“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

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Wednesday, 09 November 2016 00:00

Alda Merini: "Matta" da legare o "Mente" da legare?

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“La sera vennero abbassate le sbarre di protezione e si produsse un caos infernale. Dai miei visceri partì un urlo lancinante, una invocazione spasmodica diretta ai miei figli e mi misi a urlare e calciare con tutta la forza che avevo dentro, con il risultato che fui legata e martellata di iniezioni calmanti. Ma non era forse la mia una ribellione umana?”.
Così Alda Merini descrive il doloroso inizio dell’internamento manicomiale al Paolo Pini di Milano, durato dal 1965 al 1972 e intervallato da alcuni ritorni in famiglia.

In quegli anni la legge sancisce che l’uomo ha la facoltà di decidere arbitrariamente dell’avvenire della sua donna la quale, se ritenuta incapace di assolvere al ruolo naturale di moglie-madre, non è vittima bensì peccatrice e quindi meritevole di una punizione. Alda viene quindi respinta e rifiutata dal marito in quanto persona instabile, matta, non può vantare più alcun diritto né sulla sua casa né sulla sua famiglia. Privata della stima e della dignità, è condannata alla solitudine ed etichettata come malata di mente. Se per matto oggi siamo soliti intendere l’alterazione delle facoltà mentali connessa, talvolta, con la violenza verbale e fisica, o una qualunque forma di alienazione mentale con il conseguente abbandono di ogni criterio di giudizio, ci risulta difficile credere ed accettare che Alda sia stata internata per una leggera forma di depressione acuita dalla perdita della madre, a cui era molto legata, e dalla scarsa comprensione e attenzione del marito.
La Merini in L’altra verità. Dario di una diversa, ci offre una testimonianza di vita vissuta, ci lascia una traccia tangibile degli orrori e delle torture fisiche e morali a cui è stata sottoposta. La sera le sue mani e le sue caviglie, come quelle di tutti gli altri degenti, vengono legate al letto da “fascette” di una spessa corda di canapa che ne impediscono il movimento, immobilizzando completamente il corpo. In quelle ore buie la Merini, abituata da sempre al razionalismo e all’indagine sul perché delle cose, si chiede come sia potuta capitare in quell’inferno, in quel labirinto senza via d’uscita. Sarà proprio lei ad ammettere, più tardi, che dal manicomio, così come da una pesante catena, non ci si può mai liberare, è un peso che accompagna e scandisce tutta la vita di chi ci è stato e a nulla serve fare resistenza, è una macchia indelebile. Condannata alla reclusione forzata e all’ inevitabile umiliazione, dovuta sia alle condizioni bestiali in cui era costretta a sopravvivere, sia alle pratiche mediche discutibili, nell’animo della poetessa inizia il cosiddetto processo di “spedalizzazione”, ossia l’annullamento della società esterna, che cade in un profondo oblio, e l’accettazione del contesto in cui si interagisce, considerandolo l’unica realtà possibile e desiderabile, sebbene caratterizzata da disordine reale e morale.
Questo libro, il suo primo in prosa e risalente al 1986, ci mette di fronte all’esperienza di una grande artista, di una mente diversa che ha dovuto fare i conti con la realtà dei fatti, il suo estro l’ha distinta dalla massa e le ha garantito un rifugio; il suo genio, libero anche se in catene, l’ha salvata.

 

 

 

Alda Merini
L’altra verità. Diario di una diversa

prefazione di Giorgio Manganelli
Milano, Rizzoli, 1997
pp. 156

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