“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 24 May 2016 00:00

Else, un'attrice e il suo pubblico

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Una premessa. Dando un’occhiata alle note di regia presenti in brochure leggo che in Signorina Else – opera di “straordinaria attualità” – “si respira l’angoscia insanabile della nostra epoca, condannata all’immobilità dalla troppa coscienza del passato e travolta dalla paura che la rende incapace di prendere qualsiasi decisione”. Come la società europea tra le due guerre (Schnitzler scrive il romanzo nel 1924) saremmo al cospetto di un “recente e fantasmagorico boom economico che ha consentito a tutti di rivedere al rialzo le proprie aspettative e che adesso chiede ai giovani un conto salato” mentre la nostra Europa “sprofonda ogni anno di più”, divorata dalla “speculazione finanziaria” e dalla “crisi dei valori”. Ma è davvero questa l’opera che racconta lo stato di sospensione della generazione di mezzo (i nati tra la seconda metà degli anni Settanta e la prima metà degli anni Ottanta)?

A me sembra che la generazione alla quale appartengo sia più cechoviana che associabile alla giovane pupilla di Schnitzler, che sia più votata all’inerzia e alla sopportazione ristagnante di una quotidianità senza sbocco che all’iperattività motoria di questa Else che, al Ridotto del Mercadante, si agita passando e ripassando dal fondo al proscenio, da destra a sinistra, e viceversa. Somiglia, questa nostra generazione, ai giovani con cui Benedetto Sicca mise in scena Il giardino dei ciliegi: ragazzi e ragazze che subivano i debiti dei padri (il giardino è stato venduto ed a voi ormai non resta più niente) non avendo mai uno scatto, non vivendo mai l’istinto alla rivolta o alla protesta, non sentendo mai neanche il bisogno di riflettere sulla propria condizione presente (quanto dolore che ne deriverebbe e che spavento!) ma sviandola invece, (dis)impegnandosi ora a farfugliare qualche frase amorosa, ora a suonare la chitarra, ora a sbadigliare mentre lo sguardo giace perso nel vuoto. Else – questa Else interpretata da Federica Sandrini – invece smette di giocare (“non posso più”) ed ha per lo meno il coraggio di effettuare una crudele e disturbata analisi di sé, che la porta al sacrificio della propria immagine, della propria innocenza, del proprio futuro. Così la sospensione di cui leggo nelle note di regia (associata da Alberto Oliva all’infossamento del Giorni felici di Beckett) sarebbe da fermo-immagine e richiederebbe una lentezza d’azione, una calma sopita che controbilanci l’indefesso accumulo di riflessioni mentre ciò a cui assisto è un monologo fisicamente dispendioso, il cui unico corpo in scena incarna lo scorrere delle pagine mutando di continuo posizione, relazione con il contesto, dinamica d’azione. Pensata come creatura “della solitudine e dell’indecisione” Else in fondo agisce e muore, raggiungendo una consapevolezza disperante a noi sconosciuta.

