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Friday, 16 September 2016 00:00

Tra cinema e arti visive

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Dell'importante rapporto tra cinema ed arti visive si parla spesso seppure in maniera un po' scontata se non superficiale. Su tale tematica è stato pubblicato un importante studio di Marco Senaldi, Rapporto confidenziale. Percorsi tra cinema ed arti visive (Mimesis, 2012) ed il rapporto confidenziale” a cui si riferisce il titolo del saggio è proprio quello che intercorre tra il cinema e le arti visive, rapporto che l'autore evita di cercare nei semplici rimandi reciproci tra le due pratiche proponendo, piuttosto, uno studio trasversale del cinema in rapporto alle arti visive, evidenziando come il cinema non sia pensabile al di fuori del sistema delle arti. La tesi sostenuta dallo studioso è che arti contemporanee e cinema costituiscano un sistema complesso di cui fanno parte tanto pratiche tradizionali come pittura e scultura, quanto video, installazioni e cinema. Tale sistema complesso necessita pertanto, secondo Senaldi, di essere studiato attraverso un adeguato approccio onnicomprensivo.

Diversi dispositivi hanno avuto a che fare con le immagini in movimento ben prima della comparsa del cinematografo, la cui nascita può essere fatta risalire alla proiezione parigina del 28 dicembre 1895; si pensi, ad esempio, al kinetoscopio del 1891 di Th. A. Edison e Dickson. Una volta inventato il cinematografo, inoltre, le modalità di fruizione delle immagini in movimento sono a lungo state varie e differenti rispetto a quella che diverrà la “modalità standard” del dispositivo fruitivo cinematografico (basti pensare che i primi cinema compaiono soltanto nei primi decenni del ‘900).
Riferendosi alle invenzioni precedenti la nascita del cinematografo, Jacques Aumont, nel suo L’œil interminable (1989), uscito in Italia soltanto un decennio più tardi (L’occhio interminabile, 1998), parla di una vera e propria “rivoluzione dello sguardo” in quanto ritiene che in quel periodo avvenga un mutamento del guardare determinato da una “mobilitazione del vedere” che non ha precedenti nella storia, un desiderio di apparenze visibili che, secondo lo studioso francese, si lega alla produzione di schizzi dal vero degli artisti dell’epoca a loro volta derivanti dal proliferare di tecnologie della visione. Alla diffusione di tali schizzi viene messo in relazione anche l’ampliamento delle dimensioni delle tele che si ha nel passaggio tra Sette ed Ottocento. A tal proposito nel saggio viene puntualizzata la differenza che tali enormi tele hanno rispetto alle notevoli dimensioni che già avevano le opere dei secoli precedenti: "Le tele barocche, come già gli affreschi rinascimentali, sono soprattutto dei rivestimenti bidimensionali, servono per istoriare un elemento cieco, che sia parete, soffitto, volta, falsa finestra, ecc., per muovere l’occhio dandogli l’illusione di vedere spazi ulteriori là dove l’architettura chiude strutturalmente l’edificio (trompe-l’oeil). Invece, la crescita dimensionale delle tele ottocentesche ha il significato piuttosto di una vera e propria 'finestra visiva', svincolata da funzioni architettoniche, quasi uno 'schermo' (pre)cinematografico" (p. 24).
Nel corso dell’Ottocento il visuale si impone in forme e modi differenti e quando la pittura “esplode” in quadri di notevoli dimensioni, "essa anela a perire" trasformandosi in qualcosa a cui l’occhio del pittore non può più fare fronte. È da molto tempo che "la pittura desidera negarsi, desidera negare l’occhio naturale, anela a un occhio meccanico che alla fine incontra nella fotografia [...] quell’invenzione che si assume il monopolio del visibile non tanto sottraendolo alla pittura, ma sollevando la pittura da questa tremenda responsabilità, da questo fardello storico" (pp. 26-27).
La fotografia ed il cinema, secondo l’autore, sono invenzioni che hanno a che fare "con la globalizzazione della visualità, con il desiderio culturale, spirituale, di oltrepassare le distanze, di sapersi e di conoscersi" (p. 28), non a caso nella medesima epoca viene inventato il telegrafo.
