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Thursday, 11 February 2016 00:00

Il “gesto” della Poesia sulla soglia del quotidiano

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Spunti da Le Occasioni di Eugenio Montale.



La tua vita è quaggiù dove rimbombano                 55

le ruote dei carriaggi senza posa

e nulla torna se non forse in questi

disguidi del possibile. Ritorna

là fra i morti balocchi ove è negato

pur morire; e col tempo che ti batte                       60

al polso e all'esistenza ti ridona,

tra le mura pesanti che non s'aprono

al gorgo degli umani affaticato,

torna alla via dove con te intristisco,

quella che additò un piombo raggelato                    65

alle mie, alle tue sere:

torna alle primavere che non fioriscono.1


La poesia in Montale nasce dai luoghi della negata evasione: “Quaggiù” (v.55), in quei luoghi triviali e ben conosciuti del contingente. Nel Carnevale di Gerti citata sopra la negata possibilità di fuga è oggettivata dalle “mura pesanti che non s'aprono”, dal “piombo raggelato” rimasto nella canna del fucile senza essere stato sparato.
Nella stessa lirica vi è un invito al lettore (o alla lettrice) a non discostarsi dalla noiosa ridondanza della vita di ogni giorno. Un invito a porsi in una prospettiva apparentemente “senza speranza”: quella dell'esperienza del quotidiano, dove non si danno sorprese, dove non avviene niente di spettacolare o di veramente eclatante (niente esplosioni di petardi né primavere fiorite). E la forma verbale “ritorna”, “torna” è quella che meglio definisce questa prospettiva: quella paziente ed insistita dell'esperienza del quotidiano e della realtà nuda, distante dai mascheramenti e dagli scoppi di ogni carnevale letterale o metaforico, come quello del titolo.
Tuttavia l'esperienza del quotidiano che Montale illustra nella sua opera, pur recando in pegno la noia e l'indifferenza, non è puramente “esperienza quotidiana”. L'esperienza del quotidiano è in lui soprattutto ricerca. Una ricerca che si muove sempre nei territori contingenti e familiari ma che punta sempre verso un oltre, un ignoto, aspira costantemente a ciò che il poeta stesso chiama un “varco”: un'apertura verso l'Oltre. Eppure la ricerca di Montale (almeno quella che la sua poesia testimonia) raramente cede a fughe, slanci nell'assoluto, raramente travalica i limiti del dettaglio oggettivo. Rimane sulla soglia. Si muove sempre sui territori aridi e ostili che facilmente cedono alla morsa dell'indifferenza, dove l'ispirazione sembra latitare rara, o dove non ci si aspetta possa arrivare. E la poesia sembra nascere dal proprio opposto, dalla carenza stessa dell'ispirazione, da ciò che la nega.
In questo modo, anche Montale come Baudelaire ci mostra l'aspetto più precario e paradossale della poesia e dell'ispirazione. Come ben noto, le sue “muse” sono molto modeste, mai di rara bellezza: piante comunissime usualmente lontane dall'immaginario letterario, minuscole tracce di vita: umilissimi ed impensati oggetti di poesia, lontani dal regno del bello e del raffinato, muti depositari di un senso rinchiuso nel contingente quotidiano.


E il gesto rimane: misura

il vuoto, ne sonda il confine:

il gesto ignoto che esprime

se stesso e non altro: passione

di sempre in un sangue e un cervello

irripetuti; e fors'entra

nel chiuso e lo forza con l'esile

sua punta di grimaldello.2



È in questo spazio lontano dalla grazia poetica che entra in gioco il lavoro dell'uomo, è nello stesso spazio che il “gesto” (come nei versi citati sopra) trova il proprio senso e la propria dignità. Gesto come atto umano. Gesto come Poesia: così qui intendo, per brevità, il “gesto ignoto che esprime / se stesso e non altro”.
Sconfessando lo stereotipo dell'otium comunemente associato al lavoro del poeta in attesa di un cenno ispiratorio che debba manifestarsi dall'aldilà, Baudelaire disse che l'ispirazione è frutto del lavoro quotidiano. È il gesto dell'artigiano o dell'operaio quello a cui anche allude la “punta di grimaldello” di Montale. Del resto, anche la poesia opera con un “gesto” simile. Un gesto artigiano insistito con pazienza sul “chiuso” dell'esperienza quotidiana e il cui risultato è pur sempre incerto. Per questo Montale usa il forse (“fors'entra”): l'esito della ricerca del poeta non è certo prevedibile così come non è dato sapere se la punta del “grimaldello” riuscirà effettivamente ad “entrare” aprendo il varco a nuove rivelazioni.
Anche ne La casa dei doganieri3 la possibilità del varco è presentata nella forma interrogativa che ne ribadisce l'incertezza o la rara probabilità.


