Print this page
Tuesday, 19 April 2016 00:00

La fattoria delle occasioni sciupate

Written by 

Lo spazio vitale limitato e conchiuso da due strisce di luce tra il proscenio ed il fondo palco, sul fondo stesso uno schermo su cui si susseguono immagini di un blob coloratamente contemporaneo, sotto al quale una “h” ed una “f” formano il logo acronimo di quel che s’inscena; tre personaggi ad agire all’interno di quello spazio che scopriremo solo alla fine – invero troppo tardi – essere un reality show inteatrato che si incentra su figure di malati terminali, premio finale un’eutanasia, in cambio la sua spettacolarizzazione mediatica.

Cominciamo dalla fine perché è nella fine che si concretizza uno dei difetti complessivi di Human Farm 2020, ovvero un disvelamento tardivo del meccanismo drammaturgico che lascia lo spettatore in balìa di un’incertezza protratta, occupata da un’ora buona di spettacolo in cui ben pochi sono gli appigli che suggeriscano un avvicinamento al fulcro drammaturgico; si resta per lo più in attesa che il plot dipani il suo bandolo, che prende le mosse da George Orwell, la cui scrittura funge da duplice innesco: da La fattoria degli animali si mutua l’idea del titolo, da 1984 una concettualità di fondo, oltre ad alcuni elementi testuali e metatestuali di immediata lettura, a partire dalla razione di cioccolato procapite che tocca a ciascuno e dal taccuino che Gen – uno dei tre protagonisti – come il Winston di 1984 conserva segretamente per appuntarvi i suoi propositi di rivolta; dal punto di vista concettuale, il richiamo di fondo all’opera orwellliana risiede nella riproposizione di una distopia in scala, traslata da un macrocontesto sociale globale ad un microcontesto esemplare (quello di un reality show televisivo) in cui si mostra il riproporsi di dinamiche simili; c’è dunque la coercizione rappresentata da uno spazio chiuso e la distopia, anziché proiettarsi verso un futuro remoto, viene vista dietro l’angolo, ad una manciata di anni dall’oggi, segno di un futuro sentito imminente se non già presente.
La resa scenica però delude, evidenziando un difetto compositivo che rende la messinscena incapace di tradursi in una riproposizione efficace. Il tema della degenerazione sociale, amplificato dal controllo mediatico che droga e controlla le coscienze, viene ormai riproposto costantemente attraverso i più disparati canali, sicché per renderlo scenicamente accattivante sarebbe necessario guardarlo da una prospettiva originale, piuttosto che ribadire concetti ormai acquisiti e vulgati quali la dissolvenza fumosa tra ciò che è vero e ciò che è falso o come i meccanismi di persuasione (più o meno) occulta attraverso cui il potere rigenera e conserva se stesso.
Partitura per tre attori, vestiti di blu e di nero, e tra i quali si instaurano dinamiche dialettiche stranianti, Human Farm 2020 appare acerbo nella sua costruzione complessiva, denotando un senso d’incompiutezza.
Dialoghi frammentati che tentano di giocare la carta del nonsense, accompagnati dall’utilizzo di un sovratono eccessivo e troppo votato alla ricerca di un umorismo semplicistico, inchiodano Human Farm 2020 in una nebulosa farragine compositiva, che non dà mai l’idea di possedere un’urgenza espressiva da trasmettere, mentre si sforza di trasmettere un’idea che possiamo dire acquisita se non addirittura inflazionata. Il colpo di pistola finale contro lo schermo, proiezione malefica della dittatura dell’immagine, riecheggia come ultimo espediente di una messinscena non riuscita.

