“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 19 October 2016 00:00

Quelle più modeste poesie? Bob Dylan e dintorni

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“Conosco un letterato che per sue condizioni particolari è costretto a far da critico musicale”, scriveva Italo Svevo in una pagina che Mario Lavagetto ha poi ripreso in apertura di un suo saggio sui libretti delle opere di Verdi, intitolato significativamente Quei più modesti romanzi.

Non a caso il letterato di Svevo, essendo scarso intenditore di musica e dovendo occuparsi prevalentemente di melodrammi, si attaccava all’analisi dei libretti, mentre con la musica se la cavava riferendo le reazioni del pubblico. “Aveva bastante intelligenza per comprendere che la sua non era una critica musicale”, dice ancora Svevo.
Finì per affezionarsi a libretti e librettisti, che almeno lo salvavano dal mutismo assoluto.
Un epilogo un po’  patetico per un’epochè di comodo: analisi dei versi – magari in senso banalmente contenutistico (leggasi: riassunto dell’intreccio) – e sociologia spicciola (il “si dice” del foyer) aiutavano il letterato a mettere fra parentesi l’ineffabile dell’esperienza estetica pura, in particolare l’esperienza di quella che è considerata la più pura fra le arti, proprio perché non contaminata dalla concretezza verbosa o iconica delle altre: la musica. Eppure il teatro musicale non è un esempio del bisogno di contaminazione dei linguaggi? Come se la purezza astratta della musica squisitamente strumentale avesse senso solo finché esiste anche la possibilità di sporcarsi.
Ma la poesia per musica finisce per scadere, in buona parte della saggistica che se ne occupa, al livello di macchia sulla candida camicia della musica, nonché sorella minore (e minorata) della poesia concepita per essere pensata (cioè letta in silenzio, con la mente), mentre il libretto si fa, appunto, “più modesto romanzo”; un libro in miniatura, come vuole la stessa parola che (ricorda Ulderico Rolandi nel saggio Il libretto per musica attraverso i tempi) è attestata solo dal 1839 e servì subito a distinguere i librettisti dai poeti veri. Dunque quando Baricco afferma che il Nobel a Bob Dylan è sbagliato si inscrive, in fondo, in questa linea di tradizione – quella del melodramma, a lui notoriamente caro – che da almeno un paio di secoli fa viaggiare in vagoni separati Giacomo Leopardi e Francesco Maria Piave, autore de La traviata.
Ma la tradizione, vista da qui, sembra traviata da più di un errore di prospettiva. Il primo è credere che la distinzione riesca davvero ad azzeccare, catalogandoli, la linea che separa i libri e i libretti, i grandi poeti dai piccoli, i Leopardi dai Piave. Senza contare il ‘700, quando Metastasio, come Frank Capra, aveva diritto al “nome sopra il titolo”, il panorama letterario dell’'800 è già abbastanza frastagliato da andare a sbatterci rovinosamente se ci si muove con bussole rudimentali. Qui basterà citare l’interrogativa retorica – rimasta poi piuttosto famosa nell’ambito degli studi sul teatro d’opera – di Folco Portinari, che nel suo Pari siamo! Io la lingua, egli ha il pugnale. Storia del melodramma ottocentesco attraverso i suoi libretti si domandava: “Ma siamo davvero certi che i librettisti routiniers fossero ‘letterariamente’, e ‘teatralmente’, meno significativi o meno degni dei tragedi ufficiali, da Pellico a Corsa, da Carlo Marenco a Felice Cavallotti?”.
Qualcosa del genere hanno in fondo ripetuto i fautori del Nobel a Dylan: siete sicuri che questo autore di canzonette sia davvero inferiore ai connazionali contemporanei, che da anni inseguono la realizzazione del Grande Romanzo Americano? La canzone – maestra dell’attimo, dotata della vita di un insetto, come noi rispetto al cosmo – è arte della decadenza, cioè della nostra epoca, dice Manlio Sgalambro in un pregevole “libretto” (cm 13x17, pagg. 63) dal titolo Teoria della canzone.
L’altro errore è credere che la scrittura letteraria sia nata per la lettura silenziosa (con le “labbra della mente”, per parafrasare una metafora famosa), prassi che invece è tutto sommato recente nella storia della lettura alle nostre latitudini e tutt’altro che esclusiva perfino ai giorni nostri. Non parlo solo del fatto, stracitato, che il Demodoco omerico faceva pianobar alla corte di Alcinoo, re dei Feaci, e le Chansons de geste venivano cantate ai Brancaleoni di turno che, drogati, si lanciavano nelle mischie sante contro gli infedeli; anche tanta parte della novecentesca poesia d’avanguardia sarebbe poco comprensibile se non la inquadrassimo negli happening teatrali delle letture pubbliche, con annesse scazzottate, di Marinetti e compagni. E non sarebbe male cominciare a chiedersi quanto stia cambiando oggi la scrittura poetica e romanzesca in un sistema letterario-spettacolare in cui nessuno ti compra se non compari e financo lo scrittore più schivo deve farsi guitto (sia pur nel senso nobile, alla Dario Fo, del termine) e andare in tournée per le Feltrinelli, magari con un sassofonista appresso che gli garantisca un po’ di musica ambiente. Ambiente certo ben diverso, per tornare a Leopardi, dal probabile silenzio fiorentino che produsse versi come: “Amaro e noia / la vita altro mai nulla; e fango è il mondo” (A se stesso). A leggerli ad alta voce oggi, in una Feltrinelli, col tintinnio degli espressi macchiati in fondo al bar, l’alternativa al patetismo sarebbe il gigionismo routinier, con un tocco, nella migliore delle ipotesi, di diabolico Iago verdiano, sulle cui labbra Arrigo Boito mise versi simili, ma in chiave da nichilista rosicone: “Son scellerato / perché son uomo; / e sento il fango originario in me”.
