“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 23 September 2016 00:00

Così il vecchio attore giunge agli orli della vita

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Eduardo/Campese quando cammina per le strade e gli capita di battere due o tre volte il piede in terra, perché gli si è attaccato qualcosa sotto la scarpa, si sorprende per il fatto che quei colpi battuti non producano lo stesso rumore di quando pesta il piede sulle tavole del palcoscenico; se tocca con la mano il muro di un palazzo, un cancello di ferro, una statua di marmo, una quercia secolare, ecco: una quercia, lo fa sempre con estrema delicatezza e con la sensazione di avvertire, sotto le dita, la superficie della carta o della tela dipinta. Questo perché – “vede Eccellenza” – Eduardo/Campese è nato tra le quinte, espulso dal ventre di una madre che si torceva sul trono dell'Amleto, e sulle tavole ha cominciato a muovere i primi passi, a balbettare le prime parole, a storpiare i nomi dei protagonisti che recitava suo padre. Le prime particine, il primo ruolo importante e – con questo ruolo – le prime vere incertezze, i primi dubbi, mentre l'avvenire diventava il tempo presente e il tempo presente è diventato presto esperienza, memoria, mestiere: vita che, sera dopo sera, è trascorsa recitando.

“Fare teatro sul serio significa sacrificare una vita. Sono cresciuti i figli e io non me ne sono accorto” impegnato com'ero “in palcoscenico a provare, in palcoscenico a recitare”: “è stata tutta una vita di sacrifici. E di gelo. Così si fa il teatro. Così ho fatto” dice Eduardo, tolta la maschera di Campese, a Taormina. L'abito blu, la grossa sciarpa a quadroni rossi, nella mano sinistra il cappello grigio, la schiena diritta e parallela all'asta del microfono, lo sguardo – coperto da lenti spesse, dalla montatura nera, che sembrano annebbiare occhi che quasi non vedono più – si lascia emozionare dalle circostanze. Gli s'incrina la voce, pur rimanendo ferma, netta, come fosse studiata nelle pause. "Mi batte il cuore e continuerà a battermi: anche quando si sarà fermato". 


“Ricordo” – racconta Giorgio Strehler – “questo racconto di Jouvet: un vecchio attore che ha conservato i suoi costumi di teatro, dei suoi personaggi celebri, e c'è l'Amleto nell'armadio, c'è Macbeth, c'è Lear, ci sono tanti, ci sono tutti i mostri del grande teatro del mondo. L'attore è vecchio, guarda i costumi e improvvisamente si accorge che lui sta morendo e che gli altri resteranno, che solo gli altri resteranno: non i costumi ma i personaggi, entità della poesia drammatica che è eterna e rimane”. “E allora” – continua Strehler – “l'attore capisce, alla fine capisce, solo alla fine capisce che lui è stato semplicemente uno strumento, insostituibile forse, ma uno strumento della poesia. Nient'altro”.
“Guardai” – scrive Jouvet – “i miei costumi sparsi, buttati qua e là per la stanza, ed ebbi la sensazione che quei personaggi, che io non avrei mai più animato, fossero morti. Passai una notte molto agitata: ebbi delle allucinazioni e, nel sogno, quei personaggi vennero a farmi visita. In pochi istanti invasero la mia camera: Sei un insensato, non siamo noi che siamo morti, sei tu che morirai. Tu non ci hai creato, hai solo indossato i nostri panni”.


Cos'altro è l'Enrico IV di Pirandello se non un vecchio attore che, incapace di affrontare la vecchiaia ed il mondo, persevera la sua recita dopo essersi costruito attorno un teatro, costringendo così gli uomini e le donne che lo frequentano a scegliersi a loro volta una parte? Per quale altra ragione le creature di Beckett non escono mai di scena se non per continuare ad aggrapparsi alla vita, consapevoli che – finite nel buio, ovvero tra le quinte – non potrebbero esistere più? Non è un'ultima recita il racconto di Sibilla, che fu attrice, ne La lunga notte di Tadini? Una recita verbale, memoriale e solitaria – detta stando a un passo dal crepuscolo – è questo romanzo che, proprio perché è solo un romanzo, manca di teatro ovvero “mancano i gesti, i toni della voce, manca quel bel venticello, quel fiato che ti porta via, in volo, dopo averla composta ogni parola. E non puoi ispirarti guardando la faccia di chi ti ascolta”.


