“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 25 October 2016 00:00

Che sapete di me? Che sappiamo di lui?

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Lucio quando aveva quindici anni si vergognava di mettere il casco: anche quando sognava di andare sul motorino con “una bionda dietro, i capelli che escono dal casco – i suoi – e la felicità: la mia”. Lucio, fin da ragazzino, ha lavorato: ha fatto le grattachecche e ha fatto il cameriere, il venditore di giornali, il responsabile di spazi pubblicitari per una rivista andata in fallimento. Lucio quando guarda la televisione sbuffa. Lucio ha fatto sport. O almeno così afferma.

Lucio dice che – da bambino – pensava che suo padre fosse un eroe: è con lui che ha cominciato a mettere benzina ed è stato osservando “la fisarmonica” (il portafoglio del benzinaio, talmente pieno di banconote che quando s'apre ti pare di sentire l'odore sporco del denaro che ti sale alle narici) che ha pensato che – questo mestiere – potesse essere il suo mestiere: “Allora i benzinai sono ricchi”. Sì, Lucio fa il benzinaio. Lo dice la tuta grigio/rossa della Esso, gli scarponi ai piedi, la maglia che riporta lo stemma dell'azienda, lo dicono – in scena – le luci che, nel chiaroscuro, ogni tanto sembrano disegnargli sui palmi i calli della fatica, i segni di chi stringe per tutto il giorno il suo strumento di lavoro. “Sono diventato benzinaio: un po' per caso, un po' per colpa”; “sono entrato nel giro che avevo venticinque anni: ora ne ho trentotto”; “sono uno che poteva fare qualcos'altro e fa il benzinaio”.
Lucio ha perso “per distrazione” le due donne che ha amato e da cui è stato ricambiato; Lucio non guarda film porno e spera, un giorno, di avere un figlio. Lucio racconta di quando è stato a Barcellona ed ha chiesto l'autostop, alle cinque del mattino; racconta delle occupazioni a scuola e delle polpette che ha visto fare alla televisione; racconta di Mitu, il bengalese con cui lavora; racconta delle puttane – o, se preferite, delle “lucciole” – che vede brillare lungo il viale, la sera, quando torna a casa: dà uno sguardo e un altro, un altro, un altro ancora poi tira diritto. O, almeno, così sostiene.
Lucio giura che lui non c'entra, che la donna che hanno trovato nei pressi della pompa di benzina lui non la conosce, che non le ha tagliato lui la testa: cazzo, “ma come si fa a tagliare una testa?”. Lucio parla, parla di continuo, Lucio alterna ricostruzione memoriale a sproloquio colloquiale, passa dall'analisi del singolo momento al ricordo dei tempi andati, passa dalle confessioni personali al complottismo vittimistico, dall'innocentismo processuale alle tirate contro Bruno Vespa, la tv e gli italiani che ormai non si fidano più di nessuno e poi “la mafia russa, il terrorismo islamico, la siringa di un malato d'AIDS”. Lucio parla perché non ha alternative, inchiodato com'è a questa sedia che – nella prima parte di Nessuno può tenere Baby in un angolo – lo fa piccolo piccolo, essendo la sedia grande grande.
Valerio Malorni e Simone Amendola trascinano dunque Lucio dal retro del palco, lì dove stanno i personaggi potenziali del teatro, per esporlo al pubblico: lo piazzano di sbieco, lo costringono a guardare in alto, lo inchiodano al taglio di luce che viene dall'angolo anteriore offrendolo in questo modo al nostro sguardo, al nostro ascolto. Fuori scena, di tanto in tanto, una voce femminile che lo interroga, offrendo dettagli che invece lui dimentica: il numero della vittima nella rubrica telefonica; il biglietto minaccioso lasciatole sul vetro dell'auto; l'orario, la circostanza o quella frase che non combacia con quanto riscontrato. A voi che sembra, che ve ne pare, che idea vi siete fatti? Che giudizio avete?
Scena da grande inquisizione, verrebbe da scrivere, se Lucio non fosse solo Lucio, un benzinaio romano, uno che ha rinunciato quasi a vivere, contentandosi di sopravvivere; uno/chiunque o meglio: uno/nessuno, uno che poteva essere molte cose, centomila cose, e che è finito per fare il benzinaio e – forse, solo forse – anche l'assassino.