Il varco è qui? (ripullula il frangente

ancora sulla balza che scoscende)4


Già negli Ossi di seppia5 la rivelazione (“miracolo”) era presupposta nella forma ipotetica del forse:

Forse un mattino andando in un'aria di vetro

vedrò compiersi il miracolo. Il nulla

alle mie spalle, il vuoto dietro di me6


Ma se l'esito della ricerca è così incerto, e il suo oggetto forse indicibile (“il nulla”, “il vuoto”) ciò che rimane è ancora il gesto: testimonianza della ricerca stessa come puro atto umano. Conoscitivo, etico, creativo. Questo tipo di gesto esprime “se stesso e non altro”: ciò che lo muove non è la speranza di un risultato o la trasmissione di un chiaro messaggio, ma una “passione” disinteressata: la stessa che spinge il frangente al moto perpetuo contro la parete rocciosa della costa7. Sarà pur sempre “andando” che il “miracolo” potrà forse compiersi. Ed è quello di andare il gesto che “rimane”8: continuare quella ricerca, quel lavoro senza fine a cui il poeta (e in assoluto l'uomo) è destinato nel ventaglio infinito delle possibilità del caso, nella prevalente vacuità di ogni segno, nell’apparente insensatezza dell’esperienza.
La forza di Dora Markus che riesce a resistere nel “lago d'indifferenza” del suo cuore9 è probabilmente la forza che il poeta dovrebbe avere: quella di non  cedere a nessuna comoda via di fuga ma di rimanere “tra le mura pesanti che non s'aprono”,10 in quel “lago d'indifferenza”, nel bel mezzo dell'“arduo nulla” della realtà. È questo che rende “leggenda” l'esistenza umana, come quella di Dora Markus. Contemplare l'amarezza della vita, resistere stremati come lei che, da questo punto di vista, sembra oggettivare l'ispirazione poetica stessa nel componimento a lei intitolato. La “fede feroce”11 è una questione poetica ed esistenziale. Un sentimento ostile (“feroce”), arduo da sostenere ma in grado di “distillare” (che qui intendo come “setacciare”, “purificare”) persino il “veleno”12, il male connaturato all'esistenza.
“Voce, leggenda o destino” non si possono mai cedere e solo nel poeta, nella sua “fede feroce” di coltivarle sta la più grande possibilità di salvezza in quel “vuoto” dell’esperienza incompresa e indicibile, nell’assenza di rivelazioni assolute. È più che altro l'impegno e l'incessante lavorìo di tutto un bagaglio intellettivo ed emotivo sempre momentaneo e irripetibile13 accompagnato da quella cieca fede a creare l'”occasione” di riscattare quel vuoto attraverso il gesto che lo “misura” e “ne sonda il confine”.
E proprio dal vuoto e dal nulla prendono le mosse Le Occasioni di Montale, il cui primo componimento (Il balcone14) esordisce con questa straordinaria rivelazione:


Pareva facile giuoco

mutare in nulla lo spazio

che m'era aperto



La limitatezza dell'esperienza e del linguaggio in un “facile giuoco” può ribaltare in un nulla uno spazio aperto, precludendo le infinite possibilità celate in quello stesso spazio. La rivelazione del nulla come spazio aperto è un'epifania rara in Montale. Un'epifania che non può che mettere in moto quella ricerca che ho già evocato prima: una nuova esperienza emotiva, conoscitiva ed espressiva.