Occorre pertanto chiedersi quale sia stato l’impatto di questa serie di invenzioni nei confronti del mondo dell’arte e, secondo il saggio, la fotografia non può essere ridotta a tappa intermedia tra pittura e cinema in quanto la pittura, giunta al proprio limite, non sembra più in grado di soddisfare quella necessità di riflessione visuale che caratterizza l’epoca; "non si tratta tanto di un’evoluzione darwiniana che poi porta dalle immagini fotografiche statiche alle immagini fotografiche in movimento, quanto degli smottamenti di una dialettica che è naturalmente contraddittoria, dato che anche la fotografia stessa non cessa di perfezionarsi [...] da un certo punto di vista si potrebbe dire che questo continuo contraddirsi, questo continuo sforzo di eccedersi, di andare oltre se stessi, è una scontentezza intrinseca dell’illusione, un’inquietudine dell’immaginario che gli è insieme essenziale, quindi fondante, ma anche fatale, perché lo svela proprio come un’eterna illusione" (p. 30).
Alle prime proiezioni cinematografiche si palesa la contraddizione che pur sembrando così “vere”, le immagini in movimento si manifestano anche così “astratte” nella loro mancanza di colori; il bianco e nero tende ad evidenziare quanto il cinema non sia “la vita” mentre il dipinto impressionista, invece, si propone come riscattato dalla forza del colore mancante al cinematografo. "Questa impressione del “grigio su grigio” rende [...] la percezione del mondo così “astratta” che in effetti si può dire che il primo cinema è una specie di pittura completamente filosofica – e inversamente si può sostenere che l’Impressionismo è un cinema fermato, senza movimento ma anche ridotto a pura àisthesis, a pura sensibilità cromatica e luminosa – il che può essere messo in relazione con la tesi provocatoria di Aumont che definisce Mèliés non il primo dei registi artisti, ma 'l’ultimo degli impressionisti'" (p. 31).
Senaldi ricorda come "la fantasmagoria, il panorama, la fotografia, ma anche il kinetoscopio [...] non hanno mai cessato di esistere [...] basti pensare al ritorno della fruizione individuale, tipica del kinetoscopio, dei film su pc e videofonino" (pp. 31-32), così come sembrano perdurare in ambito artistico "sia il dispositivo dell’installazione, che è tipico della fantasmagoria e del panorama, che quello del kinetoscopio, inteso come spettacolo per il singolo individuo" (p. 32), in effetti questi si presentano come modelli alternativi alle forme egemoniche dei modi di rappresentazione del momento.
Diversi studiosi individuano la sopravvivenza del cinema delle attrazioni nelle avanguardie artistiche, si pensi, ad esempio, a quanto le opere cinematografiche di Warhol abbiano in comune con i primi esperimenti cinematografici. Le stesse installazioni, o video-installazioni, realizzate da autori come Nauman, Viola e Douglas Gordon, testimoniano la sopravvivenza del cinema delle attrazioni. L’autore parla a tal proposito di una sorta di ritorno del rimosso, di modalità di rappresentazione e di fruizione “altre” rispetto alle modalità istituzionalizzate: "Una possibilità inespressa, che ora (nelle condizioni storicamente e tecnicamente adeguate) sta cominciando a riemergere socialmente e culturalmente nelle forme di quella che viene definita condizione 'post-cinematografica'" (p. 34). Nelle avanguardie storiche di inizio Novecento è presente tanto l’idea di superare le forme artistiche del passato quanto la volontà di raggiungere una loro sintesi superiore. Il Futurismo italiano, ossessionato dalla resa del movimento, è stato forse il primo movimento d’avanguardia, ad includere anche il cinema nel suo programma di rinnovamento artistico. A proposito del rapporto tra Astrattismo e cinema, l’autore invita a vedere nell’Astrattismo "una reazione non tanto alla verosimiglianza statica della fotografia, quanto alla verosimiglianza dinamica del cinema" (p. 66), da qui la produzione di una cinematografia astratta come quella realizzata da Viking Eggeling, Hans Richter, Walter Ruttman ed Oskar Fischinger. Anche nel cubismo vengono realizzate opere cinematografiche, come Ballet mécanique (1924) di Ferdinand Léger e Dudley Murphy.