“Non si dovrebbe diventar vecchi.
Mi stropiccio le mani l'una con l'altra.
Sono due ghiacci ed erano due bestie calde,
sollevavano il fuscello e l'incudine,
carezzavano, facevano male.
Io non so chi mi ha tolto quelle mani.
Annaspano ora, imbrogliano i fili,
i pupi cascano da tutte le parti”.
Inizia così il Lamento del vecchio puparo di Gesualdo Bufalino: dio o il destino adesso manovra il manovratore – “sono io il suo pupo a filo”. Il tempo è passato, la vita che doveva essere è stata, il domani tra un'ora sarà ieri: “avevo i denti d'un cane, trentadue pietre”; “scorgevo l'ago nel fieno”, “udivo crescere l'erba” e “ai fianchi portavo una fascia rossa”; “una donna una volta mi disse che ero bello...”. E ora? “Ora la voce, ch'era tromba, flauto e tamburo, suona unica per tutti i pupi, cristiani e mammalucchi, vassalli e re di corona. Il gemito dell'amante, il gemito del moribondo: un'uguale tosse li recita”. E poi “confondo le gesta, dimentico le casate, m'impennacchio di parole morte”. No, “non si dovrebbe diventar vecchi...”.
“La gente che viene è sempre di meno.
Ieri erano tre, stamani un solo bambino,
con un cartoccio di semi accanto.
S'è seduto sulla panca e aspetta,
ma forse ha solo male ai piedi,
fra un minuto se ne andrà”.
Vengono in mente il buio cieco di Totò, la solitudine di Macario – sentita fortissima, terminato l'ultimo scoscio di applausi e di risate –, la disperazione di Marcello Moretti, la cui identificazione con la maschera d'Arlecchino diventò una condanna: e quando sarò vecchio, quando non potrò più saltare, ruzzolare, quando non potrò più sciorinare numeri e imbrogli cosa farò? “Non c'era in questa domanda” – ed è ancora Strehler a raccontare – “soltanto la semplice paura dell'attore che invecchia e che deve lasciare il suo ruolo. C'era lo smarrimento del vero attore davanti a tutti i personaggi che non aveva e che non avrebbe mai fatto”.
Me ne vado senza aver fatto un Re Lear, un Amleto padre, senza aver fatto un Ibsen o uno Strindberg, me ne vado senza essere stato Hamm, Krapp, zio Vanja o l'Ebreo di Malta.

Eppure resistere, fino all'ultimo, o almeno fin quando è artisticamente e umanamente possibile: come non vi fosse altro destino, altra missione, altro mondo da vivere e modo di viverlo: le memorie adrianesche di Giorgio Albertazzi, lo sguardo amareggiato ma non arreso di Franco Scaldati, la malattia che Luca De Filippo ha cercato d'ingannare recitandole Non ti pago e l'avanzare scenico di Franca Valeri o le gote emaciate di Herlitzka, che gli incastrano le labbra rosse in un pallido ritratto di magrezza; Dario Fo, del cui ghigno sembra aver preso possesso il dolore; la tristezza avvinazzata di Cieslak che a Santarcangelo, solo e ubriaco, si addormenta e pare morto per come poggia la testa su un tavolino, riprendendo la posizione assunta ne Il Principe Costante o Eugenio Barba, che a tavola mi dice che l'Odin finirà con lui e che, “a differenza di quel che è accaduto con Grotowski, io non avrò seguaci”; Giulio Podda, “tziu Giuliu”, che a centotré anni recita in quel di Cagliari dimenticando le battute; Gianrico Tedeschi, i cui occhi si arrossano di stanchezza gonfiandosi, durante Dipartita finale di Branciaroli mentre secche, secchissime, gambe e braccia gli ballano negli abiti di scena. “Suono, perché non voglio morire” ed è il primo verso d'una poesia in cui Ripellino fa metafora dell'attore decrepito ne il Lamento d'un vecchio violino:
“Suono perché non voglio morire.
Lo so, se tacessi, non si fermerebbero
né i tacchi a spillo né le gonfie
balene infarcite dei tram,
né i tanti pennacchi a due gambe.
Ma alla finestra spalancata
suono musiche ardenti e severe
e non importa se nessuno si accorge di me,
del mio legno sciupato, del mio
gracidìo di ranocchia sfiatata.
Se tacessi, sarebbe lo stesso, signor Sherwood,
anche se quei pellicani là sotto
barcollano senza notarmi,
il mio sguardo è inchiodato alla vita,
come a un abisso di ghiaccio abbagliante,
e suono, benché rauco, per vivere ancora”.
Ma c'è un'altra poesia di Ripellino, più chiara e svelata, triste tanto da ricordarmi per associazione Dans un café di Degas, in cui l'assenza di ogni altro orizzonte che non sia la ribalta viene resa portandoci oltre i tendaggi della scenografia, lì dove le luci non arrivano e l'attore siede, attendendo di compiere l'ennesima replica:
“Io che un tempo ero incendio, furia, spasimo,
me ne sto aggricciato su una panca,
assorto e assente, aspettando il mio numero,
che eseguirò di malanimo.
Temo che fallisca il mio improvviso,
che il motore del cuore si spenga,
che la mia postura sbilenca
sia solo sorgente di riso.
Eppure aspetto di entrare in scena,
anche se so che non mi applaudiranno,
aspetto di gridare la mia pena,
il mio stolido e farsesco inganno”.


