“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 16 March 2016 00:00

Primi appunti su Quotidiana.com

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Non si chieda cosa ho fatto in tutto questo tempo.
Resterei muto;
e non direi perché.
E c'è un silenzio da far esplodere la terra.
Neanche una parola che abbia colpito;
si parla solamente nel sonno.
E si sogna di un sole che rideva.
Svanisce;
il dopo non ha più importanza.
La parola si è spenta, quando quel tempo si è svegliato.
(Karl Kraus, Non si chieda)


Premessa
Sala Ichòs, confermandosi spazio che tenta di ospitare e proporre compagnie che fanno dell'innovazione del lessico teatrale la propria ragion d'essere, offre la possibilità di assistere – in giornata unica – alle prime due opere che compongono un trittico ancora incompleto, intitolato Tutto è bene quel che finisce: L'anarchico non è fotogenico, Io muoio e tu mangi. Li considero perciò un tutt'uno di un progetto più ampio, ancora in via di definizione.
In passato ho solo visto, in video, due dei tre spettacoli che compongono la Trilogia dell'inesistente e ne ho letto i testi, pubblicati da L'alboreto: incontro dunque e davvero per la prima volta i Quotidiana.com.
Ne viene adesso questo diario d'appunti: una sorta di taccuino messo in pubblico, in cui ci sono approfondimenti dubbiosi e ragionamenti su qualche dettaglio più che la recensione della doppia messinscena.
Così va, questa volta, in attesa del prossimo incontro e del terzo episodio.


Dialogo
“Cosa vuoi dialogare? Non c'è possibilità di capirsi su nulla. Si fa finta di dialogare, si annuisce, si è sempre più stanchi di ascoltarsi”.
La mia sensazione è che alla base della scrittura e della presenza de i Quotidiana.com ci sia non la denuncia dell'insensatezza di lingua e linguaggio ma del dialogo: l'assurdo dialogo, l'impossibile dialogo verrebbe da scrivere parafrasando Samuel Beckett. Non è dunque l'atto in sé del parlare che diventa ridicolo ma è la possibilità d'essere davvero compresi a far perdere importanza al parlare. Mi senti ma non mi ascolti, ti arrivano le mie parole ma non riescono a destare in te nessuna attenzione né a provocare una reazione significativa e così – pur essendo l'uno di fronte all'altra – non siamo davvero in rapporto, non c'è alcuna relazione significativa tra noi.
È tutt'altro che nuovo questo elemento, penso, perché il teatro – ovvero chi il teatro lo idea, lo compone, chi lo mette in scena e lo interpreta – da più di un secolo si confronta con la falsità (borghese, civile ed artistica) del dialogo, pratica che ci ostiniamo a ripetere senza che ci salvi dallo stato di isolamento che ci appartiene. Così lo troviamo anche nelle opere che ci appaiono canoniche: tralascio il caso fin troppo noto di Čechov, nelle cui commedie non ci s'intende neanche sul clima, o quello volutamente teatralizzato di Beckett, che usa la modalità suggeritagli dagli sketch del circo o del cabaret, ma basti pensare a Eduardo che caratterizza non a caso la performance attorale di silenzi lunghissimi e che, via via che la sua carriera di drammaturgo prosegue, genera personaggi che rinunciano alla parola, pronti ad esprimersi ora con gli sguardi, ora solo a gesti, ora coi fuochi d'artificio.
Inoltre questo rifiuto del dialogo è stato tra le ragioni di alcuni tentativi “d'avanguardia”, volti alla ricerca di un altro modo di dire dal dire, essendone lo strumento consueto – la voce, rivolta all'udito – ormai insignificante. “L'ammutolire dell'arte” chiama questo fenomeno – nel suo complesso – Valentina Valentini, per cui si va dall'impiego delle immagini pittoriche alle composizioni di forme e colori, dalla vocalità ridotta a suoni onomatopeici all'afasia, col dramma che si riduce in un respiro o che viene espresso dal corpo che si muove nello spazio.
Rispetto a tutto questo i Quotidiana.com non propongono il mutismo né si danno al nonsense ma usano invece una certa flemma ritmica, che sa di stanchezza. Dobbiamo continuare a parlare? E allora continuiamo pur sapendo che non serve a nulla. C'è dunque consapevolezza, c'è uno stato di inevitabilità – siamo ancora vivi, ci tocca ahimè ancora vivere – e c'è la spossatezza di dover adempiere a un rito senza significato, puramente formale. Per questo l'uso della catalogazione (esempio: “potrebbe morire...” e via un elenco di comportamenti, figure, stati d'animo, produzioni televisive commerciali, cattive pratiche individuali o collettive e festività da calendario); il reimpiego di formule retoriche (“dobbiamo assumerci le nostre responsabilità per il bene del Paese”) o di espressioni di maniera (“la vita mi soffoca”); il citazionismo (Non si chieda di Karl Kraus; il Dante dell'invocazione alla Vergine, Canto XXIII); per questo la digressione continua, per cui un discorso porta a un altro discorso che porta a un altro discorso ancora: se non ha senso e valore ciò che ci stiamo dicendo, d'altronde, perché seguire la linearità colloquiale?
Che sia il dialogo l'epicentro (terremotato e dunque disabitato di senso) della drammaturgia dei Quotidiana.com me lo conferma d'altro canto un passaggio, che accade più volte. Lui dice: “Ti lascio sola con i tuoi pensieri” e va a sedersi, mimando una posa da siesta; Lei risponde: “Sono sempre sola con i miei pensieri” e, invece di tacere, fa emergere elementi di verità, dolorosi frammenti biografici, scorci di cose accadute che straziano, fanno male, che provocano pena: un padre malato, una madre non autosufficiente, il bagno occupato, l'umiliazione dell'anziano che non riesce a trattenere le feci. Capita così in L'anarchico non è fotogenico, capita anche in Io muoio e tu mangi: nel momento in cui – anche fisicamente – viene inscenata o si allude a una separazione Lei rende brevi immagini che, senza rinunciare alla flemma discorsiva, evocano istanti di umanissima decadenza: il padre in un letto d'ospedale, i suoi vaneggi improvvisi, il bisogno di essere accudito amorevolmente, la preghiera per avere un bicchiere d'acqua, il desiderio della mortadella o di un dolce che la malattia rende impossibile mangiare: “Il babbo stava lì, con due occhi sbarrati, che pensava alla cioccolata”.
La condizione nella quale emergono brandelli di verità è dunque l'isolamento, l'intimità, la solitudine: “I dialoghi” – infatti dice Lei – “impediscono che mi arrivi aria nel cervello”.
Poi torna il discorrere futile, sulla base del “non capisci quello che dico”, tant'è che i due non s'intendono neanche su Rita Pavone (l'uno cita La partita di pallone, l'altra Viva la pappa col pomodoro), tant'è che – a una dichiarazione di vicinanza, di attenzione e d'affetto da parte di Lui – Lei non può che certificare: “Non c'è nulla di credibile in quello che hai detto”.

