“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 03 March 2013 14:38

La vita è proprio una brutta bestia (parte III)

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Sarebbe difficile raccontare e motivare la passione che Gennaro o’ scemo provava per i piccioni ma sarà sicuramente più semplice mostrare come quella passione fosse un altro dei motivi di attrito con il quartiere. Non c’è animale (e per molte persone è già tanto chiamarli così) che provoca più disgusto, orrore e schifo del piccione, “sti zoccole con le scelle”, gli diceva la signora Assunta, “ma come ti fanno a piacere?”.

Gennaro o’ scemo li guardava invece incantato, rapito da ogni loro gesto o movimento, letteralmente estasiato da quei colori di smeraldo e rubino che spesso si possono osservare nella livrea maschile, e così rimaneva ore a osservarli, lì affacciato a quella finestrella che dava sulla strada, li osservava per ore e sentiva un calore che gli saliva nel petto quando li vedeva sbocconcellare qualcosa a terra o li osservava mentre con il minuscolo becco facevano toilette sui cornicioni di fronte. Ma quello che amava di più di quelle creature erano le ali, non che Gennaro o’ scemo comprendesse metafore complesse come la libertà o il fuggirsene via, il suo era un amore senza parole e superficiale, ma non in senso negativo, era superficiale semplicemente perché si realizzava nel contatto ed era come se egli non sentisse il bisogno (i più maligni e accorti direbbero: non fosse in grado) di penetrare in quella profondità esistenziale della quale noi esseri umani normali non riusciamo a fare a meno e nella quale dimoriamo e lasciamo dimorare le nostre sensazioni trasformate in pensieri e parole, con lo sguardo lui semplicemente sfiorava le ali di quegli esseri e quegli esseri semplicemente gli comunicavano qualcosa di bello ma senza nome, qualcosa senza bisogno di nome, qualcosa che in maniera pura e semplice lui sentiva su di sé, sentiva nelle mani, sentiva lungo il corpo, sotto la pelle e nel cuore. Gennaro o’ scemo non sentiva il bisogno (i più maligni e accorti direbbero: non era in grado) di trasformare le emozioni, le sensazioni e le passioni in parole, non possedeva questo vizio umano troppo umano della razionalizzazione a tutti i costi, a lui bastava soltanto (ma il verbo “bastare” vale dalla nostra prospettiva di esseri umani normali e razionali, ma non valeva certo per lui che invece sentiva una pienezza vitale traboccante) quel contatto e quell’emozione, le parole proprio non gli servivano a nulla (e così non riusciva a motivare, a chi continuamente lo aggrediva, perché quelle bestie schifose gli piacevano), perché era semplicemente vita, era nella maniera più semplice possibile un modo di vivere la bellezza e la forza vitale.

Ma tutto questo non poteva essere facilmente accettato. Gennaro o’ scemo usciva tutte le mattine dal suo basso e dopo aver lasciato il pane a spugnare per tutta la notte, lo spappolava e lo lasciava sotto la parete del palazzo di fronte (si tratta del retro di una scuola elementare), dopodiché rientrava in punta di piedi e osservava dalla sua finestrella sul mondo l’arrivo dei piccioni (che sui cornicioni attendevano impazienti che lui si allontanasse), e il loro becchettare, il loro lottare ben gonfi per ottenere il pezzo migliore, le loro danze di accoppiamento quando ormai sazi potevano dedicarsi all’altra loro attività fondamentale, l’accoppiamento, tutto questo rappresentava allo stesso tempo uno dei momenti più belli della sua giornata e uno dei momenti in cui veniva maggiormente odiato dalla gente del quartiere. Un giorno infatti si decise di agire con la forza, e così un gruppo di una decina di mamme inferocite si diede appuntamento per piombare minacciosamente a casa di Gennaro o’ scemo e intimargli di smettere con quella cosa, e così, con voci roche e feroci (all’inizio Gennaro o’ scemo tremava, poi cominciò a piagnucolare), gli gridavano contro che lui non capiva niente, che non capiva che quelle bestie portano malattie e che dovrebbero morire tutte quante, che loro la mattina passano di lì per portare i figli a scuola e che non si doveva più permettere di mettere il pane proprio in quel punto, che non sapevano più che fare, gli dovevano forse fare una faccia di paccheri?, che certo gli volevano ancora bene, che tutti nel quartiere gli volevano bene proprio perché era fatto così, ma lui faceva queste cose sbagliate e così nessuno gli voleva più bene, e loro che avrebbero potuto fare?, dovevano lasciare i propri figli a camminare in mezzo alla merda di piccione?, che parlasse lui, che dicesse lui qualcosa, se gli sembrava normale una cosa del genere, e che però speravano anzi erano sicure che lui aveva capito perché era proprio un bravo bambino e che subito gli avrebbero portato un po’ di spesa e qualcuna di loro gli avrebbe cucinato qualcosa per la sera.