Il fatto – spiega Gianni Celati in Recita dell'attore Vecchiatto – è che “l'attor povero è un po' come i granchi: cioè va all'indietro e perde i suoi averi, giunto all'età dei suoi capelli bianchi”. “Ormai” – dice Attilio Vecchiatto con un sonetto declamato a una platea vuota – “ho il volto solcato dai sentieri, le righe fonde intorno agli occhi stanchi, la neve in cima al monte dei pensieri, le spalle curve come due calanchi. Vedo” – aggiunge – “una foto in cui mostro occhi fieri, la pelle liscia, i giovanili fianchi, spalle robuste ed i capelli neri, l'aria sicura di chi in nulla manchi” e così, forse per la prima volta, egli si trova a vedersi, povero uomo per il quale non funziona più cambiarsi ogni sera di nome, inventarsi una vita, mutare costume, far finta di credere d'aver ingannato e affascinato qualcuno, per una o due ore:
“Povero Vecchiatto… guarda dove siamo capitati, Rio Saliceto, tu hai mai sentito parlare di Rio Saliceto? Sperduti tra le campagne, guarda in che buco siamo finiti dopo quarant'anni, Carlotta, dopo quarantacinque anni di recite importanti nel mondo… Ci hanno scritturati ma poi non viene nessuno! Ah, questi maramaldi ignoranti, l'ultima recita del grande attore Vecchiatto...”.
Attilio Vecchiatto e sua moglie appaiono sul palco di un teatro misero, “un buco di provincia tra le campagne”, lì dove si sente “puzza di maiali” e prosciutti e – non avendo al suo cospetto nessuno – non gli resta che contemplarsi, riconoscendosi; lui che non ha fatto altro – per tutta la vita – che farsi contemplare perché gli altri in lui si riconoscessero: “Un tempo, quando sentivo parlare i vecchi non volevo ascoltarli, mi davano fastidio e adesso eccomi qua come loro, passato di moda, anche un po' sordo, col corpo in rovina… Adesso siamo noi che non vogliono ascoltare… l'autunno arriva, la tomba s'avvicina, eppure io sono ancora qua con la tentazione di brillare, con la triste vaghezza di eccellere, con la cupa abnegazione che mi disfa le meningi”.
Così l'attore avanza “nella vecchiaia come Lear”, avanza strisciando “nel cieco tunnel delle sue fissazioni, ascoltando soltanto chi gli dà ragione” fin quando – simile al Prospero de La tempesta – “si troverà a capo nudo”, la bacchetta dell'orgoglio spezzata, nei muscoli la stanchezza d'ogni magia: “Sono io Re Lear nella tempesta, non capisci? Sono io il vecchio Lear che s'era creduto qualcuno e invece era un niente, una muffa, un batterio, una nullità dell'universo.
O venti del cielo spirate!
Sfondatevi le guance a furia di soffiare!
Scendete temporali e voi cateratte di pioggia!
Sono il vecchio Lear che le figlie vorrebbero chiudere in un ospizio perché non disturbi il tenore di vita dei giovani. Qua bisogna impazzire al più presto, Carlotta… Sai, come Ofelia, come Amleto, come Lear, altrimenti non ci si riesce più a starci in questo porco mondo”, ovvero nel mondo reale, evidente ora che sono apparse le macchie sui dorsi delle mani e ai calcagni si vedono le vene violacee quasi sfondare la pelle, dorata da squame ramate o ingiallite.
“Mi sembra d'essere in una tomba, in questo teatro” dice Vecchiatto, forse rabbrividendo. Vi ricorda qualcuno?