Corpo (e Teatro)
“andatura regolare, costante: sei chilometri all'ora. Siamo professionisti”.
I corpi di Roberto Scappin e Paola Vannoni disegnano lente partiture motorie: sembrano trascinarsi con la stessa fatica che appartiene al maratoneta che compie l'ultimo tratto non avendo che forza d'inerzia e nessuna altra direzione possibile. Spesso bilanciano la loro presenza – una a destra, l'altro a sinistra – dandosi il cambio; si allontanano ai lati per incontrarsi al centro; stazionano immobili per qualche secondo, in piedi o seduti. Compiono episodiche coreografie: siparietti in ribalta, brevi passi di danza, una gestualità minima ad accompagnare una frase, a rendere visibile una parola: così il piede destro viene alzato all'unisono; Lui la tocca e Lei dondola; Lui si piega in ginocchio alla frase “sono demoralizzato” ed entrambi portano le mani giunte in preghiera quando alludono alle suore o le muovono quando dicono “evapora”. "Morirò prima io", "chi l'ha detto?" diventa un indovinello col tocco, foulard (rigorosamente nero) stretto in pugno. Denunciano in questo modo la routine di sopravviversi ovvero di dover continuare ad esistere in attesa – chissà quando – della fine: “È solo un modo per rimandare” ammettono, sapendo che “tutto è bene quel che finisce”.
In questo atteggiamento non c'è rinuncia alla teatralità, come pure ho letto in qualche recensione, ma – al contrario – mi sembra ci sia il suo utilizzo dichiarato. Vengono nominati colleghi (Daniele Timpano); ci si interroga sulla funzionalità della messinscena (“attrazione che questo teatro può avere sulle folle?”, “pari a zero”); se ne smascherano gli elementi compositivi (“a questo punto ci vorrebbe un colpo di scena”, "mi è venuta in mente la trovata che spezza l'andamento malinconico"); si fa dimostrazione parlata di mise en abyme – cioè la collocazione in sequenza di un'espressione (“ho sognato di essere un cowboy che sognava di essere un cowboy”), si fa dichiarazione di poetica (“teatro senza spettacolo”) e se ne chiariscono gli obiettivi ("dire l'insensato della nostra condizione e solitudine" evitando “l'inquinamento visivo”), ci si rivolge alla platea, seppur raramente, ora interrogando il pubblico (“qualcuno lo sa rianimare?” quando Lui è steso a terra) ora usando la frontalità della posa, sguardo diretto agli spettatori. D'altro canto questa teatralità è dichiarata dalla (voluta, inevitabile?) povertà scenografica: nel momento in cui ci si muove in uno spazio arredato soltanto da qualche oggetto posto tra le pareti nude del teatro (un tavolo e una sedia per L'anarchico non è fotogenico; un drappo, una Madonna con Bambino a mezz'aria, un paio di sedie e una coppa per Io muoio e tu mangi) si rinuncia a far finta d'essere altrove: in ospedale o in salotto, in un qualsiasi altro ambiente che non sia l'ambiente in cui in effetti ci troviamo adesso: Sala Ichòs.
È questo che permette di rappresentare “le linee progettuali di questo lavoro” con un foglio strappato in pezzetti; di fare di un telo bianco di volta in volta una “sindone”, un “gatto”, una “cena”, un “letto per le tenerezze” e una "blatta” (ovvero l'oggetto che funge da innesco discorsivo momentaneo) o di mimare l'apertura di una porta, cercando di riprodurne il cigolio, e l'entrata da una finestra, semplicemente disegnandone nell'aria il davanzale.