E Gennaro o’ scemo aveva capito bene e dopo averci riflettuto per giorni, intere giornate in cui i piccioni si aspettavano qualcosa da lui lì sul cornicione di fronte e fissavano l’ingresso del basso per ore – e quello sguardo e quel muovere a scatti le minuscole teste verso la sua direzione facevano di tanto in tanto scoppiare in lacrime Gennaro o’ scemo, ebbe un’idea eccezionale nella sua semplicità, da quel momento il pane non lo avrebbe più lasciato sul marciapiede di fronte dove passano le mamme che portano a scuola i figli, ma lì su quel pezzetto di strada davanti al suo basso, in maniera tale che non avrebbe dato fastidio a nessuno e si sarebbe goduto i piccioni ancora più da vicino. Era già il periodo in cui Eduardo si era trasferito a casa sua e quando, pur essendo Gennaro o’ scemo ormai in preda a un’emozione che lo faceva tremare tutto e a un’euforia che non gli permetteva di farsi capire bene, gli raccontò il suo progetto, il suo amico punkabbestia lo abbracciò e gli disse che era stato veramente bravo e che aveva avuto proprio una bella idea, e che se voleva poteva anche lasciare la porta del basso aperta e fare entrare i piccioni in casa (nel momento esatto in cui Gennaro o’ scemo sentì questo suggerimento cominciò a saltellare di qua e di là e a emettere gridolini di piacere). Eduardo andava sempre di più affezionandosi a quell’uomo semplice e oramai sentiva di poter condividere con lui una fetta della sua esistenza, sentiva di potersi dare completamente a quella amicizia – ed Eduardo non si poneva mai il problema dello scorrere del tempo e soprattutto della durata di una cosa, pensava semplicemente a vivere e quando poi quell’amicizia per un motivo o per un altro sarebbe finita, sarebbe semplicemente finita e ognuno per la sua strada – e così pensò che forse era giunto il momento di aiutare ancora più seriamente quell’uomo semplice che con tanta semplicità lo aveva aiutato invitandolo a vivere a casa sua. Eduardo pensò che quello era il momento giusto per seguire un suo piccolo sogno, fare il maestro di storia, Eduardo amava smodatamente la storia ed era profondamente contento della sua decisione, ma, per tutta una serie di motivi che vedremo a breve, non ne ebbe il tempo, proprio quando aveva ripreso tra le mani i suoi libri di storia antica e andava rileggendo Erodoto, Tucidide e Senofonte e cercava il modo migliore per presentare all’amico quella materia e per spiegargli il significato del fluire degli eventi, della Storia come ciò che produce il tempo e gli uomini e di come anche lui fosse un prodotto della Storia, il fatto che la Storia spesso produce residui, marginalità, esclusi e che sono proprio quei residui, quelle marginalità, quegli esclusi che dovrebbero trasformare la Storia e che lui stesso, Gennaro o’ scemo, potrebbe trasformare la Storia e il mondo, accadde un evento che gli avrebbe stravolto completamente i piani.