Nessuno può tenere Baby in un angolo si compone di tre parti che – in progressione – danno il primo interrogatorio, il colloquio in cella con l'avvocato, il contro-interrogatorio con relativo cedimento dell'indiziato (Lucio alla fine piange perché prende coscienza della propria colpevolezza, eliminata ogni rimozione; perché cede alle circostanze che lo assediano o perché è preso dall'affetto per chi è morto?) ma sarebbe un errore credere che si tratti di uno spettacolo sulla detenzione di un colpevole-o-innocente o addirittura “un giallo”, come pure furbescamente si annuncia nelle brochure da presentazione e da foyer.
C'è ben altro in quest'opera: c'è la natura fallace di ogni verità, presunta o accertata, che si fa forte di contraddizioni, casualità e mancanze, per cui i vuoti d'ogni storia sono comunque più dei pieni di cui veniamo a conoscenza; c'è la messa in evidenza della condizione subordinata di chi è accusato rispetto a chi lo accusa; c'è lo stato di minorazione indotta in chi potrebbe essere punito; c'è il peso assunto da ogni parola, che contiene ciò che afferma e il suo contrario o – per usare una formula burocratica – c'è la rilevanza controproducente di quel che dici e che, attento, “potrebbe essere usato contro di te”.
Ancora.
C'è l'ostentazione del criminale ancora prima che ci sia un processo, rimando scenico alla cattiva abitudine cronachistico-televisiva di fare da guardoni di chi è imputato: intervistato, sezionato visivamente e commentato dagli esperti di settore ogni sera, dalle ventuno a mezzanotte, su Rai Uno, Canale Cinque e Rete Quattro; c'è, in aggiunta, la messa in scena di un esercizio di potere; c'è la pratica, a un tempo sempre tragica e comunque superficiale, dell'accertamento di quello che è successo; c'è il bisogno (individuale e sociale) di trovare un responsabile per ottenere un motivo, una risposta, una certezza che ci salvi da ogni dubbio. Ecco, c'è anche il dubbio – soprattutto il dubbio – in Nessuno può tenere Baby in un angolo: non perché, banalmente, a fine spettacolo non sappiamo se Lucio abbia ucciso o no la donna di cui è stata trovata la testa nella borsa che pende, fin dall'inizio, dal soffitto; c'è il dubbio invece perché – anche quando è giunta una sentenza, che sia pena o assoluzione – ogni uomo rimane comunque un mistero e perché in ogni uomo convivono tenerezza e rabbia, gesti minimi e scatti atroci, al punto da farne ora un assassino potenziale, ora una vittima possibile: per motivi che s'accalcano, di giorno in giorno, per una vita intera, fino a diventare talmente tanti da non poter essere conosciuti: mai davvero, mai fino in fondo.