Rileggendo in questi giorni Signorina Else di Schnitzler l’impressione che ho è quella di trovarmi al cospetto di un romanzo dostoevskijano: flusso di coscienza ininterrotto, percezione progressivamente disturbata del reale, dominio della prima persona singolare al punto che diventa quasi impossibile comprendere se gli altri esistano davvero, come sia fatto il loro volto, che senso abbiano o nascondano i loro comportamenti. Il padre e la madre di Else ad esempio – scrivendo alla figlia, ospite della zia in un albergo, perché chieda denaro a un “amico di famiglia” per salvare il padre dal disastro processuale – pretendono soltanto un’intercessione o stanno inducendo la giovane alla prostituzione? Quanto sono consapevoli che il baratto sarà inevitabile? Else è ormai solo la loro ultima fiche da gettare sul tavolo da gioco o va considerata ancora come la preziosa (intesa come ultimo capitale a disposizione) bambina di papà? Non possiamo saperlo, essendo la nostra unica fonte in preda a una crescente crisi emotiva, analitica e comportamentale. Ambiguità, allusioni, mezze frasi, parole dal significato molteplice caratterizzano dunque l’intero racconto e d’altronde sono proprio questi mezzi toni o questi accenni a fare di Signorina Else (anche) la narrazione della caduta – morale, culturale, economica – della borghesia primo-novecentesca: la stessa che produce, accetta e applaude un regime; la stessa che acconsente alla guerra; la stessa che ha già mandato e presto rimanderà i propri figli a morire in trincea, facendone carne da offrire al macello. Si può quindi dire che c’è un solo vero personaggio, con attorno una serie di figure secondarie che hanno ora la consistenza dell’ombra, ora sono percettivamente deformate in maschere mostruose (simili a quelle che vediamo in certi brutti sogni), ora sono soltanto nominali. Si presta perciò bene Signorina Else alla messinscena teatrale, si presta bene come già appurato in passato e non dev’essere un caso, d’altro canto, se Antonio Baldini, nel curarne la prefazione per la Dall’Oglio Edizioni, scrive “io non so se chiamare quest’opera dramma o romanzo” facendo riferimento ad altre caratteristiche teatrali della stessa: unità di spazio (l’albergo); unità di tempo (le tre ore che separano l’inizio dalla fine e che sono la durata che mediamente serve a leggere il libro, tempo che in teatro naturalmente viene contratto); relazione diretta con i fruitori (Else, parlando a sé, finisce per parlare ai lettori e dunque agli spettatori).

Rispetto a tutto questo Alberto Oliva fa bene a serrare la sua unica attrice usando una quarta parete che serve a comprimerla nel suo delirio ma – al tempo stesso – attraverso la quale noi possiamo spiare questo delirio e fa bene, ed è la sua vera trovata scenica, a far pendere dal soffitto nove altalene di dimensione differente non tanto per sospenderla “tra l’hotel e il cielo” (ancora le note di regia) ma perché in questo modo rende quello che è il comportamento costantemente variabile della ragazza (accetto o non accetto di spogliarmi in cambio del denaro che potrebbe salvare mio padre? Sono una donna perduta o una fanciulla viziosa? Sono la vittima o la provocatrice delle circostanze che sto vivendo?) offrendole uno strumento dondolante che diventa anche oggetto di un continuo riutilizzo re-significativo (così l’altalena è ora il balcone della stanza d’albergo, ora l’interno di un armadio, ora la panchina del parco, ora il bancone della hall, ora serve a richiamare la sala-ristorante). Detto del sonoro che serve a dare la sensazione di rumori e frasi che battono tra le tempie, è da non sottovalutare l’ultimo elemento scenografico: la parete di fondo, composta in parte da specchi anneriti, che da un lato servono a porre Else al cospetto di se stessa (“Buona serata bellissima fanciulla dello specchio. Si ricordi anche un pochino di me...”) e, dall’altro, rende la difficoltà che la giovane donna ha nel mettere a fuoco se stessa ovvero la parte oscura di sé, quella celata dalla sua avvenenza, dalla sua posizione sociale, dalle parole che si dice e che usa. Detto questo, bisogna aggiungere subito che lo spettacolo vive totalmente della sua interprete: Federica Sandrini mi appare letteralmente perfetta per il ruolo, lo è per aspetto fisico – che ne fa credibile fanciulla della buona borghesia mitteleuropea, donna dal fascino destinato al sacrificio, adolescente intimamente vogliosa e spudorata – e per capacità di aderire al personaggio fino quasi a coincidere con esso tant’è che mi sembra di non riuscire a distinguere differenze tra l’Else che mi sono immaginato leggendo il romanzo e quella che vedo attraversare in maniera iperattiva il palcoscenico, ora calcandone il perimetro (“bene, me ne vado”; “da quanto tempo mi aggiro intorno all’hotel”), ora tagliandolo in diagonale. La Sandrini sorride e trema, ammicca e prova spavento, avanza audace e retrocede spaventata, sta fissa in un posto come una bimba al cospetto dell’orco e si trasforma in femme momentaneamente conturbante; ama e non ama, forse potrebbe amare ma sente ed afferma di non poter amare mai per davvero; non si venderebbe ma lascia anche intendere la sua voglia di perdersi, provando tutto, comprese le droghe o il sesso col bel ragazzo intravisto in albergo; è la vergine stanca o indifferente della sua verginità ma è anche la scrupolosa custode di una purezza etica, formale, apparente e corporea. C’è un’unica cosa che di questa Else non si può dire – che sia dichiaratamente un’attrice – ed è qui che cominciano i miei dubbi.