In ambito francese, a differenza di ciò che avviene nel cinema d’avanguardia tedesco, vi è scarso interesse per le strutture linguistiche, estetiche e formali del cinema; ciò che interessa maggiormente è, come avviene per le altre arti, il suo sovvertimento, tanto che si può dire, suggerisce l’autore, che "il cinema dadaista risente poco del fatto di essere cinema e molto del fatto di essere dadaista, cioè essenzialmente un tentativo di sovversione dei linguaggi e delle forme che avevano caratterizzato il cinema fino a quel momento" (p. 87). Tra le produzioni dadaiste occorre ricordare Entr’acte (1924), di Francis Picabia e René Clair, Le Retour à la Raison (1923) di Man Ray ed Anémic Cinéma (1925) di Marcel Duchamp. In ambito surrealista si possono citare almeno La coquille et le clergyman di Germaine Dulac, i due celebri film Le Chien andalou e L’âge d’or di Salvador Dalì e Luis Buñuel ed alcune opere di Man Ray come L’étoile de mer (1928) e Les Mystères du Château de Dé (1929). "Il cinema surrealista [...] anche se condivide chiaramente con la pittura la tipica atmosfera ambigua, sognante, onirica e irrazionale, può essere veramente considerato una produzione a sé; si tratta sempre di film che non hanno una vera e propria trama, uno sviluppo narrativo, ma che piuttosto lavorano sulla suggestione visiva" (p. 110).
Nell’espressionismo tedesco occorre citare film come Das Cabinet des Dr. Caligari (Il gabinetto del Dottor Caligari, 1920) di Robert Wiene e Nosferatu (1922) di Friedrich Wilhelm Murnau. Negli anni ’30 e ’40, negli Stati Uniti, l’espressionismo europeo, approdato insieme ai tanti artisti e registi che si sono trasferiti in America, influenza numerose produzioni. Maya Deren (Eleanora Derenkovskaja) rappresenta uno dei personaggi chiave nel mettere in relazione lo spirito delle avanguardie europee, soprattutto surrealiste, e le ricerche del cinema sperimentale americano. Negli Stati Uniti le sperimentazioni di autori come Oskar Fischinger e Len Lye riguardano anche il cinema d’animazione, sia astratto che figurativo, con proposte che, in alternativa alla produzione hollywoodiana di matrice disneyana, traggono ispirazione dalla pittura astratta o surrealista.
Nell’ambito della Pop Art americana il cinema viene inteso come una fonte di cultura popolare da cui attingere a piene mani. L’autore sottolinea come la Pop Art statunitense introduca nelle sue opere il tema della celebrità, della fama spettacolare, dunque, il contatto col mondo cinematografico, creatore di celebrità per eccellenza, diviene quasi obbligato. Così Senaldi sintetizza la produzione cinematografica dell’artista più importante della Pop Art: "I primi film di Warhol sviluppano una ricerca relativa al fenomeno che porta il soggetto ad essere oggetto, o viceversa, e sulla mediazione cinematografica che trasforma le cose e le persone in altro da Sé, in una dialettica costantemente contraddittoria. La seconda fase sembra contraddistinguersi per l’indagine sulla costruzione e decostruzione di identità, pratica per altro diffusissima alla Factory, che era, appunto, una fabbrica di star, o di emulazioni scadenti delle celebrità 'mainstream' hollywoodiane. Il terzo periodo è poi quello che segue immediatamente all’attentato subito da Warhol nel 1968, che lo vede ritirarsi dietro le quinte di produzioni da lui stesso volute, progettate, pensate, anche se messe in atto dal fidato Paul Morrissey" (pp. 167-168).
In contemporanea alla Pop Art, negli USA si sviluppa anche una cinematografia underground che annovera tra i suoi rappresentanti personaggi come Stan Brakhage, che interviene col colore direttamente sulla pellicola e Kenneth Anger, che realizza cortometraggi privi di montaggio. Nel saggio viene ricordato anche l’inglese Anthony Balch che compone un’opera (Towers Open Fire, 1963) dedicata a William Burroughs, realizzata ricorrendo, come lo scrittore, al “cut up”.
Il saggio sottolinea come mentre buona parte della cinematografia sperimentale americana degli anni ’60, pur riprendendo elementi dell’estetica Pop, tenda a restare un cinema di nicchia, underground, mentre Warhol, invece, ricorre ad un cinema sperimentale senza volerlo per forza di cose alternativo, di rottura.
In 2001: a Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio, 1968) di Stanley Kubrick non solo il monolito nero si ispira all’arte minimal ma, più in generale, il film richiama per le scelte cromatiche, l’astrazione, il dinamismo, la visione underground e psichedelica.