Terminato lo spettacolo il primo pensiero è stato per contrasto: la mente è infatti andata a Delitto e castigo. Perché? Perché Dostoevskij ci mette innanzi il fatto compiuto, narrandocelo nei minimi particolari: “La porta si socchiuse in un minuscolo spiraglio e, di nuovo, due occhi pungenti e diffidenti lo fissarono nell'oscurità. Raskòl'nikov si smarrì, e ci mancò poco commettesse un grave errore”.
“Salute a voi, Alëna Ivànovna”.
“Io vi ho portato una cosa...”.
“Ma è meglio se venite di qua, alla luce”.
Dostoevskij inscena un omicidio e poi lascia scorrere ciò che resta, facendoci divertire con la relazione tra ciò che è accaduto e il suo valore, al cospetto del dio-destino. L'inquisizione avviene al cospetto di un pubblico di lettori che sono dunque consapevoli di chi sia il colpevole, come abbia ucciso, quanta banalità vi sia alla base del suo gesto. Ma il proseguo del romanzo ci rivela, progressivamente, una verità ancora più spaventosa di quella costituita da un assassinio, una verità in grado di esporci sull'orlo di un abisso, sul ciglio di un burrone: noi scopriamo in fondo di non sapere nulla anche quando sappiamo tutto quello che vogliamo/dobbiamo/pretendiamo di sapere. Orari, situazione ambientale, arma usata e movente, strategia d'approccio, metodo d'applicazione del piano preordinato, imprevisti e loro soluzione, via di fuga utilizzata, eliminazione delle prove sussistenti non ci bastano per capire, comprendere, motivare la vita e la morte, il carnefice e la vittima e il rancore e l'odio, il pensiero e il gesto, la legge e la giustizia, la libertà e la pena, la casualità che governa l'assoluzione o la condanna.
In Nessuno può tenere Baby in un angolo abbiamo una situazione opposta: non sappiamo nulla e dunque ci giungono addosso, spinti verbalmente verso di noi, ampi frammenti di un monologo che s'arricchisce, col suo scorrere, di variazioni, appunti, circostanze nuove o eventuali e prove insicure, giustificazioni fragili, vere o finte lacrime, confessioni alternate a dimenticanze, bugie che potrebbero essere credibili, dettagli credibili che potrebbero essere bugie: ho bevuto, dormivo, ho dimenticato il cellulare, ho preso le chiavi, sono tornato indietro. Nel frattempo lo squallore s'accenna, perché è squallida l'umanità in alcuni suoi frangenti – anche non volendo – e, nel frattempo, s'accenna anche la leggerezza, l'umiltà, il senso di fallimento e la poeticità di un essere periferico, per certi versi egli stesso vittima (chi non lo è, sulla faccia della Terra?), e tutto ciò accade proprio perché squallore e leggerezza, miseria, senso di fallimento e poeticità è ciò di cui – in misura variabile – siamo fatti, è ciò cui sempre diamo vita: il gesto con cui avviamo una relazione, la battuta con la quale facciamo ridere qualcuno, il bisogno di tenerezza, il desiderio di compagnia, la necessità della presenza corporea dell'altro e l'insulto con cui marchiamo chi ci ostacola o ci dà fastidio, la minaccia che urliamo senza pensare, la strage che facciamo a parole, dieci volte al giorno, e la battuta con cui disprezziamo quel passante, la bestemmia che lanciamo al cielo, l'accumulo di tensione che scagliamo all'improvviso e che ci spaventa, nel momento in cui rimaniamo con noi stessi: gli ho davvero detto ciò che ho detto? Perché ho fatto ciò che ho fatto?
È riflettendo proprio su questa coabitazione che – passata la suggestione dostoevskijana – nei giorni successivi il pensiero va a ciò che davvero mi resta dello spettacolo e che, in qualche modo, mi porta a Pirandello.


In Sei personaggi in cerca d'autore il padre rimane inchiodato a una circostanza, a una circostanza rimangono inchiodate la madre e la figliastra. L'uomo entra in un bordello e lì sfiora l'incesto: inconsapevolmente, dice lui. L'opera si fonda sulla necessità di ricostruire questo solo momento, “il momento eterno” lo chiama il padre, questo istante strappato al resto dell'esistenza e che ormai tutta l'esistenza la macchia, la contraddistingue, la caratterizza. Che contano i giorni di prima, che valore hanno i giorni di dopo? Il bordello, la figlia, l'incesto sfiorato: non rimane che questo. “Il dramma è in noi” dicono i personaggi, il dramma è in me, dice Pirandello coi Sei personaggi: perché fu accusato d'incesto dalla moglie, finita al manicomio per i sospetti dolorosi, mentre sua figlia tentò più volte la fuga e, una notte, anche il suicidio: pistola alla tempia, il colpo però rimase nella canna. Che cosa conta l'amore – paterno, sincero, pulito – che ho avuto per mia figlia? Cosa contano l'affetto, le carezze e i baci, che ho dato a mia moglie? E cosa conta quello che sento nel petto, e quello che so essere davvero accaduto, rispetto a ciò che vi sembra sia stato, a ciò che mormorate, all'idea o all'immagine di me che vi siete fatti?
Per tutta la seconda parte della sua vita Pirandello fu straziato dalla differenza tra ciò che è e ciò che appare, tra quello che io sono per me e quello che io sono per te, per voi, per gli altri, per tutti. Fu tale il dolore provato – questo dolore che lo spinse, tra l'altro, a non accontentarsi della letteratura, scegliendo il teatro – che adesso mi viene da scrivere che non importa neanche più se voci, spifferi, dicerie contenessero qualcosa di reale, vero, effettivo sul rapporto tra Pirandello e la sua figliola. Quell'uomo ha infatti scontato la sua pena tremenda, asserragliato ora dai suoi fantasmi (che gli penetrano nella stanza della memoria e gli impongono di essere messi in scena) ora dalle chiacchiere della gente, dai titoli dei giornali, dai flash dei fotografi, dai mormorii da foyer, dagli insulti del pubblico, dalla permanenza eterna dei sospetti.
È pensando a lui che adesso penso a Lucio: può aver commesso l'omicidio o essere all'oscuro di quello che è avvenuto – quanto importa? È davvero questo ciò che conta? Ed è solo questo che ci basta, ciò di cui ci accontentiamo?
A me importa teatralmente invece – e in definitiva – che d'avanti ho avuto un uomo ed i suoi spettri, le sue colpe, le sue debolezze, le sue fragilità e i suoi ricordi, le sue rinunce, le sue sconfitte: il suo dramma. Il dramma è in me, potrebbe infatti dire Lucio, e invece dice “voglio parlarvi di qualcosa che possa raccontarvi chi sono veramente e non ciò che pensate possa essere”: se avesse letto Pirandello, saprebbe che sta esponendo la sua stessa disperazione, che nasce proprio dal conflitto tra ciò che io sono per me e ciò che sono io per te, per voi, per gli altri, per tutti. L'omicidio – e la sua presunta colpevolezza – non sono in fondo che un modo o un accidente, uno tra i molti possibili, in cui il dio-destino determina questo conflitto. E così penso, inoltre, che la voce che ci giunge dal fuori-scena possa essere non altro che la voce della coscienza e – perché no, eventualmente? – la voce della vittima: reale o ipotetica che sia, uccisa da chi vediamo o sacrificata da chissà quale altra mano.
Avanza un fantasma (avanza il passato, avanza la morte, avanza la vita che poteva essere e che non è stata) nella stanza della memoria di Lucio; gli impone di fare i conti, gli impone di prendere parola; pretende di essere messa in scena: da lui riceverà le lacrime, da noi otterrà l'applauso.