“L'azione” – scrive Čechov – “si svolge sul palcoscenico di un teatro di provincia, di notte dopo lo spettacolo”. Perché sia ancora più chiaro l'ambiente sconfortante de Il canto del cigno poi Čechov fa ciò che non fa mai: ribadisce all'interno della didascalia, precisando, puntualizzando, perché il suo protagonista ci appaia ancora più tristemente affossato: “Il palcoscenico vuoto di un teatro di provincia di second'ordine”.
A destra si distendono “file di poltrone non dipinte, rozzamente inchiodate, che portano ai camerini” mentre “la parte sinistra e il fondo del palco sono ingombri di ciarpame”. C'è già stata la recita e non ne resta, “in mezzo alla scena”, che “uno sgabello rovesciato”. Domina il buio, fuori e dentro al teatro, ed è in questo buio che, tenendo in mano una candela, avanza trascinandosi l'attore Svetovidov, con addosso ancora il costume di Calcante:
“Questa è proprio bella! Questa fa proprio ridere. Mi sono addormentato nel camerino! Lo spettacolo è finito da un bel po', in teatro non c'è rimasto nessuno e io, beato e tranquillo, dormo come un ghiro. Ah, vecchia carretta, vecchia carretta! Rudere che non sei altro! Cervellone! Complimenti vivissimi”. Poi Svetovidov rialza lo sgabello, sentendo un po' di dolore alla schiena, ci si siede, appoggia per terra la candela ed aggiunge: “Non si sente niente, solo l'eco risponde...”.
L'attore si trova dunque nella condizione che più teme: al cospetto di se stesso. Prova ad allontanare lo spavento di questa visione – se medesimo – elencando i suoi meriti, ricordando i furori giovanili, le gonne delle ragazze, l'eroismo e la corruzione del suo mestiere, prova recitando ancora furiosamente – il Boris Godunov di Puškin, il Re Lear di Shakespeare; Poltava, ancora di Puškin, Amleto, ancora di Shakespeare – e prova dialogando, ad un punto, con Nikita Ivanyč, decrepito suggeritore che lo raggiunge e gli fa da spalla interpretando il buffone ma tutto è inutile, “no Nikituška, è stata cantata la nostra canzone… Sono un limone spremuto, uno straccio, un mucchio di ruggine e tu un vecchio ratto di teatro, un suggeritore… nelle opere serie vado bene solo per il seguito di Fortebraccio… e anche per questo ormai sono troppo vecchio...”.


“Io non morirò mai” amava dire Vëra Fedorovna Kommissaržeskaja eppure la morte la colse, irrispettosa, costringendola a serrare i suoi occhi blu “senza fondo”, come li descrive Ripellino. La donna che non scese a compromessi con il successo, la fama, la propria bellezza, viene immortalata – in palco, avanzando per recitare, fino all'ultimo – in questo modo da Aleksander Blok:
“Vëra Fedorovna fu esattamente la giovinezza di questi ultimi anni, folle, terribile ma magnifica. Noi, i simbolisti, abbiamo da molto tempo vissuto, pensato e sofferto in silenzio, in modo assolutamente solitario, come se stessimo aspettando. A un tratto, durante l'anno che precedette la rivoluzione, davanti a noi si aprirono delle grandi porte, il pesante sipario di velluto si alzò e, sul fondo della sala bianca del teatro, apparve, ancora vaga, in un'imprecisa semioscurità questa piccola silhouette con la passione dell'attesa e della speranza nei suoi occhi blu scuro, con un fremito primaverile nella voce, che incarnava tutto intero lo slancio, la tensione verso qualcosa, al di là del limite blu, blu dell'umana esistenza di questo mondo. Evidentemente, senza rendercene conto, ci eravamo tutti innamorati di Vëra Fedorovna Kommissaržeskaja ed eravamo innamorati non solo di lei ma di ciò che brillava dietro le sue spalle inquiete, di qualcosa verso cui ci chiamavano i suoi occhi senza sonno e la sua voce conturbante”.
“Voi” – scrisse Vëra a Čechov – “certamente avete sentito della mia impresa di aprire a Pietroburgo un teatro. Faccio questa stupidaggine, come la chiamano i miei amici. Ma io non posso, non voglio pensare, come chiamarla. Nella mia anima ore c'è un tale afflusso di energie e di sete di dare ad essa qualcosa da amare che io procedo, procedo da sola, procedo con fede, con quella fede che, se dovesse infrangersi, ucciderebbe in me tutto ciò per cui la vita ha un senso”.
L'adolescente che fu notata quando – durante le prove, nascondendosi a tutti – cantava meste romanze zigane narranti amori perduti e patrie lontane, e che presto divenne la Sonja di Zio Vanja, Nora in Casa di bambola e l'Hilde del Costruttore Solness, intravide nei simbolisti e nella Biomeccanica di Mejerchol'd “una consonanza ai suoi aneliti di poesia”, ai suoi desideri di leggerezza e di lontananza dalle fatiche del mondo: fu un fallimento e finì come finisce il gabbiano tra le mani di Konstantin; proprio lei che, nel disastro generale de la prima de Il gabbiano di Stanislavskij, fu una splendida Nina: “Ieri sera, tardi, sono andata a vedere in giardino se era ancora in piedi il nostro teatro. Si regge ancora”.