I problemi di Gennaro o’ scemo causati dalla sua eccessiva confidenza con i piccioni non si conclusero lì, comunque. L’idea che aveva avuto sicuramente gli permise di dedicarsi alla sua attività preferita senza più avere troppi problemi, ma la gente del quartiere continuava a vedere di cattivo occhio il suo rapporto con i piccioni e con il punkabbestia. E così alcuni ragazzini del quartiere, spinti dai fratelli maggiori, dai genitori, dai nonni, dall’intera comunità dei Quartieri Spagnoli, e dall’intera comunità dei Quartieri Spagnoli, dai nonni, dai genitori, dai fratelli maggiori sempre e comunque e a prescindere da ogni cosa difesi strenuamente qualsiasi cosa facessero, cominciarono un nuovo ed eccitantissimo gioco, sparare con i propri fucili pallini di gomma contro i piccioni, che stramazzavano al suolo, senza emettere alcun suono se non un piccolo e quasi impercettibile tonfo sordo, a volte anche bagnando il selciato lercio e sporco di salita Montecalvario con un caldo rivolo di sangue rossofuoco, dimenando i colli e le teste per qualche attimo ancora, ultimi spasmi incoscienti, per poi ritorcere il collo che si allungava e spirare dopo alcuni attimi di crescente agonia, e i bambini (che intanto ridevano ferocemente e si spintonavano e gridavano e non stavano nella pelle per il gesto che avevano compiuto o dovevano compiere e i più piccoli che supplicavano di poter sparare e i più grandi che glielo impedivano promettendo che poi quando cresceranno anche loro potranno e le bambine che si affacciavano curiose alle spalle dei maschietti e che volevano partecipare e sparare anche loro perché è bello sparare e i maschi che le tenevano lontane e le spingevano via e le buttavano per terra e le femmine che cercavano di strappare i fucili ai maschi e allora poi c’era chi picchiava qualcuno, chi allora piangeva, chi urlava di rabbia, chi si azzuffava e chi si faceva male a un braccio o a un ginocchio e così dovevano correre a volte le donne del quartiere menando paccheri a destra e a manca – in poche parole era tutta una eccitazione) lo facevano sempre mentre i piccioni mangiavano sotto il basso di Gennaro o’ scemo o attendevano sul cornicione muovendo le testoline o facevano toilette mentre Gennaro o’ scemo preparava il pane e lo spargeva a terra, comunque sempre quando Gennaro o’ scemo poteva vedere con i propri occhi quanto fosse semplice porre fine a una vita, che bastava un piccolo pezzetto di gomma per uccidere, per stroncare un’esistenza, e così mostrargli magari quanto fossero inutili i piccioni. Fu in quel momento che Gennaro o’ scemo si rese conto che non esisteva soltanto la vita, cioè l’essere vivi, il fare tante cose, ma anche la morte, cioè l’essere morti, il non fare più nulla, l’essere un pezzo inutile di carne marcescente, e che la morte era una cosa assolutamente incomprensibile, un attimo prima si è vivi, si becchetta per terra, ci si scontra per il prestigio e le femmine, ci si accoppia, si fa toilette, e il momento successivo si diventa soltanto un piccolo ammasso informe e senza senso. Eduardo non vide mai Gennaro o’ scemo piangere come quando gli uccidevano i piccioni, ripeteva soltanto “p-perché?” e Eduardo gli rispondeva semplicemente “la vita è proprio una brutta bestia”.

