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Wednesday, 27 April 2016 00:00

L'ultima scena di un attore

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“Se riesci a far funzionare un momento, puoi arrivare dappertutto".

 


Philip Roth è ormai noto essere una delle punte di diamante più luminose nel panorama letterario americano. Difficilmente delude, non tutti i suoi libri entusiasmano e fanno gridare al capolavoro, come certe pietre miliari considerati veri e propri manifesti – vedi Pastorale americana. È innegabile, però, la coerenza stilistica, l'approccio affascinante alla vita con le sue ossessioni scomode, il suo coraggio nel narrare palesemente o velatamente, attraverso personaggi imponenti, l'intera gamma delle istanze umane senza risparmiarsi in niente, perché un libro scandaloso è semplicemente un libro scritto male e con Roth non c'è pericolo che ciò avvenga.

L'umiliazione è un prodotto letterario minore, scritto a distanza di molti anni dai cosiddetti capolavori. All'apparenza i temi comuni in Roth non vengono vistosamente trattati: temi sociali, politici, critiche lampanti alla società civile, decostruzione di miti e smascheramento di sogni e illusioni. Apparentemente, appunto, perché il personaggio di Simon Axler attraverso il suo crollo monumentale – le riflessioni sulla rappresentazione teatrale metafora di quella reale e quotidiana, il decadimento fisico e morale, il desiderio come ultimo bagliore mai sazio eppure disperato, terra in cui l'uomo sconfitto opera la sua ultima vendetta contro il tempo e la morte – mette in scena la parabola crudele della condizione umana, richiamando alla mente il capolavoro di Magritte con tutto il suo solipsismo rappresentativo.
Simon Axler è stato un grande attore di teatro, osannato dalla critica e dal pubblico, inconsapevole del suo talento spropositato poiché convinto che la sua magia sul palco fosse frutto di una specie di istinto dal quale il pensiero era bandito. Morta la spontaneità, la vitalità e subentrato il controllo e la paura. Il suo presunto talento si è dileguato senza lasciare traccia, anzi, distruggendo per sempre la sua carriera che da questo momento diventa un fantasma assillante in un vortice di aria sottile. Come afferma lo stesso protagonista scomparso qualcosa di fondamentale", rimane falsità e menzogna, gli resta un'unica parte: quella di se stesso, che comunque è un ruolo, una rappresentazione avvilente e una condanna alla quale siamo tutti destinati. Nelle spire di un pensiero claustrofobico Axler avverte la pantomima anche nel suo dolore, nella sua condizione, come se recitasse la parte di colui che non può più recitare, la parte di un attore sconfitto sul teatro della realtà, scenario in cui siamo costretti a recitare un copione, tanto da spiarci dall'esterno per scoprire quanto irreale e innaturale sia la nostra immagine. Se la vita imita l'arte, se siamo effettivamente i fantocci esaltati di tipi già scritti e interpretati, la follia è l'unico riparo naturale per l'uomo che si sottrae a questa commedia di facce e umori. Uno, nessuno e centomila, ma alla fine forse nessuno, una sottrazione liberatoria che ha come ultimo segnale vitale il desiderio. Nell'annullamento e nel disfacimento ci appelliamo ai desideri più basici, quelli che in una purezza quasi matematica ci accomunano tutti, i desideri di una specie senza personalità, senza divisione e identità, solo la semplice risposta unanime della carne prima della censura dello spirito. Così Axler si appella a questo primo segnale di vita come dimostrazione che, in verità, è anche l'ultimo. Si consuma e una volta esaurito, perché troppo vicino alla grazia di un sentimento, ritorna al suo essere nessuno, ma c'è ancora un nemico da abbattere, dissacrare, è quell'uno tenace: l'uomo, l'attore, lo scrittore o chiunque abbia scelto di essere. L'ultima maschera da disvelare, con un solo atto titanico, affermativo, prima di consegnarsi al nulla: il suicidio. E sarà un suicidio in grande stile, nei panni di un personaggio altre volte interpretato e nelle sue stesse vesti, perché a morire deve essere lui e le sue centomila copie false, nella morte, insieme, l'unione e la distruzione della verità della vita e della finzione.
È un incontro fatale, senza spettatori e copioni, è la prova e il coraggio che uno deve a se stesso, l'ultimo riconoscimento a luci spente.

 

 

 

Philip Roth
L'umiliazione
traduzione Vincenzo Mantovani
Torino, Einaudi, 2011
pp. 120

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