La morte
Le due opere – L'anarchico non è fotogenico, Io muoio e tu mangi – sono dunque parte di un progetto che non è stato ancora portato a termine. Obiettivo? Leggo dalla cartella-stampa: “Sviluppare un diverso concetto di fine, facendo riferimento all'idea politica e culturale di eutanasia e non solo”.
Impossibile comprendere l'evoluzione drammaturgica e teatrale della trilogia: sarebbe come valutare un romanzo i cui ultimi capitoli non sono stati neanche pensati o fare analisi di un polittico di cui manca una tela. Mi limito perciò solo a scrivere che nel passaggio dal primo al secondo ho percepito come una crescita dell'elemento "drammatico", come se tutto ciò che anticipa o contraddistingue la morte in termini di strazio fisico e psicologico (il progressivo consumo del corpo, la perdita di forze e di lucidità, lo stato di abbandono e il Tavor, i pannoloni, la steatosi epatica, la bava, le piaghe da decubito, la "puzza di merda nel letto") s'imponesse progressivamente al chiacchiericcio, alla pur continua e ostentata verbalità espressa in maniera sonnolenta, subacquea. Insomma: nel passaggio da L'anarchico a Io muoio mi pare d'intravedere sempre di più il moribondo, mi sembra di percepire sempre di più l'esistenza di un cadavere e la vita (morte compresa) – tenuta altrove dall'impegno inutile di doverne discorrere – acquista la sua centralità, imponendosi comunque.
Così se ne L'anarchico si prova a smascherare (per associazione o contrasto, per ipotesi e messa in sequenza, per logica e per assurdo) l'accanimento religio-terapeutico, che fa della propria o altrui fine un cumulo di sofferenze da considerare indegne per una civiltà che si ostina a definirsi tale (“Non voglio avere gente intorno che si affanna perché io muoio o avere gente intorno che fa di tutto per tenermi in vita, con accanto una badante. Non voglio avere gente in torno che mi odia... Siamo candele che si consumano; di noi non resta altro che uno strato di cera informe: nessuno si batte per tenere in vita una candela, nessuno si batte per tenere in vita una fiamma che si spegne”), invece in Io muoio e tu mangi la mancanza del diritto all'eutanasia diventa pratica da tormento quotidiano, che persevera e usura e che viene resa – senza voler fare messa in scena veristica –  attraverso la ripetizione sempre più affranta degli stessi gesti (l'andare e venire dall'ospedale, Lei) e delle stesse frasi, dovute alla continua interrogazione di Lui. D'altronde chiunque di noi abbia vissuto l'agonia di chi è malato sa benissimo che la sofferenza ti prende per sfinimento, conquistando piano piano ogni muscolo e ogni pensiero come fosse un veleno e che nulla puoi dire, nulla puoi fare, né per evitare ciò che non è evitabile né per alleviare ciò che la (mancanza di una) legge ti impedisce di alleviare.
Dell'accumulo del verbo, che non può spiegare niente e che niente può dire di sensato, mi resta infine l'idea di questo padre offerto in sacrificio all'(a)moralità ipocrita dei precetti catto-partitici per cui si cita Dio a testimonio per impedire una buona morte mentre Dio lo si dimentica, ad esempio, quando si ruba: nonostante il settimo comandamento.

