroi e gli antieroi si mischiano, i dialoghi restano in bilico sull’orlo di un surrealismo quasi materiale, la scrittura è una lama velenosa che incide tagli profondi permettendo al cuore nascosto di rivelarsi e riversarsi, confusamente, tra effluvi confusi di umori e cliniche definizioni. Serve tempo e pazienza per entrare a pieno nella storia, eppure a un certo punto ti accorgi che la fabula è solo un espediente piegato dall’autore a favore della grande speculazione e indagine filosofica che, alla fine, emerge.
Punto omega è una riflessione serrata sul tempo, la percezione che abbiamo del tempo e l’enorme inganno che questo sia uno e solo. L’intero racconto è chiuso dentro due parentesi, veniamo introdotti in un museo dove si sta esponendo non un’opera d’arte autentica, ma una semplice videoinstallazione del film Psycho, con una particolarità: il film è stato rallentato talmente tanto da svolgersi nell’arco di ventiquattro ore, proiettato in una stanza buia, con una sola guardia alla porta che controlla il flusso di visitatori e un uomo inchiodato alla parete. Entriamo nella testa di quest’uomo che ogni giorno paga il biglietto del museo per assistere alla proiezione dello stesso film. I fotogrammi lentamente si susseguono, le immagini sembrano quasi scomposte, prive di un senso complessivo, ma rivelatrici nella lentezza, perché da questa operazione che scompone e frammenta emerge una profondità non colta. La velocità è vorace, divora il segreto delle cose, offusca i percorsi, e la conoscenza cos’è se non un percorso, una strada che porta a qualcosa e ci rende indimenticabile quel qualcosa non per il valore in sé, ma perché ha creato luoghi di percorrenza dentro di noi, campi semantici, geografie di significato, qualcosa di vicino alla natura della vita stessa. Meno c’era da vedere più vedeva, così scopriamo che l’automatismo dei nostri sensi ci preclude spesso la tematizzazione degli stessi, ma DeLillo va oltre, perché non è solo la consapevolezza ciò che elogia, la ragione spesso astrae, viviamo in una società completamente astratta, perciò la coscienza dell’atto stesso di guardare è in verità legata a un’intelligenza dei sensi ormai sopita, soppiantata da una mera riflessione del pensiero senza peso. Ecco che diventa essenziale una regressione, quasi, tutto quello che abbiamo sempre saputo, tutti gli elementi accessori e decorativi, tutte le trasformazioni dell’estetica, va tutto abbandonato, almeno per un po’, che l’estetica ritorni quella di un tempo, strettamente imparentata con la sapienza dei sensi. Il bianco e nero del film permette ciò, è un elemento neutralizzante, l’immagine si riduce, si sveste degli orpelli e rimane pura come un numero, come la matematica, come la parola dalla forte carica onomatopeica. Questa è la prima parentesi che racchiude il racconto, alla fine troveremo la stessa scena, lo stesso film, l’identica lentezza anatomizzata dalla mente di quest’uomo.
Entrando nel vivo della storia abbiamo un uomo non più giovane. Richard Elster è anzitutto un intellettuale che ha prestato le sue conoscenze al governo sotto il titolo di Teorico della difesa. Abbandonato questo impiego si ritira nel deserto, in una casa di proprietà che ora funge da rifugio e da punto di osservazione per tutti i pensieri e le speculazioni che verranno fuori nell’arco di poche pagine. Un regista giovane intende girare un film documentaristico su quest’uomo, ha bene in mente il modo in cui raccontare la storia, perché sarà proprio Elster a raccontarla agli spettatori, attraverso una serie di domande che il regista gli porrà durante le riprese. Prima che ciò abbia luogo il giovane cineasta, sotto invito del veterano, decide di raggiungerlo per imparare a conoscerlo e razionalizzare i contenuti del film. Elster e il giovane si ritrovano nel pieno deserto, circondati da una solitudine e un silenzio naturale talmente carico e vasto da svelare i sottili e tellurici rumori della natura, rivelando con essi il tempo enorme e sconfinato della storia quando non è solo quella umana. I dibattiti tra i due si infittiscono, a volte sono magri scambi di battute, altre verità così sconcertanti da lasciare perplesso il lettore. Elster, immerso con gli occhi e lascivo col corpo, parla quasi come se fosse solo, immagina quello che dice più che comunicarlo. La guerra, secondo Elster, è semplicemente una creazione artificiale di una nuova realtà, di una menzogna tenuta su da parole ben confezionate, slogan pubblicitari capaci di creare immagini e immaginari che, a loro volta, diventano collettivi e quindi legittimati dalla massa. Se la percezione umana non è che uno strumento semiautonomo incaricato di filtrare la realtà e ricrearla, attraverso interpretazioni e riconoscimenti, la pratica discorsiva sulla guerra, il modo in cui questa ci viene venduta, non ha nulla a che vedere con un’operazione così umana; la mente dello stratega si isola e dà vita a realtà nuove, a universi costruiti e resi credibili grazie alla sua spaventosa capacità immaginativa, tanto che alla fine la menzogna di questi luoghi diventa tridimensionale. Tipica denuncia di un postmodernismo che rifiuta il soccombere del criticismo sotto il dominio estatico della pubblicità.