“Non vuoi proprio più giocare Else?” inizia con questa domanda il romanzo ed è bene notare che il verbo usato è “spielen” che, come per il to play inglese, significa anche “recitare”. Non è un caso. Si tratta, infatti, solo del primo dei molti indizi con cui Schnitzler allude nel romanzo all’interpretazione di una parte che, naturalmente, se ha ragioni sociali (la borghesia che finge all’interno dei propri salotti e nel porsi in rapporto con gli altri borghesi, quella stessa borghesia tragicamente commediante, ipocritamente perbenista, castratrice amorale, dalla quale non può che venire questa prole degenere, che mente di continuo alla propria coscienza) può essere intesa anche come un’imperdibile occasione per ragionare e per lavorare sull’attoralità. Volete un indizio? Else di continuo offre manifestazione di sé e relativo commento, battuta e analisi della battuta, agisce in prima persona singolare e si guarda (si analizza, fa da critico teatrale mi verrebbe da scrivere) in terza persona: “Non riesco a controllare la voce”, “parlo a vanvera come un’idiota”, “questo l’ho detto proprio con l’intonazione giusta” e “andiamo bene”, “ci vuole più classe, più dignità”, “come suona diversa la mia voce”, “oddio mi confondo di nuovo”, “credo che anche il mio volto abbia un’espressione dura”. Contemporaneamente dentro e fuori di sé, Else offre un costante dondolamento recitativo alternando verismo mimico-gestuale ed epicità, falso spacciato per vero e smascheramento di questa falsità, menzogna e consapevolezza, resa di una frase e sua analisi, messinscena e didascalismo di natura registica ed interpretativa. C’è in qualche modo o per qualche spunto l’avanguardismo d’inizio secolo, che frantuma dall’interno il naturalismo tardo ottocentesco, e c’è la testimonialità brechtiana per cui Else agisce e studia, analizza, spiega, motiva e – se possibile – modifica l’azione per migliorare la propria prestazione e per ottenere l’effetto voluto: “Voglio parlare con un altro tono e non sorridere più”. Inoltre: afferma che avrebbe potuto e potrebbe ancora fare “l’attrice” (“della vita di teatro non ne hanno sentito parlare”, dice dei genitori, “hanno riso”); sottolinea che da tempo recita la propria spensieratezza – nessuno, dal suo viso e dai suoi comportamenti, potrebbe capire le difficili condizioni patrimoniali della famiglia –; ricorda di quando, a teatro, ha pianto assistendo a La signora delle camelie (lì già immedesimandosi nella parte della donna perduta) e come un’attrice, secondo vecchi stereotipi misogini, fonde diversità ed estetismo, istinto di perdizione e presunta disponibilità alla promiscuità sessuale: “Che scialle meraviglioso”, “quant’è seducente”, “oggi è diversa”. E ancora, adesso riflettendo: il pegno che ha da pagare – il farsi vedere nuda dal sig. Dorsday, l’amico di famiglia – non ha a che fare col teatro? Quello che l’uomo chiede, infatti, non è toccare, penetrare, possedere un corpo ma soltanto osservarlo, dandosi dunque alla contemplazione hic et nunc, dalla durata prestabilita (un quarto d’ora), tipica dello spettatore che assiste all’apparizione di una figura teatrale. E possiamo pensare, aggiungo ancora, alla stessa Else come a un’interprete posta dinnanzi ad un ruolo nuovo (la prostituta), assegnatole dal regista (il padre) e dall’aiuto-regista (la madre) attraverso un copione (la lettera) da inscenare in un teatro in cui non si è mai esibita (l’hotel), al cospetto del pubblico presente questa sera? “Avrete di che vantarvi. Potrete essere orgogliosi della vostra figliola. Diventerò una sgualdrina come ce ne sono poche” (disponibilità al ruolo); “parla come un commediante da strapazzo” (del sig. Dorsday, che mamma e papà hanno scelto come suo compagno di recita) per un pubblico reale e immaginario che la stessa Else aumenta a dismisura fino a comprendere l’intero