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Tuesday, 19 January 2016 00:00

Murakami: le latitudini letterarie del pianeta che si avvicinano

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Con il 2015, vi ho tormentato con ruggini, strade, fiumi dannati e mostri onanisti. Insomma, il mondo letterario nord-americano. Concludendo, alla fine del mio viaggetto, che gli Stati Uniti, criticabili per tanti aspetti, vantano scrittori-anticorpi che il peggio te lo sbattono in faccia senza remore. Alcuni si spingono molto in là, superano la diagnosi e offrono strumenti di auto-terapia.

Quest’anno devo ancora decidere se spostarmi di qualche meridiano verso ovest, rispetto alla costa californiana. Resta il fatto che "una volta avevo una ragazza o forse dovrei dire che era lei ad avere me". Così cantavano i Beatles in Norwegian Wood. Dopo questa canzone, per una generazione di lettori di tutto il mondo dire bosco norvegese non ha significato evocare conifere e fiordi fiabeschi ma un rapporto giovanile apparentemente senza grandi conseguenze se non una lieve tristezza che si sprigiona al ricordo di un incontro.
Così, mi sono imbattuto nel libro che ha preso a prestito il titolo di quella canzone. Il romanzo di Haruki Murakami, uscito nel 1987, che divenne subito un caso letterario. E ho trovato una sorpresa. I giapponesi, gli orientali in generale, hanno uno stile di scrittura che non riesce e conquistarmi. Parlo degli scrittori. Invece Murakami, che scopro adesso nonostante la fortunatissima trilogia 1Q84, è per fortuna molto occidentale.
Norwegian wood è la storia dell’amore impossibile tra un ragazzo e la fidanzata del suo migliore amico morto suicida, narrata per flashback sullo sfondo di anni tumultuosi. Mentre il ragazzo tenta di salvare questo rapporto, soluzione che passa attraverso la stessa guarigione psico-fisica della ragazza, incontra una compagna di corso universitario e si divide sentimentalmente. Anche verso quest’ultima sente qualcosa, nonostante la tipa sia veramente di difficile gestione: malinconia, incertezze, disagio sociale, vita che non riesce a fare a meno della morte. Attraverso questa cifra contenutistica, Murakami ne svela anche una stilistica che lo impone come riferimento letterario.
Come il personaggio maschile principale di questo libro, Tōru Watanabe, l’autore è passato attraverso un apprendistato inusuale: jazz, drink, amore-odio per l’università. Sarà proprio questa formazione a dare a Tōru una grande sensibilità a fior di pelle, l’affettuosa ironia e una profondità che si traduce nell’amore necessario: l’unica via d’uscita possibile per sopportare il mondo. L’intreccio narrativo di Murakami, qui immagino meno complesso che altrove, è comunque denso di citazioni, oltre che musicali, anche letterarie. E tutte rimandano a riferimenti europei, cosa gratificante per uno come me che crede nella occidentalità del romanzo.
Non voglio dire che Murakami abbia compiuto un atto di pentimento, che sia andato a chissà quale Canossa. Diciamo che ha scelto un suo modo e ha sdoganato la letteratura del Giappone verso lidi familiari. Il rovescio della medaglia è che noi abbiamo potuto conoscere una gioventù molto similare, che si affida alla tragedia greca e a un quartetto di Liverpool piuttosto che ai miti dei samurai o dei kamikaze.
Come nell’Ottocento scoprimmo il Giappone grazie alla carta da imballaggio che nelle stive delle navi europee in partenza dall’Oriente ricopriva le casse e le merci, carta che era costituita dalle raffinate stampe nipponiche, Murakami ci ha detto che il processo di avvicinamento fra le latitudini del pianeta è ancora in corso. Che desidera interromperlo non dovrebbe essere iscritto all’ordine del giorno.

 

 

 

 

Haruki Murakami
Norwegian wood (Noruwei no mori)
traduzione Giorgio Amitrano
Torino, Einaudi, 2006
pp. 376

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