La solitudine di Benassi, costretto da una paralisi in una stanza d'ospedale, da lui arredata come un camerino teatrale: una rosa chiara sul tavolino, la foto della madre, la foto di un gatto, le foto di lui attore e poi due bauli scuri – simili a quelli in cui si stipano i costumi durante le tournée – posti accanto alla finestra. “Malinconico Narciso, è sempre stato solo” ma “se ne accorge ora, ora che il male l'ha colpito, di quanto è stato solo nella vita” scrive De Monticelli ed è ora che si accorge anche di quanto “la sregolatezza geniale che ha accompagnato i suoi atti” stia diventando “la coda d'una cometa che lentamente s'allontana”. “E se un giorno potessi tornare a recitare?”; “ecco, vede come muovo la gamba? Chi sa… chi sa...” mormora Benassi a De Monticelli: come chi non riesce ad arrendersi all'evidenza o, se preferite, all'esistenza.
Oppure la grandezza sconosciuta di Renzo Ricci, la cui ultima immagine fu un vecchissimo Firs che traversa la scena, “funebre e canuto, appoggiato al suo bastone”, poco prima di “morire ansimando, dimenticato nella casa vuota, al quarto atto de Il giardino dei ciliegi”. O, ancora, il dimenticato Nino Besozzi, di cui pochi anziani ricorderanno qualche passaggio televisivo, tra i gialli e i telefoni bianchi, mentre nessuno ha memoria di una meravigliosa interpretazione de Le sedie di Ionesco, cui seguirono le difficoltà economiche, la fame, la malattia, la fine in una corsia d'ospedale.
Figure reali si confondono in questa carrellata ai volti immaginari, alle parti da recitare in racconti e romanzi, agli attori dei libri, alle creature soltanto cartacee che qualche scrittore ha inventato: il Buffone che sproloquia l'Elogio del tiranno di Manganelli; Marta, la tisica danzatrice klimtiana, simile a “un'arlecchina fintamorta nella sua abbagliante casacca”, e gli altri abitanti della Rocca/teatro de La diceria dell'untore o Tola, che nel Rondò di Brandys crede di far parte della Resistenza al nazismo non sapendo che è all'interno di una messinscena allestita per amore; Sunay, che in Neve di Pamuk recita Tragedia a Kars ad un pubblico di militari e fondamentalisti religiosi emanando "una luce, un raggio che arrivava alle prime file: era impossibile guardarlo a lungo negli occhi"; Grazia, nel recente Una storia quasi solo d'amore di Paolo Di Paolo o il padre descritto da Schulz ne Le botteghe color cannella che, elaborando il Trattato dei manichini, permette a Kantor di far nascere La classe morta; il Charlie Chaplin al quale, la notte del Natale del 1971, si presenta la Morte ne L'ultimo ballo di Charlot di Fabio Stassi; quello stramaledetto rincoglionito di Alfonso Maria Manotazo detto Alfonsino che ne La Casa del Sollievo Mentale di Permunian pensa di rimettere sù “un teatrino ambulante” per recitare Ceronetti “negli ospizi, nelle corsie geriatriche degli ospedali, nei sanatori e in tutti quegli altri lazzaretti moderni in cui viene nascosta e sepolta la schifosissima lebbra della vecchiaia”; i clown vagabondi e falliti di Loria; la vecchia attrice in agonia che abita L'educazione teatrale di De Monticelli; Josef Kainz, che ne Il mondo di ieri di Zweig chiede all'autore "Me lo lascerà ancora recitare il buon Dio quel nostro dramma?" non comprendendo d'essere a un passo dalla tomba; i fratelli Zemganno di Goncourt, frombolieri di improvvisazioni circensi e di performance volanti che, dopo una vita trascorsa l'uno accanto all'altro, si salutano in punta di morte dandosi “piccoli morsi, come fa un cucciolo di cane”.


