“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 12 March 2013 19:39

Roma, senza papa

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Il torpore, questo era per James il tratto distintivo di Roma.

Un torpore che può condurre soltanto a una «rilassata accettazione» del presente,

di ciò che c’è e proviene dai sensi e dunque dalla malinconia.

Tommaso Pincio, Pulp Roma, 2012

 

 

 

 

Roma ha strade accaldate, vuote, impigrite. D’intorno si notano vetri sporchi, cadaveri di mosche e zanzare, pinnacoli affumicati dallo smog. Gli artigiani cantano e picchiano, i ragazzini corrono e urlano, le matrone gesticolano e strillano mentre – nell’aria – la polvere zittisce, lentamente, il naturale stridìo delle cicale. Fa caldo, ma c’è un po’ di grigio, a Roma. Il tempo adombra tempesta, tonde gocce dal cielo, pozzanghere che – dei buchi d’asfalto – faranno grossi pozzi di un metro.

Nel cortile di un oratorio piedi femminili in ciabatte, talloni di pelle giallastra e vene varicose ai polpacci; bambini che ronzano calciando un cappello da prete appallottolato; ogni tanto una madre si alza, raggiunge un piccolo calciatore sudato, gli asciuga il naso, gli strattona il braccio, gli rialza le mutande, poi lo rimanda nel mezzo del campo.
Zaffate ovunque s’arricciano al naso: vino o aceto, muffa, soffritto. In un angolo due belle figliole attendono una comitiva di passanti, la bloccano, gli si strusciano addosso facendo sentire – alla carne – la carne, nel tentativo di trascinare i turisti, prima pallidi ora paonazzi, in qualche spoglia cameretta d’albergo: “de cché se campa” se non si campa di “giovane mignottismo” da vicolo?
Una luce secca e spossante – quando si libera dalle nubi, sempre più incombenti – intontisce gli angoli, le vie, le piazze; ammala le pareti dei palazzi, svuota i portoni dei musei, sporca la patina di ogni scorcio visibile. Una città in sofferenza, Roma.
“Roma ha finito di essere caput mundi. È una capitaletta di terz’ordine”. “In cinque anni abbiamo perso il trenta per cento delle presenze degli stranieri. Il quaranta per cento per quanto riguarda gli italiani”. “Che vvòle?” si sente. “E che ce resta? Er Presidente de la repubblica. Ce serve assai!” si sente ancora.
Vedova, città vedova è Roma, da quando il papa ha deciso di andare, lasciare, di ritirarsi altrove e nascosto. Certo, ancora luogo di vita cattolica, ma “incrocio di vie e di correnti” e non più “centro di irradiamento”: ci si passa, per Roma, “ma diretti chissà dove, ciascuno per una ragione propria che qui non ha più la sua origine, o il suo termine”.
“Roma senza papa è una rovina”. Le mura cittadine sembrano sgretolarsi alla vista, più vecchie di un giorno eppure in decadenza affrettata: come se un minuto fosse un secolo, un’ora un millennio. Le stanze dell’arte – ricolme di aria che viene da ventilatori rachitici – sono un campionario di bellezze sfiorite. I ristoranti peggiorano il loro servizio; i giovani (nulla facenti) non stazionano più davanti alle chiese, vendendo alle turiste le pezze con cui appuntarsi le gonne. I fiorai hanno ridotto i loro colori, i mercati hanno taciuto la voce, sparita dai chioschi è la mercanzia colorata di cui – questi – grondavano: colombine di ferro verniciato, cuori sacri con la pompetta idraulica interna, piccole statue elettroniche; stinchi e volti di santi, ampolle di liquidi, sindoni e sudari, fiori secchi, chiodi e spine, reliquiari di ogni forma o colore, legni, papiri, ex voto, polene di velieri, stampelle pontificie, magliette con l’effige dell’uomo che ha fatto scelta di fuga, di abbandono, di segregazione privata, silenziosa e improvvisa.