albergo: “D’ora innanzi camminerò con le mie gambe. Sono carine, vero, le mie gambe! Potrà convincersene durante lo spettacolo, lei e gli altri spettatori”. Come un’attrice Else ricorda o improvvisa col pensiero le scene possibili di cui è partecipe, sente momentaneamente di vivere vite che non ha vissuto, anticipa (perché conosce) il finale della trama che la vede protagonista (il Veronal, il tentativo di suicidio, la morte). Come un’attrice vive tra il camerino (la sua stanza), lo spazio mediano che dal camerino porta al palcoscenico (le scale e i corridoi dell’albergo) e il palco (il luogo nel quale si esibisce denudandosi, prima di accasciarsi); come un’attrice dice e ridice una stessa battuta (“L’aria è inebriante come lo champagne”); come un’attrice prova il ruolo, adeguandovi – tra errori, approssimazioni e scoperte – ogni movenza ed ogni intonazione e, come un’attrice, sostituisce gli abiti col costume di scena (il mantello che le copre il corpo nudo): “Non mi fa nessuna impressione essere nuda sotto il mantello. Anzi, mi piace. Forse molte stanno così nella hall e nessuno se ne accorge” afferma aggiungendo subito: “Forse molte vanno anche a teatro così”. E la sua morte? Va intesa certamente come il suicidio di una intera classe sociale e va intesa come la fine prematura di una giovane fragile, sofferente e vagamente dissipata – e qui siamo ancora su un piano letterario, tra esegesi metaforica o testuale – ma può essere anche pensata come l’ultima scena dell’opera, dopo la quale non restano che un sipario da chiudere, lo sgomento degli spettatori e i loro commenti a spettacolo terminato (il funerale) ed allora – azzardo – questa è la morte, prima che dell’interprete, della figura cui lei ha dato (la) vita: d’altronde non muoiono ogni sera i personaggi teatrali, per rinascere quando comincia la replica successiva? Si tratta di suggestioni, sia chiaro, di uno dei molti modi di leggere il testo di Schnitzler; si tratta della messa in evidenza di una teatralità ulteriore cui Alberto Oliva mi pare non abbia voluto dare importanza o valore – facendone magari uno dei percorsi possibili della sua ricerca registica –, limitandosi invece, almeno così mi è sembrato, ad offrire allo sguardo voyeurista del pubblico del Ridotto (che di fatto funge da sig. Dorsday) la creatura (Federica Sandrini) di cui egli stesso è “padre” scenico, in questo modo ri-ambientando nella tridimensionalità dell’edificio teatrale la bidimensionalità della pagina scritta. Il corpo della Sandrini fa la differenza e la realtà della sua carne dona spessore muscolare alla composizione drammaturgica mostrando quali conseguenze, ricadute o traduzioni de facto possano trovare le parole se vissute ed agite in assito – certo – ma se questo conferma la dimensione prima del teatro marcando la diversità più ovvia rispetto alla letteratura – l’esistenza viva del personaggio – non basta a fare di questa Signorina Else uno spettacolo innovativo, com’è lecito attendersi da un regista giovane, all’interno di uno spazio dichiaratamente votato (almeno queste sono le intenzioni proclamate da Luca De Fusco) alla ricerca ed alla sperimentazione di linguaggio e visione. Me ne sto dunque così, ora anche io dondolante, tra l’apprezzamento per la Sandrini e l’insoddisfazione per una regia a cui è mancato l’innovativo (e necessario) coraggio di rischiare fino in fondo.

 

 

 

 

Signorina Else
da Arthur Schnitzler
traduzione Enrico Groppali
adattamento e regia Alberto Oliva
con Federica Sandrini
luci Cesare Accetta
scene Marco Di Napoli
costumi Giuseppe Avallone
musiche Gabriele Cosmi
foto di scena Marco Ghidelli
produzione Teatro Stabile di Napoli
lingua italiano
durata 1h 10'
Napoli, Ridotto del Teatro Mercadante, 11 maggio 2016
in scena dal 10 al 15 maggio 2016

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