Così Minetti nel Minetti di Bernhard non vive bensì declama e – quando si muove – sbraccia e scalpita: basta notare come, nell'atrio dell'albergo, con l'ombrello infilza l'aria indicando gli angoli della stanza. “E questo cos'è?” chiede il portiere al facchino, “Uno strano signore” risponde il facchino al portiere. Torna dopo trentadue anni Minetti, stanza settantaquattro per cortesia, la stessa di allora e – tornando – s'accorge che “il cambiamento è progressivo” e che “è tutta una questione di tempo”. Comprende che è giunto alla fine: un vecchio ascensore inglese a sinistra, a destra il banco del portiere, con sopra un registro, sul fondo un vecchio divano sono la sua ultima scena, questa “signora vestita di rosso che beve e fuma Virginia” è invece il suo ultimo pubblico.
Minetti allora tromboneggia:
“Ho sempre con me questa maschera
in questa valigia signora mia
nessun viaggio senza questa valigia
e nella valigia c'è la maschera di Ensor.
Non commetterò il tradimento
di dare un'altra volta il Lear.
È il desiderio del direttore del teatro che io interpreti il Lear
per il bicentenario del Teatro di Flensburg.
Un uomo timido, signora mia,
timido ma tremendo,
avevo paura,
tutti gli artisti hanno paura,
paura paura,
arte e paura”
e così avanti per una pagina intera “puntando di nuovo l'ombrello” (corpo), “con maggior vigore” (azione), “gridando nella direzione da cui è venuto” e “declamando a gran voce” (intonazione): Lear, Lear, Lear ed Ensor, Shakespeare, ancora Ensor, ancora Shakespeare ed Io, Io, Io finché la signora non prende parola e, con due frasi, smaschera la regia, zittisce la drammaturgia, spegne le luci di scena, gli mostra che la platea è vuota o comunque distratta e che tutta quella recita intrepretata con fare serio e assai grave non è che una tardiva e risibile buffonata:
“Il laccio delle mutande signore,
il laccio delle sue mutande è slacciato”.
Minetti si china, scorge il laccio delle mutande slacciato, si china ancora di più, cerca di riallacciarselo ma non vi riesce. Così la vita, con le sue circostanze puerili, si prende gioco di quest'uomo incapace di esistere oltre il palcoscenico.


“Aveva perso la sua magia. L'impeto era venuto meno. In teatro non aveva mai fallito, tutto ciò che aveva fatto era stato valido e convincente, poi gli successe una cosa terribile: non era più capace di recitare. Andare in scena divenne un tormento. Invece di avere la certezza che sarebbe stato magnifico, sapeva che avrebbe fatto fiasco”. Axler non è più capace di affrontare il pubblico. “Tutto ciò che aveva funzionato per Falstaff, Peer Gynt e zio Vanja – ciò che aveva procurato a Simon Axler la reputazione di ultimo dei grandi attori del teatro classico americano –, nulla di tutto questo funzionava più per alcun ruolo”.
“Non ce la farò” si ripete.
“Non ne sarò capace” si dice.
“Mi hanno dato la parte sbagliata” accusa.
“Sto facendo il passo più lungo della gamba” si mormora.
“Sono un impostore” pronuncia guardandosi allo specchio.
“Non so nemmeno come recitare la prima battuta” confessa.
Terrorizzato ormai dall'idea di andare in scena Axler “sentiva avvicinarsi sempre di più il momento in cui gli avrebbero dato la battuta e sapeva che non ce l'avrebbe fatta. Aspettava la libertà di iniziare e il momento di diventare reale, aspettava di scordare chi era e diventare la persona che agiva e invece stava là, completamente svuotato, recitando nel modo in cui si recita quando non sai quello che fai”. Recitare, per lui, “era diventata la fatica quotidiana di uno che cerca di passarla liscia”.
Fa perciò fiasco con Prospero e “il suo Macbeth” – al Kennedy Center – è “ridicolo”. Ma sapete qual è la cosa peggiore? Egli vede “il proprio crollo con la stessa lucidità con cui si vedeva recitare”. Axler capisce che è finita, che non è credibile né come vecchio né come pazzo ora che “il suo talento era morto”.
Questo raccontano le prime due pagine de L'umiliazione di Philip Roth.