Anche Eduardo era oggetto di queste speciali attenzioni da parte dei bambini dei Quartieri, una volta dovette addirittura correre di pronto soccorso per farsi fasciare un occhio perché quei pallini di gomma fanno veramente male e quei bambini hanno veramente una mira eccellente, ma quell’uomo bello, forte, sicuro e che la strada la conosceva fin troppo bene, e che spesso la sporcizia della vita aveva incontrato, sapeva difendersi in modo appropriato, senza commettere atti che avrebbero messo a repentaglio se non la sua vita perlomeno la possibilità della sua permanenza in quella zona, senza mai mollare neanche un ceffone a quei bambini, senza mai gridargli contro nulla, e così riuscì piano piano a conquistarseli, cosa che faceva andare in bestia tutte la gente del quartiere, e lo faceva soltanto per una sua curiosità antropologica, mostrare come non si nasce mai bestie, ma lo si diventa, e che basta poco quando si è bambini per tornare ad essere umani, ma che probabilmente quando si cresce ci vuole ancora meno per tornare ad essere bestie. Eduardo era amato e odiato dal Quartiere allo stesso tempo. Certo si dava da fare e, quando c’era da aiutare qualcuno, aiutava sempre e con il sorriso, era forte, poteva scaricare pacchi, dare una mano nei traslochi, accompagnare le vecchine a fare la spesa, e non chiedeva mai una mancia, se la riceveva ringraziava di cuore, se non la riceveva salutava con un sorriso, e poi suscitava tanta curiosità, i tatuaggi, i piercing, la sua voce baritonale, la sua pronuncia italiana perfetta e la sua ancor più perfetta pronuncia dialettale, e il fatto che citava continuamente poeti stranieri ma anche Di Giacomo o De Filippo incuriosiva tutti e c’era chi si stava quasi affezionando a lui, ma era pur sempre un corpo del tutto estraneo nei Quartieri, non apparteneva a quel territorio, non apparteneva a quella comunità, non apparteneva a quell’habitat, insomma era a metà strada tra un fenomeno da baraccone e un’attrazione da zoo, era guardato con simpatia e contemporaneamente con sospetto, se ne parlava bene ma un momento successivo si poteva dire il peggio di lui. In poche parole Eduardo era amato e odiato allo stesso tempo, cosa oltremodo comune e modalità relazionale quanto mai diffusa nella comunità dei Quartieri Spagnoli.

Ma tutto cambiò all’improvviso quando un giorno di settembre arrivò di corsa la signora Susi, vestì di tutto punto il fratello (gli aveva comprato un bel vestito da Fusaro che gli cascava un po’ ma che gli dava così l’aspetto ancor più di un ritardato), lo portò con sé dicendo che, dove sarebbero andati, lui doveva fare la parte dello scemo, e quando Gennaro o’ scemo le chiese “c-come?”, Susi rispose “bravo! proprio così”, insomma gli era stata accordata la pensione di invalidità e gli erano stati accordati gli arretrati di svariati anni, soltanto qualche firmetta per sistemare la cosa e la signora Susi sarebbe entrata in possesso, in quanto tutore del fratello, di varie decine di magliaia di euro, quel fratello inutile finalmente era servito a qualcosa, e la signora Susi già sognava vacanze che non si era mai concessa e spiagge assolate e palme e servi e un mare cristallino, già immaginava di rimodernare la sua vecchia casa, di comprare mobili nuovi, di aggiustare la camera della figlia, di rifare gli infissi e poi qualche gioiello per sé e una macchina nuova per il marito, del resto “che ne dobbiamo fare di sti soldi, portarceli nel tavuto?” diceva a Gennaro o’ scemo che intanto rideva di gusto. L’unico problema a cui la signora Susi non aveva pensato subito ma che poi le avrebbe dato molti problemi, e che era una cosa di non poco conto, era il fatto che gli altri fratelli e sorelle (erano in tutto sette compreso Gennaro o’ scemo) avrebbero di certo richiesto la loro parte del bottino e che sarebbero stati disposti a qualsiasi cosa pur di ottenerla, la famiglia è sacra a Napoli, ma la robba e il denaro a volte lo sono ancora di più. 

Comunque queste erano più o meno le attività fondamentali di Gennaro o’ scemo. Non ci soffermiamo più sulla sua giornata-tipo perché il resto del tempo lo trascorreva facendo poco o nulla.

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