“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 31 May 2016 00:00

La dipartita di una città: Civita di Bagnoregio

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All’arrivo, Bagnoregio si presenta come una comune cittadina. Potrebbe trovarsi ovunque, stretta tra rotatorie e le insidiose fughe della pavimentazione cittadina. Piccoli gruppetti di persone camminano qua e là seguendo una sorta di flusso; di solito persone con un aspetto del genere – con zaini, scarpe da trekking, macchine fotografiche e l’aria smarrita – non possono che essere turisti. Per questo mi chiedo come mai si dirigano nella direzione esattamente opposta alla nostra, dalla quale non viene quasi nessuno; mi viene il dubbio di essermi sbagliata, di non aver individuato l’ubicazione della famosa città che muore perché troppo impegnata nella guida.

Il lieve digradare della strada e l’apparire dei primi cartelli turistici mi fanno ricredere. Sembrano incanalarsi tutti lungo uno stretto passaggio: li seguo lungo questo budello cieco, quasi insignificante, che conduce ad una terrazza ombrosa cinta da un muricciolo. Quest’ultima permette finalmente a Civita di Bagnoregio di fare la sua comparsa, stagliandosi come un bastione remoto tra i calanchi color sabbia.
L’impatto visivo è senza dubbio forte. Come è stato possibile costruire un borgo arroccato a tal punto da sembrare esso stesso la roccia su cui poggia? Lo spazio occupato da quell’agglomerato monocromatico di casupole sembra occupare l’intera superficie dello sperone roccioso, tanto da dare l’idea che le prossime a crollare saranno proprio loro, le case, ormai sull’orlo del baratro.
Gli Etruschi prima, e i Romani poi, avevano mantenuto integro quello che adesso appare quasi come un mastodontico formicaio sforacchiato, adoperandosi nella costruzione di argini e canali per il corretto deflusso delle acque.
Delle cinque porte di accesso al complesso non ne rimane che una, a cui si accede tramite un ponte vertiginoso costruito solo in tempi recenti. Si tratta della Porta della Cava, una passerella lignea sospesa sulla Valle dei Calanchi, l’unico rostro che àncora Civita al resto del mondo.
L’ascesa verso la porta vera e propria non è semplice: le furiose raffiche di questo giorno ventoso mi fanno respirare la sensazione di vuoto ad ogni passo. Attraverso la grande arcata con il cuore in gola: ad accogliermi c’è un ombroso condotto acciottolato che, salendo ancora, conduce ad una piazza circondata da un dedalo di stradine e casette tutte pigiate le une sulle altre. Sembra una piccola oasi felice, eppure mi chiedo come potessero vivere felicemente gli abitanti di questo posto: dovevano conoscersi tutti, essere un’unica grande famiglia.
Ora Civita di Bagnoregio conta ben sei abitanti: così ci istruisce una simpatica coppia farcendo le nostre focacce. Il pecorino, posto come accompagnamento al più comune prosciutto semidolce, è locale: morso dopo morso appare evidente che il vero re di questo spuntino pomeridiano è lui. Si scioglie letteralmente in bocca, nonostante sia piuttosto stagionato. Mentre la focaccia trasuda ungendo la carta tra le mie mani, passeggio in quello che appare come un comune borgo medievale, in cui fiori e piantine odorose punteggiano balconi e usci in pietra. Minuscole terrazze, spesso adibite a giardini curatissimi, si incuneano all’interno di un tessuto urbanistico proporzionato agli spazi ridotti, sebbene regolare.
La cura che avvolge questa città morente è la stessa di chi, ogni sabato, porta i fiori ai propri cari defunti: si scelgono i fiori migliori, si sistemano, si versa l’acqua nei vasi. E ancora, accorcia qui, sposta più in là, e finalmente il mazzo di fiori è pronto per essere esposto: è l’unico modo, per i vivi, di prendersi cura di chi non c’è più. In questa città morente, ogni orpello e ogni premura è calcolata per accompagnare Civita verso la sua fine, per vederla al meglio finché sarà possibile, prima che si trasformi in un altro obelisco di pietra come i calanchi che la circondano.
La luce lattiginosa del tardo pomeriggio ci avvolge, stagliati su questa roccaforte rocciosa dai giorni contati. Una pioggerella tenue come lo spruzzo di un nebulizzatore ci accompagna lungo il percorso a ritroso; il vento sembra essersi calmato e Civita, eterna nei miei ricordi, risplende come una città appena scampata all’assedio.

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