Nell’indagare il rapporto che si è stabilito tra l’arte contemporanea (in particolare l’Arte concettuale) ed il cinema, il saggio ricorda come in ambito artistico sia marcata la tendenza all’autoriflessione e, per certi versi, ciò si riscontra anche in diversi film, come Le Mépris (Il disprezzo, 1963) di Jean-Luc Godard ed 8 e ½ (1963) di Federico Fellini, esempi di opere in cui non manca il ricorso al metalinguaggio cinematografico.
Una parte del cinema degli anni ‘70 condivide con la poetica pittorica dell’Iperrealismo il medesimo sguardo fotografico disincantato nei confronti della società ed, a proposito del cinema degli anni ’70, il saggio ricorda Midnight Cowboy (Un uomo da marciapiede) di John Schleisinger che, realizzato nel 1969, può essere considerato la cerniera tra i due decenni. In tale film è presente un omaggio alla Factory di Warhol. Il ricorso ad alcuni elementi dell’estetica warholiana e morrisseyana rende possibile la realizzazione di un film che racconta "le vicissitudini di un 'marchettaro' in una New York decadente e sporca, molto lontana dai clichè del consumismo pop" (p. 191). Nel 1971 Warhol e Morrisey rispondono al film di Schlesinger con il lungometraggio Heat, opera che riprende Midnight Cowboy secondo una logica di "riappropriazione dei temi tipicamente warholiani del dropout (impersonato da un perfetto Joe Dallesandro). Le differenze però, risaltano ancor più vistosamente: Un uomo da marciapiede resta, nonostante tutto, fedele a una narrazione rassicurante, spettacolare e rispondente ai canoni dell’estetica cinematografica hollywoodiana alla cui distruzione invece Warhol aveva fervidamente contribuito. La ricostruzione della vita e delle scelte del cowboy sradicato a New York, è di stampo freudiano, e nel film c’è una sequenza onirica (una violenza omosessuale subita nell’infanzia) che ne giustifica i comportamenti. Tutto questo è in aperta opposizione con la natura antinarrativa, frammentaria, irrisolta, di Heat; l’opera di Warhol non mette in campo traumi infantili, ma si basa sull’insistenza eccessiva del 'reale', in cui l’unica verità è la contraddittorietà e l’inconsistenza intrinseca del soggetto. In questo senso Warhol non è più freudiano, ma 'lacaniano': la chiusa del film (in cui la Miles, abbandonata a se stessa, cerca di uccidere Dallesandro, ma la pistola si inceppa e lei la getta nella piscina) è una rappresentazione perfetta dell’'atto mancato'" (p. 192).
Il medesimo senso traumatico di vuoto è ravvisabile, secondo Senaldi, anche in Taxi Driver (1976), di Martin Scorsese, film che sarà fonte di ispirazione per l’artista Douglas Gordon nelle sue video-installazioni (Through a Looking Glass, 1999).
Nel volume vengono individuati diversi punti di contatto anche tra cinema e pratiche artistiche centrate sulla performance a partire dal contraddittorio uso degli audiovisivi al fine di riprendere avvenimenti che avrebbero in realtà senso esclusivamente nel rapporto diretto che instaurano con lo spettatore-coprotagonista-attivo. Il ricorso alla registrazione audiovisiva delle performance esplicita dunque la contraddittorietà di tale rapporto.
In epoca più recente l’attenzione nei confronti dell’arte contemporanea è sembrata crescere a dismisura, tanto da indurre Senaldi ad affermare che "se prima era il cinema che tentava di appropriarsi dell’arte [...] oggi invece è l’arte contemporanea che utilizza l’archivio dei materiali cinematografici" (p. 223). Philippe-Alain Michaud invita a ridefinire il cinema sganciandolo dalle condizioni di esperienza novecentesche; il cinema andrebbe inserito all’interno di una più generale storia delle rappresentazioni ed all’interno di tale sistema gli intrecci tra arte e cinema si fanno sempre più inestricabili. "A un secolo di distanza dalle prime avanguardie artistiche del Novecento, l’arte contemporanea sta iniziando a far parte del bagaglio visuale della società contemporanea (e della sua economia 'culturale'), e sempre di più il cinema trae ispirazione da spunti visivi chiaramente appartenenti a questo alveo" (p. 7). Questa è ormai storia dei nostri giorni.

 

 

 

Marco Senaldi
Rapporto confidenziale. Percorsi tra cinema ed arti visive
Mimesis, Milano – Udine, 2012
pp. 262

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