“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 31 January 2016 00:00

Quella volta che Ammaniti ha descritto l’Apocalissi

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Di Ammaniti si sono dette molte cose: che ha cannibalizzato la letteratura degli anni Novanta, fagocitandola in una pavida commistione di realismo e fantascienza; che è emerso dalla polpa dei libelli di scarsa qualità di origine americana, proponendo storie dalla lettura agevole, che spesso però raccontavano di scene truculente, in cui copiosi fiotti di sangue dalla consistenza sintetica finivano per imbrattare quelle paginette usa e getta.

Di Ammaniti si è detto anche che ha un grande talento nel raccontare: sebbene infatti i contenuti – soprattutto quelli degli esordi – non incontrino i favori di tutti, il modo attraverso cui egli costruisce l’ordito dei suoi romanzi fa da sprone alla lettura. Ammaniti ti cattura, ti getta tra le fiamme dell’inferno che egli stesso ha costruito: un Ade spesso morboso e posticcio, in cui le stranezze umane finiscono per diventare un modus vivendi privo del confronto con la normalità.
Nel suo ultimo romanzo dal titolo spaventosamente banale, Anna, lo scrittore ci pone di fronte ad un mondo che di scontato però non ha più nulla. Fin dalle prime pagine, il lettore si trova scaraventato in una Sicilia post-apocalittica, in cui brancola, smarrito, tra i supermercati dalle saracinesche sbarrate, tra le case distrutte e lungo le autostrade annerite dagli incendi. Il suddetto lettore non capisce cosa mai stia leggendo: insomma, è la Sicilia o non lo è? È un romanzo realistico o non lo è? Che diavolo c’entra un nome così normale come Anna con questo marasma infuocato? E, soprattutto: che fine hanno fatto tutti gli adulti?
Con questi presupposti Ammaniti erige una storia appassionante, ricca di colpi di scena, di grandi gioie come di grandi dispiaceri. Si tratta, a mio avviso, di un romanzo estremamente ricco, non solo di argomenti, ma anche di sfumature degli stessi. C’è una controversa commistione tra nostalgia e rifiuto degli agi e dei costumi del mondo contemporaneo, andato distrutto a causa dell’epidemia che, dopo aver ucciso tutti gli adulti, resta lì acquattata, pronta a ghermire i bambini che si affacciano sulla soglia dell’adolescenza. Molti di questi bambini ricordano la spensieratezza e la comodità dei giorni in cui gli adulti compravano loro vestiti, portavano loro da mangiare e li proteggevano con la loro premurosa presenza. Altri, invece, sono troppo piccoli per ricordare un mondo diverso da quello in cui sono costretti a barcamenarsi. C’è quindi un doppio strato narrativo: il primo è dato dalle azioni e dalle sensazioni quasi bestiali che permettono a questi bambini di sopravvivere in una terra in cui le risorse sono destinate a esaurirsi e dove l’altro è spesso visto più come una minaccia che come un aiuto; l’altro strato, invece, è quello retrospettivo, che guarda cioè al passato come qualcosa da emulare. Un passato come modello per l’educazione dei bambini più piccoli e come alcova in cui rifugiarsi nei momenti bui, aiutati magari da un mezzo così da adulti come gli alcolici.
Inutile specificare che i protagonisti di Ammaniti sono, ancora una volta, dei bambini; anzi, in questo caso, ci sono solo bambini. Ed è curioso notare che chi tra loro agisce secondo dinamiche proprie del mondo degli adulti – stabilendo gerarchie all’interno dei gruppi, per esempio, o manipolando e ingannando al mero scopo di ottenere un guadagno personale – viene identificato subito come un nemico, qualcuno da cui stare alla larga.
Si vengono a stabilire delle situazioni che, in parte, ricordano Il signore delle mosche di Golding e, dall’altra, teorie filosofiche sullo stato di natura che fanno capo nientemeno che a Hobbes.
Sembra altresì di percepire le influenze del padre psicologo nella caratterizzazione dei piccoli protagonisti, soprattutto in comportamenti che fanno capo a teorie di chiara matrice freudiana. Come sembra di sentire il caro, vecchio, pulp, soprattutto nei passi legati agli effetti dell’epidemia; l’unica differenza è che il pulp in senso stretto non era che violenza mostrata a sproposito, gratuita, finalizzata solo a scioccare, mentre ora questa stessa violenza è finalizzata alla narrazione. Non c’è più quell’indugiare quasi morboso sui dettagli infimi dell’umano decadimento; qualora si presenti un’occasione ghiotta, dal punto di vista narrativo, Ammaniti ne approfitta stando ben attento a far rientrare il tutto nella metrica della narrazione. Probabilmente è maturato, chi lo sa.
In ogni caso, qualsiasi filtro interpretativo si voglia indossare, Anna è un gran bel romanzo, da leggere soprattutto per il piacere di lasciarsi trasportare, ancora una volta, dalla voce affabulatrice di Niccolò Ammaniti.

 

 

 

 


Niccolò Ammaniti
Anna

Torino, Einaudi, 2015
pp. 274

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