Ebbene.
Nel vecchio attore c'è − del teatro − la fragilità, la decandenza, l'imperfezione, la costante inattualità per cui quest'arte sembra sempre più inadatta al mondo che la circonda eppure resiste ad ogni sconvolgimento universale, ad ogni rivoluzione tecnologica, ad ogni moda che sembra definitiva e vincente; c'è il suo paradosso utilitaristico per cui il teatro, per farsi, necessita di sfruttare i suoi uomini e le sue donne fino a consumarli; c'è del teatro − nel destino del vecchio attore − l'impossibilità della memoria perfetta, un'ostinazione che sa d'essere votata all'oblio, il destino inevitabile della dimenticanza da intendere come necessario spazio fatto al nuovo, destino senza il quale il teatro non sarebbe spazio chimerico, esercitata memoria dei morti, mezzo per il richiamo degli spettri, perimetro ogni volta evocativo. Ma c'è, nel vecchio attore, anche qualcos'altro di più alto e profondo, di più terreno ed eterno, ed a spiegarlo è Nicola Chiaromonte: “Tra tutte le arti” – afferma infatti Chiaromonte – “l'arte dell'attore è quella cui è negato per natura di poter vincere il tempo, che è la promessa da cui è stimolata l'ambizione umana. L'attore è condannato all'effimero e questo fa di lui il personaggio inafferrabile e seducente che è, così umano nella sua evanescenza ma anche così vano, nel senso assoluto e pregnante della parola”.
Nell'attore consiste l'intensità assoluta del momento presente e la sensazione dello spreco di tempo, energia e possibilità concrete; convivono la vanagloria dell'Io e la consapevolezza di non essere stato che una comparsa, il corpo posto al centro del punto-luce e l'annullamento fisico di se stesso: l'attore si prende la scena – a me gli occhi – pur non essendo, in fondo, che l'ombra di un'ombra. L'attore è così la metafora di tutti noi, uomini e donne che abitiamo questo mondo e la sua vecchiaia, la sua decandenza, la sua fissazione perché vi sia un'ultima recita – ancora un'ultima recita, ti prego, buon dio – dicono del terrore che abbiamo per quando finiremo dietro le quinte, fosse pure dopo aver ricevuto generosamente un applauso. “Proprio in questo” – continua Chiaromonte – è “affratellato, l'attore, alle miriadi d'individui che appaiono e scompaiono sulla scena del mondo, senza aver potuto essere che quello che la società, la fortuna e l'occasione li hanno lasciati essere”.
Il corpo vacillante. Una frase che si spegne senza lasciarsi intendere compiutamente. Una dimenticanza. La fatica in un gesto. La scarnificazione dei muscoli. Un colpo di tosse. La stanchezza che quasi precede e così caratterizza un movimento. La perdita momentanea di sicurezza. Ed il ruolo come opera estrema. Per dirla con Georges Banu: "l'attore vecchio incarna la propria finitezza davanti all'uomo" e così, "dietro il personaggio che muore", si vede "un essere reale alle prese con il tempo" che, recitando, "rifiuta di capitolare": "La presenza dei vecchi attori sulla scena ci parla certamente della morte ma di una morte più dolce grazie al teatro: così incarnano per noi la variante rasserenata della sparizione senza panico né schivate illusorie". Così "il vecchio attore sul palcoscenico riscatta l'uomo che sta invecchiando nella platea".
Ed allora il suo lamento − me ne vado senza aver fatto Macbeth, Olga, Maša o Irina, Willy Loman, Giulietta − traduce il nostro più segreto tormento: muoio senza essere diventato padre o aver realizzato i miei sogni, muoio portandomi in petto questi rimpianti, muoio non essendo riuscita ad amare la persona che mi sono accorta troppo tardi che amavo.


Dunque così io finisco, dunque così io esco di scena.

 

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