Infine. Funziona tutto e perfettamente? È troppo presto perché ciò accada: il lavoro è alla sua seconda replica.
Nessuno può tenere Baby in un angolo conferma l'abilità collaborativa del duo Amendola/Malorni, da cui deriva una scrittura degna d'attenzione – è drammaturgia che, proseguendo la propria ricerca, finirà in volume: che gli editori del nuovo teatro stiano pronti – e conferma l'abilità crescente, a mio parere, di un attore che è stato capace di provocare emozioni contrastanti, legandoci in maniera emotivamente instabile a una creatura complessa, tanto quant'è complesso ogni essere umano. Belli i pochi segni visivi che s'impongono nel buio: le luci fredde da stazione di benzina nella notte; il fumo che s'alza a fare coltre (metaforicamente: a togliere chiarezza); il nastro che circonda, stringe, serra l'accusato; il manichino dell'avvocato che avvalora l'ambivalenza tra vero e falso, tra menzogna e confessione. Mi rimane però anche la sensazione che, di tanto in tanto, il testo s'aggrovigli per accumulo o che ripeta internamente alcuni dettagli fin troppe volte (la vicenda per dettagli, sia chiaro, è necessaria: perché sono i dettagli a rendere credibile ogni narrazione, perché è nei dettagli che si cela la possibilità di condanna o assoluzione) e, soprattutto, vi sono due fratture − tra la prima e la seconda parte e tra la seconda e la terza (sorta d'intervalli durante l'ancora in scena) − che s'impongono come un taglio netto, come una cesura, come due folate di vento freddo in un'ora e mezzo di calore scenico che, per il resto, ti avvolge e che ti resta addosso.

 

 


Nessuno può tenere Baby in un angolo

scritto da Simone Amendola
collaborazione al testo Sandro Torella
regia Simone Amendola, Valerio Malorni
con Valerio Malorni
scenografia Faisal Dasser, Giulia Giorgi, Fosca Giulia Tempera
produzione Blue Desk
residenze produttive TAN/Teatri Associati di Napoli, Carrozzerie n.o.t.
con il sostegno di Attraversamenti multipli
foto di scena Claudia Pajewski
lingua italiano, romanesco
durata 1h 30'
Caserta, Teatro Civico 14 – Spazio X, 16 ottobre 2016
in scena 15 e 16 ottobre 2016

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