Una nota a margine ma non troppo
Ci si affaccia alla visione di Human Farm 2020 con l’aspettativa curiosa di voler capire cosa stia bollendo in pentola in termini di nuova drammaturgia, segnatamente cosa stia bollendo nella pentola della nuova drammaturgia che si produce a Napoli e che nella sala piccola del Teatro Bellini sta trovando un’occasione di visibilità metropolitana che allarga la possibilità di visioni solitamente confinate negli spazi off. Una scelta quella del Teatro Bellini che potrebbe offrire una palestra fattiva alla nuova drammaturgia napoletana (campana), magari in ciò colmando il vuoto istituzionale di uno Stabile Nazionale che nel suo Ridotto non soddisfa tale istanza.
Sicché il Bellini potrebbe e, in parte fa… Ma nell’uso di quel condizionale c’è tutta la difficoltà e l’incertezza di un panorama artistico le cui difficoltà creative non sono sempre e comunque attribuibili a problematiche strutturali o a vuoti di sistema.
Ragionando su tali fattori dopo aver assistito ad Human Farm 2020 e dopo, nei giorni precedenti, aver ascoltato diverse riflessioni sulla situazione teatrale napoletana, analizzata con puntuale profondità da Alessandro Toppi in questo articolo, ritengo sia giusto soffermarsi su un aspetto sul quale troppo poco ci si sofferma, spesso nascondendolo dietro le lacune strutturali di cui sopra che la communis opinio vuole attanaglino e soffochino la teatralità napoletana.
Ecco, dopo aver assistito ad Human Farm 2020, qualche riflessione su quest’argomento mi pare opportuna. Avere a disposizione uno spazio come il Piccolo Bellini è un’opportunità da non sciupare; un’opportunità che non è detto debba essere ripagata con la messinscena di capolavori destinati a diventare pietre miliari della storia del teatro (non che sarebbe disdicevole se ciò capitasse, eh!), ma si presume e ci si augura di assistere – magari in evoluzione progressiva – allo sviluppo di percorsi drammaturgici in divenire, ad un work in progress che lavorando (e per carità, anche sbagliando) nel teatro di oggi, getti le basi per il teatro di domani. Ad oggi a Napoli quali esperienze possono ascriversi alla – peraltro sempre scivolosa – definizione di “nuova drammaturgia”? Se mi soffermo a pensarci, mi può venire in mente di primo acchito il lavoro di Alessandra Asuni e Marina Rippa, tanto per fare un esempio, peraltro in un ambito che apparenta teatro ed antropologia; ma mi ritrovo a mulinare le meningi a vuoto se cerco altre realtà partenopee a cui possa riconoscere un’urgenza poetica presente e riconoscibile. Punta Corsara, Mimmo Borrelli, che pure sono nomi che da qui (Napoli) sono partiti, qui ritornano ma non è qui che vengono prodotti, non è qui che nasce e si sviluppa il loro teatro.
Se pensiamo che nel resto d’Italia giovani autori e giovani compagnie – e penso ad Aldrovandi, a Santeramo, Carullo e Minasi, VicoQuartoMazzini, solo per fare qualche immediato esempio – producono drammaturgia di qualità e la portano in giro investendo la propria arte in progetti che sono fondamentalmente animati da una poetica originale, mi chiedo poi dove siano le poetiche originali che siano scaturite da Napoli e dal suo comprensorio inteso in senso ampio in quest’ultimo decennio.
Seguendo settimanalmente la programmazione dei teatri napoletani e campani, ci si rende conto da presso di quanto la maggior parte di ciò che va in scena – escludendo a priori l’offerta dei teatri commerciali – è spesso un coacervo del già visto e dell’inutile, talora inframezzato da qualcosa di valido (che spesso proviene da fuori regione).
Pertanto l’interrogativo sotteso all’argomento “nuova drammaturgia a Napoli” resta la vera urgenza scomparsa: dove sono le poetiche del tempo presente?

 

 

 

 

Human Farm 2020
liberamente ispirato alle opere di George Orwell
di Massimo Maraviglia
adattamento e regia Rosa Masciopinto
con Marianita Carfora, Antimo Casertano, Raffaele Parisi
progetto scenico Francesco Esposito
costumi Antonietta Rendina
progetto video e foto VisionArea Studio
disegno luci Gianni Porcaro
assistente alla regia Luca Taiuti
realizzazione scene Antonio Genovese, Laboratorio Da Vinci
make up artist Sveva Germana Viesti, Maria Francesca Miale
grafica Luca Serafino
organizzazione Napoleone Zavatto
produzione Muricena Teatro, Fondazione Teatro di Napoli
con il sostegno di Associazione Teatro Colosimo
lingua italiano
durata 1h 10’
Napoli, Piccolo Bellini, 13 aprile 2016
in scena dal 12 al 17 aprile 2016

Latest from Michele Di Donato

Related items