“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 16 March 2016 00:00

"Chirù", dietro la porta chiusa dell'innocenza

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“Quelli che si amano mantengono segreto il potere di farsi paura a vicenda”
 

Chiunque abbia letto o anche sentito nominare Sidonie-Gabrielle Colette e il suo romanzo più famoso, Chéri, non può non aver collegato immediatamente a questo modello il nuovo lavoro letterario di Michela Murgia Chirù. Differiscono le ambientazioni e il tempo, le intenzioni finali, ma impossibile negare che a partire dal vezzeggiativo con il quale la protagonista si rivolge al ragazzo gli echi del romanzo francese si facciano sentire vividamente.

Anche la storia è un calco, vengono narrate, con una cura particolare ai flussi discontinui di ricordi e pensieri, le vicende di adolescenti accolti sotto l’ala colta e protettiva di donne mature che si ergono con sprazzi pedagogici asfissianti a maestre di vita, d’amore e il cui l’unico obiettivo, in Chirù più che in Chéri, è quello di violare il candore elargendo consapevolezza. La storia ha una sua potenza, la formazione di un giovane ragazzo apre le porte a dimensioni nuove e inviolate che stanno per essere illuminate da infinite luci, ma anche inscurite da terrificanti ombre, in un gioco pericoloso che è quello in cui tutti ci troviamo prima o poi perché è il salto fatale che ci porta dall’altra parte della vita, dove del tempo e dei gesti si comincia a sentirne il peso. Conosciamo questo ragazzo attraverso gli occhi della sua insegnante, lo vediamo sulla porta di un’innocenza che già non si scorge più dietro l’uscio chiuso, la sua smania, la presenza tutta ha un che di offeso, corrotto, un’inesprimibile violenza ascrivibile a una rarità di sensazioni e smanie non ancora espresse.
Chirù sboccia davanti ai nostri occhi, come materia buona ma grezza si offre al demiurgo che saprà inscrivere una forma all’entropia della giovinezza selvaggia, ma cosa succede se il demone della creazione nel suo lavoro di formazione si ritrova a subire i colpi amari della sua stessa pretesa artistica? Cosa accade se tra l’artista e l’opera d’arte i ruoli si confondono e quello che ne viene fuori è un crudele specchio dove è impossibile non vedere riflessi i propri mostri? Ciò che nasce come gioco o sfida si trasforma in massacro, è inevitabile. Il controllo che una mente adulta può esercitare su se stessa è destinato a crollare pezzo dopo pezzo, poiché l’impetuosità di certe età, le possibilità maldestre eppure assennate coinvolgono anche la più sicura prudenza, non si è fatta mai abbastanza scorta di buon senso, certe lezioni e certe tensioni sono fresche e ardite in qualsiasi tempo, alcune innocenze azzerano quello che si è ponderato con cura, rimettono in gioco la parte più dura a morire che esiste in ognuno di noi.
Chirù cresce, ciò che ignorava ora lo scruta con attenzione, si trasforma sotto i nostri occhi, da ramoscello resistente diventa albero fiero, sicuro nella sua scalata verso altezze pericolose, approfondisce e si accorge dei dettagli, costruisce riti e identità, si forma sulla scorta di quello che già spingeva dentro di lui, percepisce le rifiniture di una giacca come di una situazione, cammina sempre meno distratto nel mondo e man mano perde quell’aria confusa per lasciare spazio a un uomo che sa manipolare e compromettere le fortezze altrui. Eleonora, la maestra e la fortezza, inciampa in questo ragazzo acerbo, rivive il suo passato, ciò che nella sua vita era stato messo sotto chiave improvvisamente si spalanca con una forza devastante, una bestia mansueta da tempo riscopre la libertà della sua animalità, la gioia dell’incertezza e il sudore della paura, la fragilità delle definizioni e il serafico controllo si inabissano e nel riemergere sono aurore pallide, stanche per il disuso, ma ancora anelanti, piene della sgrammaticata curiosità degli istinti giovani. Assistiamo a un trionfo e allo stesso tempo a un liberatorio ritorno fuori fase, siamo testimoni di quanto il tempo non esista per gli esseri umani, di quanto l’amore possa essere un grumo sporco e immacolato, incomprensibile e foriero di accecanti rivelazioni e atroci risvegli. In balia di energie e poteri crudeli i rapporti umani restano il luogo in cui un intero e perfetto sistema di pianeti e stelle sembra essere una realtà infinitamente piccola rispetto a due persone che si guardano spietatamente dentro, giocando a dare nomi e contorni a quelle scosse telluriche nascoste e tenute per sempre al sicuro.
Niente viene spezzato, niente scompare, le cose si separano, ma non si infrangono, così Chirù e Eleonora anche quando si dicono addio, senza saperlo, restano il pezzo manomesso l’uno dell’altro, l’opera sformata da molti, ma da qualcuno più di tutti.

 

 

 


Michela Murgia
Chirù

Torino, Einaudi, 2015
pp. 200

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