“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 11 October 2016 00:00

Psicopatafisica

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Corpo di donna a farsi clown in una messinscena dal vago sentore patafisico. Vago sentore, perché l’evocazione di Ubu Roi appare come qualcosa a metà fra un significativo pretesto e un orpello ipnotico. Giduglia, ovvero la spirale patafisica, che vorticosamente gira e rigira, è un motivo che correda la scena in una dicromia bianca e nera; bianco e nero che si ripropongono in ogni dettaglio, indossato o recato in scena da Patrizia Aroldi, dal cappello alle scarpe; dalla valigia a fasce oblique, bianche e nere, da cui cava fuori una valigetta più piccola a fasce bianche e nere anch’essa; cerone sul viso, un vestito – bianco e nero – che culmina in uno sbuffo di gonna.

La spirale gira, cinque pannelli specchiati rifrangono e deformano, mentre una voceesterna al palcoscenico invita a fissare il centro. Quel che ha inizio è una seduta di ipnosi che si fa scena. Jarry è lontano, così com’è lontana quella sera parigina del dicembre del 1896 in cui Père Ubu aveva assestato una prima poderosa spallata al modo di vedere il teatro.
Qui di spallate non se ne assestano e Giduglia possiede di patafisico quel senso lontano di voler offrire alla realtà soluzioni immaginarie. Un naso rosso dichiara la clownerie manifesta, una voce fuori campo funge da guida all’ipnosi veicolata. Il resto sono evoluzioni di un corpo dalla gestualità indotta ed efficace.
Il palco diventa così un campo mentale, teatro di una comunicazione para-verbale, in cui la gestualità è preponderante; un quadro che sembra fare il verso ad un generico scandaglio di cui potrebbe farsi portatore una qualsiasi seduta psicanalitica, che parte dallo scavo dell’infanzia per arrivare a scartabellare paure presenti e ancestrali. La voce-guida si limita ad input convenzionali, mentre sono segni ed oggetti a connotare la sinergia tra spazio esterno e mondo interiore. Il bianco e il nero richiamano quella dualità junghiana che bipartisce l’animo umano, quel chiaroscuro in cui l’anima scissa riverbera il sé e il proprio contrario. Gli specchi e l’antinomia bianco/nero sembrano essere gli essenziali elementi in cui riflettere uno smembramento che avviene, all’apparenza, sotto forma di rito clownesco.
La clownerie diviene così strumento iperbolico, mezzo di rappresentazione estensiva ed espressiva di un percorso tutto interiore, che si dipana come un flusso di coscienza guidato, in cui s’inframmezzano liberamente citazioni filmiche e brandelli d’opera lirica; un percorso che attraversa le fasi e le età di una vita, inscenando dapprima una sorta di rebirthing e poi progressivamente affrescando per momenti topici le fasi anagrafiche, fino al timore della vecchiezza, fino all’approssimarsi della morte.
Scontando un certo qual semplicismo testuale, da prontuario psicanalitico, Giduglia ha la sua parte di pregio nella coniugazione corporea e gestuale del proprio scarno plot: Patrizia Aroldi, nel dar vita ad una clownessa in psicoterapia, estrae dal bagaglio attorale che reca seco in scena un campionario di oggetti funzionali ad una rappresentazione simbolica che riesce ad evocare uno spaccato psicologico con la malinconica leggerezza del clown. Certo, Alfred Jarry e Père Ubu continuano ad essere lontani, e tra gli oggetti cavati dalla valigia non v’è lo spazzolone a far da scettro, ma quel rimando al padre nobile che dapprincipio c’era parso orpello e pretesto, sembra infine far capolino al culmine dell’ultima giocoleria, orchestrata dietro a un tavolo rovesciato, allorquando la Aroldi rimane contorta, gambe penzoloni davanti alla platea come l’attore Firmin Gémier in quella lontana sera parigina del dicembre del 1896.
La clownessa esperisce il suo rito psicanalitico trasformando una seduta di analisi in un gioco movimentato, un gioco in una seduta di autocoscienza indotta. Pupara di se stessa, Patrizia Aroldi, corpo di donna fattosi clown, non patafisica ma creatura densa di senso.

 

 

 

 

Efestoval
Giduglia
di e con Patrizia Aroldi
in collaborazione con Danio Mandfredini
foto di scena Maura Festa
lingua italiano
durata 1h
Bacoli (NA), Comunità Dedalo, 22 settembre 2016
in scena 22 e 23 settembre 2016

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