La difficile scommessa di Elena Ferrante, vinta paradossalmente anche sul piano degli incassi, è stata proprio quella di riportare la relazione fra libro e lettore a questa dimensione silenziosa, in cui anche le scarne informazioni biografiche si riferivano, più che a un autore empirico, a una certa idea di voce narrante non straripante e sempre contigua ai personaggi e agli ambienti narrati (ne abbiamo parlato qui). Poi è arrivato Il Sole24ore e, dietro la voce narrante, ha scoperto il contribuente (un po’ come Aldo Busi, che in quarta di copertina, oltre a nome, cognome e data di nascita, mette polemicamente la residenza fiscale).
Ed è certo colpa de Il Sole24ore se adesso ci salta in testa che, con il Nobel a Bob Dylan e l’apertura della fortezza letteraria “alta” al mondo della canzone – cioè di quella particolare poesia per musica che oggi occupa massicciamente i canali di diffusione planetari – sembrano aprirsi innumerevoli possibilità di ripensare l’acqua calda della circolazione poetica ai nostri tempi, che un po’ somiglia alla circolazione monetaria. Se le canzoni sono nichelini per il juke-box o banconote di poesia di piccolo taglio, con il Nobel a Dylan si rivela  lo stato dell’arte, e cioè che in fatto di esperienza estetica siamo al dopo Bretton Woods da molto tempo prima di Bretton Woods. Vale a dire che dietro quella banconota non c’è una corrispondente riserva in oro, lo Spirito depositato in chissà quale tempio dell’arte. È una banconota di carta o una monetina di latta, che con tutte le altre rappresenta solo se stessa, perde o acquista valore a seconda di quante altre assieme a lei rotolano e si srotolano nelle tasche della gente e tutte insieme fanno la ricchezza o la povertà delle nazioni.
Difatti, come in economia, ci si è subito divisi in due scuole di pensiero: quelli che Bob Dylan non è poeta, quindi la sua moneta non ha corso; e quelli che allora il premio lo si poteva dare a Leonard Cohen, Chico Buarque, Paolo Conte, Morandi, Tozzi, Fedez... Scissi tra i diktat delle accademie/banche centrali (Stoccolma come Francoforte) e il conio dal basso dei bitcoin, il rischio è sopravvalutare i premi letterari come consacrazioni immortali e atemporali (e poi passare ogni anno in rassegna gli ex illustri che il Nobel l’hanno vinto e oggi ce li siamo dimenticati) o darsi al baratto puro, allo scambio di figurine dei cantanti e poeti del cuore. Con il sospetto, fra i vari possibili, che sotto certi amori poetico-musicali ci siano anche questioni anagrafiche irrisolte fra generazioni che di volta in volta picconano e rifanno il proprio canone, in un ambito di consumo dove il bello (e il brutto) è proprio l’inesistenza di tradizioni consolidate e studi accademici regolari.
Non che non esistano, in assoluto, studi sulla canzone d’autore, ma... “c’è una teoria del rock all’altezza della situazione?”, si domanda sempre Sgalambro in quello stesso libretto. Se il cosiddetto canone letterario occidentale nasce come strumento scolastico, un sillabo di testi considerati degni di essere letti e tramandati, l’operazione analoga trasposta in ambito pop – dove non vige il vincolo burocratico della fabbrica di titoli di studio ma, in compenso, vige l’obbligo di far girare i quattrini (è decisamente un caso in cui carmina dant panem e companatico) – è andata in appalto a Mtv e canali congeneri, che periodicamente ci propinano le loro rivalutazioni nostalgiche, di solito a blocchi decennali (almeno dalla morte di Michael Jackson, per esempio, siamo in pieno revival degli Eghties, a onta di chi negli Ottanta aveva già la barba e ormai si sente irrimediabilmente vintage).
Andiamo verso una specie di immissione di liquidità poetica ad oltranza, stile Mario Draghi? Ogni volta che sentiamo di avere un debito nei confronti di una canzone che ci ha fatto innamorare (ancora Sgalambro: “Il canto servì un tempo a possedere le femmine”), acquistiamo i titoli sul debito emettendo un tributo al cantautore di turno. Quantitative easing, tradotto alla lettera, potrebbe dare “facilitazione quantitativa”. Una facilitazione che può sfociare in faciloneria estetica: tutto vale tutto. Ma solo leggendo e ascoltando tutto il possibile si può sperare di orientarsi nel caos presente.
Ora è chiaro che anche a Stoccolma sognano un’estetica non senza steccati, ma con steccati mobili, divisorie Ikea (neanche a dirlo!) per spazi sempre riconfigurabili. Per poi scoprire quello che già sappiamo: che solo a lungo termine, quando saremo tutti morti (J. M. Keynes docet), sapremo quanto sarà valsa davvero la nostra epoca.

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