Sull'arduo nulla si spunta

l'ansia di attenderti vivo



A innescare la ricerca sembra sia una cieca spinta di eros: l’istinto creativo legato a un inestirpabile principio vitale che possiede la forza naturale di resistere anche all'“arduo nulla”, anzi di farci scampare dalla sua morsa paralizzante.
L'ansia è da ricondurre allo stesso istinto creativo, a quello che, in altri versi qui studiati, Montale ha chiamato “fede feroce”, “passione di sempre”. Una forza continuamente rinvigorita da quel “tardi, sempre più tardi” in Dora Markus che richiama il paradigma proustiano: l'arte è lunga e la vita è breve. Pur nell'“arduo nulla”, pur nell'attesa (“attenderti”) di ciò che nel contingente è quasi sempre latente o assente, è quel “vivo” che ha il sopravvento. Montale, pur avendo perso una persona tanto amata, non sceglie il suicidio né il silenzio del lutto. Sceglie di rimanere vivo ad attenderla.
La vita è pur sempre la condizione di condanna e di ricerca del poeta, e l’attesa non è solo la ben nota condizione passiva: come sappiamo “attendere” in italiano significa anche servire.
In quell’“attenderti” che racchiude entrambi i significati di “aspettarti” e “servirti” si può forse cogliere un senso più completo del “gesto” al quale prima ho accennato. Quella natura insieme attiva e passiva della creazione poetica. Quella capacità auspicata da Baudelaire di poter essere simultaneamente “il coltello e la piaga”. “Attenderti” è quel gesto con cui il poeta si pone tra il nulla dell'esperienza quotidiana e la vita, su quella “soglia” o “balcone” o “finestra” che abbraccia allo stesso tempo il dentro e il fuori, se stesso e l'altro. Così, anche il tono soggettivo della confessione personale (“ora a quel vuoto ho congiunto”) lascia il posto alla nuova voce dell'ultima strofa che si articola in seconda persona.


La vita che dà barlumi

è quella che sola tu scorgi.

A lei ti sporgi da questa

finestra che non s'illumina. 



Se – come è tipico in Montale – la sola forma di vita è come una luce quasi impercettibile (“la vita che dà barlumi”), essa si può scorgere solo grazie all'intercessione di quel “tu”: in quel sottile squilibrio tra luce e buio (“barlumi” VS “non s'illumina”), tra lontano e vicino (“quella” VS “questa”), nel quale l'Io negandosi inizia ad affermare l'Altro, così come il lume dentro la propria finestra non accendendosi permette forse di intravedere fuori un barlume, un'altra luce. 
Il vero gesto della poesia di cui abbiamo qui provato a seguire le tracce si compie quindi in quello slancio fermo dello sporgersi nel quale slitta il punto di vista e l’Io non più chiuso e centrato in se stesso si ribalta emozionato nel Tu. “La vita che dà barlumi” non è dunque soltanto la sola che si scorge, ma anche quella che non si può scorgere senza quel “tu”, senza che l’Io si sbilanci verso l’Altro, cui quel pronome personale “lei” dona parvenza umana.  

 

 


 

 

1) E. Montale, Carnevale di Gerti, Le Occasioni 1928-1939 a cura di Dante Isella, Einaudi, Torino (1996), pp. 35-37, vv.55-67.
2) E. Montale, Le Occasioni III.II, Ibid., pp. 109-110, vv. 33-40.
3) E. Montale, La casa dei doganieri, Le Occasioni 1928-1939 a cura di Dante Isella, ibid., p. 114.
4) Ibid.,p. 117, vv. 19-20.
5) E. Montale, Ossi di seppia, a cura di P. Cataldi e F. d'Amely, Mondadori, Milano (2003).
6) E. Montale, Forse un mattino andando, Ibid., vv.1-3.
7) Mi riferisco a quanto evocato ne La casa dei doganieri ai vv. 19-20 già citati più sopra: “(Ripullula il frangente / ancora sulla balza che scoscende)”.
8) Della già citata Le Occasioni III.II, Ibid., p. 109, invito alla rilettura di “E il gesto rimane.”, v. 33.
9) E. Montale, Dora Markus, I., Ibid., p. 45, vv. 22-24.
10) Ritorno qui su Carnevale di Gerti, Ibid.
11) Dora Markus, II., Ibid., p. 49, v. 30.
12) “Distilla / veleno una fede feroce.” Ibid., vv. 29-30.
13) E. Montale, Le Occasioni III.II, Ibid., vv. 36-38.
14) E. Montale, Le Occasioni 1928-1939 a cura di Dante Isella, Einaudi, Torino (1996), pp. I-2



N.B.:
Opere pittoriche le cui immagini sono a corredo dell'articolo: Ritratto di Eugenio Montale (Guido Peyron); Autoritratto (Eugenio Montale); Ritratto di Eugenio Montale (Ottone Rosai); Ritratto di Eugenio Montale (Renato Guttuso); Ritratto di Eugenio Montale (Galeazzo Viganò).
In copertina: Ritratto di Eugenio Montale (Gabriele Donelli; part.)

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