Però il titolo vorrà dire qualcosa e infatti dice molto, se non tutto. Come la parentesi annuncia, anche nel pieno racconto viene affrontato il tema dell’evoluzione e della regressione, dove per regressione non si intende un passo indietro, ma un ritorno, una chiusura del cerchio. Dalla nascita del mondo, dalla sua creazione è stato sempre un processo di accrescimento, secondo i positivisti più accaniti, la materia grezza si è raffinata nei suoi vari stadi fino all’alba della coscienza umana, al pensiero analitico dell’uomo. Da uno stadio semplice siamo gradualmente passati a uno complesso, articolato, anche se l’inorganicità della pietra pare somigliare all’astrazione dei processi mentali, così in realtà il valore aggiunto sta nel passaggio dalla forma bruta alla forma aggraziata. Tutto questo mi ha fatto pensare immediatamente a un monologo presente in una serie tv recente, a mio avviso tra le più intelligenti prodotte negli ultimi anni, True detective; il momento in cui l’agente Rust Cohle afferma: “Credo che la coscienza umana sia un tragico passo falso dell'evoluzione. Siamo troppo consapevoli di noi stessi. La natura ha creato un aspetto della natura separato da se stessa. Siamo creature che non dovrebbero esistere per le leggi della natura. Siamo delle cose che si affannano nell'illusione di avere una coscienza. Questo incremento della reattività e delle esperienze sensoriali è programmato per darci l'assicurazione che ognuno di noi è importante, quando invece siamo tutti insignificanti”. Elster per molti aspetti mi ha fatto pensare all’agente Rust, il suo punto omega vaticinato e quasi anelato, diverso dal senso originario del termine, più incline a indicare un’espansione verso l’interno, un ritorno quindi, l’ultimo, quasi promesso e inevitabile come un destino.
Sarà il deserto e i pensieri che in esso si perdono e si confondono, ma in questi spazi enormi e antichi manca quello che Elster chiama il conflitto, quel conflitto che incontri appena metti il naso fuori, nelle grandi città, perché il conflitto alla fine sono gli altri. Inciampare nel nostro simile significa portarsi dietro uno specchio impietoso, la città è piena di specchi di questo genere, riflettono il nostro stato, il nostro torpore, la stratificazione di un tempo fasullo fatto di orologi e scadenze. Il nostro è un tempo che somiglia a un cappio, che nasconde sempre il terrore. Cos’è il terrore? Il calcolo minuto per minuto. Nel mondo moderno tutto è cadenzato, separato per strati sanciti da un tempo tiranno, artificiale. La somma di questi veli spessi è l’alienazione, la perdita del contatto, in ultimo l’isolamento; siamo fantocci isolati, soli ed estranei, balle di paglia che ardono nel loro angolino in un campo sterminato. Il terrore è quello che resta, è il deserto che potrebbe essere realtà autentica invece, fungendo da grado zero, diventa il terrore. La verità sotto la menzogna, quella bugia che una volta nuda non possiamo seppellire perché è la sola vita alla quale ci siamo votati, rinnegarla significherebbe aver vissuto invano.
Il deserto, invece, insieme a tutti i grandi e piccoli paesaggi naturali ci racconta un altro tempo, quello in cui l’essere umano, le specie tutte, sono eventi e fenomeni, a volte imprevisti in questa grande architettura che cambia continuamente sotto i nostri occhi. Il tempo della natura è dilatato, enorme ed elastico, però reale perché materiale, ci precede e ci sopravvive, si sgretola e si riedifica sotto altri aspetti, è un tempo epocale. Potremmo quasi sentirci superflui in questo universo siffatto, l’evoluzione ce lo dimostra, poiché in sé ha sempre il seme dell’estinzione. Siamo inservibili, per questo la nostra sola qualità è la bellezza.
A noi l’immaginazione.
A noi il potere di non servire a nulla.
Un evento stravolgerà la vita contemplativa del regista e di Elster: la scomparsa improvvisa della figlia del veterano. Insieme a loro veniamo risucchiati di nuovo nel nostro ristretto tempo, nel nostro vortice di angosce, ansie ed emozioni. Di nuovo, entrambi, riprendono a contare i giorni, il deserto diventa una presenza incombente, minacciosa, la purezza degli spazi richiama a un’innocenza di vedute troppo ampie, c’è qualcosa di straziante in questa vastità in cui naufraghiamo, noi piccoli esseri umani intrappolati in un corpo e perseguitati da sentimenti che ci spezzano il cuore. DeLillo è un maestro, non lo sai subito, lo capisci dopo, quando alla fine di centocinque pagine scarne senti distintamente di aver vissuto l’esperienza desolante e infinita di un tempo che ci genera e ci ignora, e quella del nostro personale tempo, quel passaggio breve, intimo e chiuso, stretto come un abbraccio discreto: Il punto omega si è ristretto, qui e ora, alla punta di un coltello che penetra un corpo.

 

 

 



Don DeLillo
Punto omega
Einaudi, Torino, 2010
traduzione Federica Aceto
pp. 105

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