“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 23 March 2016 00:00

Verba volant. E la matematica è un’opinione

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Vorrei banalmente ricordare come a seconda del tempo e dello spazio, di conseguenza del linguaggio che di queste due categorie è la traduzione, cambi il modo di vedere le cose.

Partiamo dallo spazio, spostandoci di latitudine. Alcuni indios dell’Amazzonia per dire "verde" usano una ventina di termini mentre i frettolosi occidentali riducono ogni pretesa di biodiversità. Sento già l’obiezione: abbiamo verdognolo, verdastro, Verdini… no questa è un’altra cosa. Ma siamo sempre lì, a girare attorno a un isolato. Mentre gli indios per questa tonalità hanno venti parole distinte, arrotondo, che portano a compimento l’edificio dello stupore.
Questo perché sono uomini che dipendono da ciò che è "verde" e dunque lo rispettano: sanno che c’è un verde per i frutti degli alberi, che probabilmente produrrà certi succhi e certi riflessi; un verde per le chiome impenetrabili; un verde per l’erba che si calpesta e dalla quale si traggono ulteriori unguenti. Accade che l’elemento vitale diventi un cosmo filologico: philos, amico, e logos, parola.
A proposito di Grecia, se pare il caso di avvicinarsi nello spazio, ma attenzione che per dispetto retrocedo nei secoli, chiedo: da cosa dipendevano ateniesi, spartani e compagnia bella? Dal mare. E non a caso, i greci, per dire "mare" usavano thalassa come concetto generico e dunque per il Mediterraneo, il mare dei mari; pelagos, il mare aperto, quello che inevitabilmente incuteva timore, il mare dei miti; pontos, il mare come viaggio, Ulisse ma anche il ponte tra terre di commercio; kolpos era il golfo e per analogia l’Adriatico; hals era il mare-materia, acqua e sale, un brodo primordiale nella pentola terrestre. Sottigliezze meravigliose come curve femminili. Arriviamo a cinque. A occhio e croce, rispetto i nostri amici indios, siamo in difetto di quindici.
Ora passiamo al tempo, ciò che per i fisici va unito allo spazio in un guazzabuglio molto relativo: siamo così permeati di cristianesimo che lo misuriamo sulla base della nascita del suo profeta e pare non sussistano dubbi che viviamo nel 2016.
Ma ciò che equivale al 2016, è il 5776 dell’era ebraica, il 5118 dell’induista, il 2559 della buddhista, il 1434 dell’islamica e il 172 dell’era baha’i. Chi? I baha’i: hanno il loro vaticano a Haifa, in Israele, dove di religioni se ne intendono. Degli altri, chi più chi meno, abbiamo sentito parlare. Numeri e basta? Mica tanto. Se vogliamo attenerci a freddi calcoli, questo 2016, che pochi mesi fa abbiamo festeggiato con i fuochi d’artificio, è minoranza nel pianeta. E se abbandonassimo l’illusione di essere al centro di tutto? Noi, sì, come penisola, come continente, come civiltà. Con buona pace di Samuel Huntington.
A proposito: che ore sono?

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