“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 17 September 2016 00:00

Una dolcissima storia d'amore

Written by 

Non è umorismo svagato, al tempo stesso pudico, quello che coinvolge il lettore tenendolo in equilibrio emotivo (precario?) tra gioia e dolore. Si tratta piuttosto della stravagante goffaggine che tuttavia viene percepita come leggerezza di tocco, sottigliezza dello sguardo. In sostanza è rappresentata con stimolante ritmo narrativo la dignità di fronte all’ineluttabile, l’essenza stessa della storia narrata.
E non poteva che essere la fiamma creativa di David Foster Wallace a dare vita alla novella Solomon Silverfish (dal libro Questa è l'acqua), con una toccante introduzione di Don DeLillo quale versione del discorso − rivisto per l’occasione − da lui tenuto al Memorial  del 23 ottobre 2008 a New York.

C’è in quest’opera tutt’altro che minore la genialità di una straordinaria figura del mondo letterario contemporaneo capace di rendersi partecipe con umana passione nello scrivere di sogno e paura. Qui la magia della sua scrittura è allo zenith.
Ed è la suggestione la cifra narrativa a disegnare il percorso della storia che, a un primo approccio, quasi rischia di disorientare il lettore. Ma per chi conosce DFW è naturale trovare conferma sin dalle prime battute che si è in presenza di una sua regola aurea: per accedere ai piaceri della lettura occorre sempre un duro lavoro.
Chi si impone su ogni altro personaggio in scena è Solomon Silverfish, sessantenne sassone segreto, celta teorico, ciò che farà poi esplodere il finale della novella. È avvocato, alto più di un metro e ottanta, perde i capelli e se li fa crescere su un solo lato della testa sicché quando il vento è forte svolazzano da ogni parte finendo col penzolare dalla parte dove sono cresciuti oscurandogli la visione periferica laterale. Quando è inquieto o sta per arrabbiarsi si mette a schiaffeggiare l’aria a mani aperte. E a proposito di qualsivoglia soggetto che lo contrasti o gli crei problemi usa sbottare “lo riduco a un colabrodo”.
Lei, la moglie, è Sophie Shoenweiss, ebrea. È stata dimessa dall’ospedale. Passa a letto i giorni e le notti, l’ago di una flebo fissato al polso. Per qualche ora del giorno un’infermiera dell’ospedale viene ad assisterla. Pelle appesa alle ossa è il corpo di Sophie.
Sono i gesti, le parole, lo spirito scanzonato di Solomon Silverfish a fare emergere la chiave interpretativa di un fortissimo rapporto sentimentale provocando al lettore una stretta allo stomaco.
Ma è amore, solo amore, ciò che si introietta pagina dopo pagina. Basti immaginare quei momenti in cui Solomon Silverfish “prese la parrucca dal comodino e  la lanciò con scioltezza che viene dall’esercizio sulla boccia di vetro della flebo che tintinnò oscillando sulla piantana... baciò Sophie sullo sterno. Le diede un buffetto sulla pancia. – Cicciona! – sibilò”.
Nella sua veste di avvocato, Solomon Silverfish toglie in più occasioni dalle grane etiliche Ira, fratello pittore fallito di Sophie. I contatti con gli altri membri della famiglia Shoenweiss sono minimi e volatili. C’è un sospetto, se non una certezza, che aleggia in quella famiglia.
Data la complessa visione artistica per stile e contenuti di questo scrittore, non poteva mancare quel passaggio di ambiguità che farà riflettere il lettore. Tra le persone che a Solomon Silverfish piace aiutare c’è Toppo Carino, un giovane di colore “che di mestiere fa il pappa”. A sua volta, Troppo Carino ha fatto alcuni particolari favori a Solomon Silverfish conducendolo a danzare – e non solo – in un luogo a dir poco grottesco. Ecco allora che il pensiero di un lettore attento, e conoscitore della narrativa americana, va per una qualche analogia a Philip Roth e a una situazione descritta nel suo romanzo più acclamato, Il teatro di Sabbath, che gli valse nel 1995 è il Premio Pulitzer per la narrativa.
Sophie dà di stomaco, si assottiglia progressivamente. Il letto è la sua vita. E Solomon Silverfish non manca di farle sentire, a modo suo, la vicinanza sentimentale che in qualche maniera l’aiuta a sopportare la malattia. Salta così all’occhio un modo di raccontare il dolore che – viene da pensare – non è del tutto estraneo alla personali sofferenze psichiche subite da Wallace sin dalla giovinezza.
Ecco quindi il procedere per così dire sincopato del narrare wallaciano.
Succede che i fratelli di lei, Ira e Alan, quest’ultimo anche lui avvocato, nel cuore della notte tendono a Solomon Silverfish un tranello presso la stazione di polizia dove lui si presenta con ancora indosso la giacca del pigiama di flanella. Per arrivare puntuale al falso appuntamento Solomon Silverfish ha guidato ad alta velocità, vestito in quel modo approssimativo, una Thunderbird rossa.
Nella confusione creatasi alla stazione di polizia, Solomon Silverfish viene sottoposto a una sorta di interrogatorio sul suo rapporto con gli Shoenweiss. Dopodiché si presenta uno sviluppo del quadro narrativo: in piedi, a fianco del letto di Sophie, gli Shoenweiss, compresi gli ottantenni genitori, si scatenano senza freni con ipocrita cattiveria, urlando che quell’uomo, Solomon Silverfish, ha vissuto con lei nella menzogna infangando “un popolo e una cultura...”.
Poi il climax. Al termine di una sequela di rancorose accuse – tra cui: “Ti ha detto non sono ebreo ma diamola a bere alla fiduciosa famiglia? Facciamoci due risate?” – i parenti di Sophie arrivano a chiederle il divorzio o l’annullamento del matrimonio, preferibilmente l’annullamento, trattandosi per loro di un matrimonio osceno e blasfemo, contratto con un goy macchiato di una impostura senza limiti. Solo allora, dopo lo scioglimento del legame con Solomon Silverfish – dicono rabbiosamente – Sophie potrà tornare pura per tutti.
Da quella squallida messa in scena emerge la grandezza d’animo dell’ormai sfinita Sophie, che generosamente manifesta la sua gratitudine per la vicinanza affettiva che Solomon Silverfish non le ha mai fatto mancare. Scuote verso i suoi la testa umida: “Colpa vostra la stanchezza. No. Dare per scontato che vostra figlia non sappia leggere dentro un cuore e che vostro-cognato-che vi vuole bene-più-che-a-se-stesso non sia la persona che è... Gettate discredito su tutti gli Shohenweiss e su due... Silverfish“.
Di tutta questa intensa, umana storia quello che al termine resta nell’animo del lettore è che l’amore può prevalere. Sempre.

 

 

 

 

David Foster Wallace
Questa è l'acqua
a cura di Luca Briasco
traduzione Giovanna Granato
Torino, Einaudi, 2009
pp. 166

 

Philip Roth
Il teatro di Sabbath
traduzione Stefania Bertola
Torino, Einaudi, 2006
pp. 472

Leave a comment

il Pickwick

Sostieni


Facebook