La sottile strategia della noia
Il filo (teatrale) sul quale stanno in equilibrio i Quotidiana.com è sottile e dunque pericoloso. Perché lentezza di fiato e di corpo, ripetizione verbale e motoria, uso e riuso della mono-tonia, offerta scenica più detta che interpretata, resa di una percezione dilatata del tempo attraverso l'induzione all'attesa del prossimo gesto o della prossima parola e una drammaturgia per accostamenti azzardati (il “cercare nuove pertinenze” detto da Lui), che in alcuni punti sembra composta per essere letta prima che per essere vista e ascoltata, aumentano la possibilità di caduta. C'è la noia di sotto e nessuna rete che salvi, eventualmente. Vedo così Roberto Scappin e Paola Vannoni come due acrobati – immagine che rende poco, me ne rendo conto, ma non riesco a trovarne una migliore – che tengono desta l'attenzione, passo dopo passo, in attesa di arrivare “dal punto A al punto B”.
Durante L'anarchico non è fotogenico e Io muoio e tu mangi ascolto, rifletto e collego, qualche volta rido e all'improvviso mi soffermo su un passaggio, tengo una frase, vado col pensiero a qualche episodio vissuto. E tuttavia mi capita anche di vivere momenti d'assenza, di vuoto, durante i quali non riesco a cogliere neanche il nesso potenziale tra una battuta e la battuta seguente; mi accade e penso che sono momenti nei quali potrei uscire, prendere una boccata d'aria e ritornare in platea, avendo la sensazione (giusta o sbagliata) di non aver perso nulla che valesse la pena di non essere perso. Sono questi momenti che mi portano adesso a interrogarmi su quanto possa essere mortale o salvifica la specificità estrema di una poetica artistica, che contraddistingue fino a farsi rigorosamente identitaria (ed è fondamentale, a maggior ragione per una compagnia indipendente) ma che rischia di ridursi alla riproduzione di se stessa (sarebbe deleterio), finendo per diventare paradossalmente essa stessa una lingua che viene recepita e compresa soltanto dai solidali, dagli abitué, da coloro che già la conoscono e che non attendono altro che di tornare a parlarla o sentirla parlare. C'è la possibilità, mi chiedo, che questa stessa identità poetica diventi insomma un recinto, un guscio protettivo o − peggio ancora − una forma fissa, un canone che si autoriproduce, un'abitudine? (tralascio un'altra domanda più basilare: perché l'uso dei microfoni in un teatro come Sala Ichòs, quando siamo a un metro di distanza e siamo una ventina in platea? Cosa significa questo in termini attorali o di ricerca sulla voce?).
Ho visto troppo poco per farmi un'idea anche minima della poetica dei Quotidiana.com (lo ribadisco: sono al primo vero incontro con loro) ed è per questo che termino rimanendomene sospeso, come sono sospesi Scappin e la Vannoni in questo loro percorso compositivo: io e loro, per ragioni diverse ma destinate a coincidere, ce ne stiamo così, in attesa dell'ultima parte della trilogia.

 

 

 

Tutto è bene quel che finisce. Tre capitoli per una buona morte

L'anarchico non è fotogenico
drammaturgia e regia Quotidiana.com
con Roberto Scappin, Paola Vannoni
produzione Quotidiana.com
con il sostegno di Provincia di Rimini, Regione Emilia Romagna
in collaborazione con Armunia/Festival Inequilibrio, La Corte Ospitale
durata 50'
Napoli, Sala Ichòs, 6 marzo 2015
in scena dal 26 al 28 febbraio e 6 marzo 2016


Io muoio e tu mangi
drammaturgia e regia Quotidiana.com
con Roberto Scappin, Paola Vannoni
produzione Quotidiana.com
in coproduzione con Armunia
con il sostegno di Provincia di Rimini, Regione Emilia Romagna
in collaborazione con Istituzione Musica Teatro Eventi, Comune di Rimini
durata 50'
Napoli, Sala Ichòs, 6 marzo 2015
in scena dal 4 al 6 marzo 2016

fonte immagini a corredo dell'articolo pagina FB Quotidiana.com

 

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