Roma, senza papa, è Roma senza papa di Guido Morselli (opera scritta nel 1966) ovvero è una città che ha perduto il suo vero centro, divenendo soltanto un insieme confuso di strade, di ponti e di stanze, di edifici laici e cattolici, di chiese e di biblioteche, di aule e saloni, di taverne, di alberghi, di banchine, parcheggi, di letti d’ospedale, di sacrestie, di vinerie, di botteghe, che fremono in attesa di un affaccio, di un “Habemus”, di un ritorno.
Ora è a Zagarolo, il papa. A Zagarolo, “in fuga ai romani”: abita una residenza composta di otto o nove edifici moderni, di modeste proporzioni, di due o tre piani l’uno per un totale di una cinquantina di locali. Li chiamano “le palazzine”.
“Lisce, intonacate di bianco o di rosa tenero, le persiane verdi”, cinte da un prato in cui crescono fiori di cicoria e trifoglio, le palazzine sono il riserbo, il distacco, il silenzio che il pontefice ha scelto per sé. Qui vive, qui dorme: a trenta chilometri dall’Urbe, lontano una distanza incolmabile dal resto del mondo.
Il pontefice qui legge, studia, scrive, compone; qui beve (moderatamente, due bicchieri di rosso locale al giorno); qui mangia (pochissima carne, i dolci provenienti direttamente da Napoli); qui fuma (in dose appena normale, sigarette Peter Stuyvesant); qui veste, altro dagli abiti chiari imposti dal ruolo o dai colori nocciola, nero, rosso e violaceo dell’ascesa ecclesiastica. Qui ha limitato fino all’assenza i propri impegni istituzionali, cerimoniali, dottrinali. Qui – soprattutto – ha trovato la separazione, il ristoro e la pace dalle troppe vicende che lo affaticavano, affaticando il grosso corpo della Chiesa cristiana.
Ponendo al riparo la propria tempra monacale e zelante, il papa ha lasciato Roma e – a Roma – ha lasciato le dispute teologiche sul culto mariano, le ossessioni carnivore sul matrimonio dei preti, le allusioni equivoche sulle carezze ai bambini, le laiche intenzioni sul “matrimonio monosessuale”, le fissazioni psicanalitiche di chi confessa i peccati, il celato utilizzo di allucinogeni medici, le convinzioni fallaci di nuove mistiche urlanti, i confronti crudeli tra le correnti della fede, i calcoli e i resoconti sugli affari di Stato, la proliferazione di sette e di eresie conclamate, le riverenze di politici genuflessi all’anello e tutte le altre questioni che rintronano nei Sacri Palazzi, rintronandogli le orecchie di giorno e di notte.
“Consideriamo, che se noi siamo preti, Dio invece è qualche cosa di diverso” pare abbia detto ai suoi seguaci più prossimi, quasi a distaccare il Signore da chi ne fa le veci. Poi, come a mutare solo apparentemente argomento, pare aver sussurrato: “Delle cose del mondo, il Papa non può occuparsi. Non può trattare”, come a distaccare se stesso dalla Babele d’intorno. In ultimo, a confessarsi, con un filo di voce rimasto: “Non può, per molte buone ragioni. Fra l’altro, amici miei, ammettiamolo pure, per non mostrare la sua incompetenza”.
Come soppresso dal morbo di una troppo grande vastità di problemi, il pontefice di Roma senza papa volta lentamente la schiena a questa città in lutto momentaneo – attonita davanti a quest’uomo ridottosi nuovamente ad essere un uomo – per ritrarsi oltre scena, dietro le quinte, al di là dei fondali: va a Zagarolo – borgo di tufo, di mosche e di caciocavallo – preferendo questo anfratto a Subiaco (sacra all’ordine dei benedettini), a Bolsena (teatro di un grande miracolo), a Castelgandolfo (gran corte) e a Tivoli, Anagni, Ostia, Frascati e Fregene.
A Zagarolo “ragiona la sua reticenza”; a Zagarolo “pone limite al suo magistero”; a Zagarolo “egli si congeda”.
A Zagarolo respira di un fiato più calmo, placido, regolare.
Lontano, adesso, si fissa il camino, tubo scurissimo che si fonde col cielo ormai tramontato. A testa in su si passano le ore, nella “vedova piazza” della Roma senza papa.

 

 

 

Guido Morselli
Roma senza papa
Adelphi, Milano, 1992
pp. 184

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