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Tuesday, 15 December 2015 00:00

La bellezza, le parole, la storia

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Non c’è niente di più bello, forse, di quell’arte che si dichiari da subito libera, indipendente, mal disposta nei confronti del potere che vorrebbe fagocitarla e direzionare il suo corpo nel senso sporco del mero interesse. È un’arte attenta alla sua missione, esiste per se stessa, priva di pesi teleologici, contiene bellezza e quella particolare luce che le deriva dall’immobilità di un’idea. In fondo c’è spazio per una sola intenzione nella composizione di un’opera, ed è quella dell’artista, il suo mondo e le sue suggestioni, i principi e la sua esistenza sono la sola forza che permette il compimento di un’eredità senza testamento, poiché, in questa visione delle cose, è impossibile cercare una religione che abbia ispirato l’esecutore.

L’arte stessa è una religione, una sacra icona dalla doppia natura: ideale ed estetica, come l’uomo. La bellezza è un’idea, certo, ma non vive in una dimensione iperuranica, si fa immagine e verbo, assume una forma, discende dalla sua altezza e fissità tra gli uomini e si manifesta, si lascia ricreare ogni volta, modellare e affiggere, è una creatura tra le più benigne poiché rinuncia al paradiso per giocare con noi sulla terra. Insozzarla sarebbe un reato imperdonabile, un atto di ingratitudine, una codardia che non possiamo permetterci. Nonostante ciò, facendosi umana tra gli umani, assorbe di conseguenza gli umori del mondo, i sentimenti bruschi e genuini di chi le dà spazio, carica su di sé il meglio e il peggio, la sensualità che ci rende animali intelligenti, aggraziati e spesso bestiali. La seconda vita dell’arte, della bellezza e dell’uomo sta tutta nel risvolto sensibile delle sue qualità, in quell’orlo largo che mostra quanto la specie umana sia impressionabile, suscettibile ai segnali materiali prima che a quelli celebrali. L’arte non nasce mai come denuncia, ma può spesso diventarlo, questo per il semplice fatto che, ad oggi, costituisce ancora il miglior termine di paragone con l’alienazione delle scelte umane.
È un richiamo dal fondo, con la sua spaventosa neutralità sovrintende a qualsivoglia etica, a qualsiasi orrore, le leggi morali in lei sono superfici semplici o complesse, si guadagna l’attenzione di tutti non con la malia della sua bella anima, ma con il potere perverso delle arbitrarie curve. L’arte è una Dea potentissima, con la voce di una sirena alla quale è impossibile dire di no. Se perdiamo il lume della ragione, se dimentichiamo l’esecutore materiale con tutte le sue nefandezze o grandiosità, se perdoniamo l’assassino che ha creato la bellezza è solo perché essa possiede il più alto valore, al di sopra degli uomini, eterna, voce del profondo, ma padrona della sua dimensione una volta nata. Questo è il tema che ossessiona la mente sconvolta del protagonista de Le parole, un poeta francese nel pieno della Francia occupata, testimone di uno sterminio da parte di una schiera di uomini delle SS. Luc, il nome del poeta, è nascosto in soffitta, sente le urla di strazio provenienti dal paese, case in fiamme, colpi di fucile, bambini che urlano, lo scalpitio sommesso della gente che fugge, ancora i colpi sordi di una canna di fucile che raggiunge le urla e le spegne, come un ammonimento eterno. Un eccidio realmente avvenuto in quegli anni, che turba lo scrittore francese Vercors e lo costringe a parlare, a scrivere questo brevissimo racconto, con la vocazione di una parabola. Luc nel pieno della devastazione, dello sciacallaggio, nel cuore del sopruso, della prevaricazione dell’uomo sull’uomo, avverte lo sfacelo di tutte le verità, l’inutilità della purezza e del purismo, la chimera della fede, eppure non può fare a meno di deliziarsi della bellezza prodotta su tela da un soldato intento a dipingere, lontano dall’inferno, mandante di quell’inferno.
Il soldato dipinge, la natura con la sua grazia e la sua brutalità ha dato vita a un paesaggio mozzafiato, un sublime inimmaginabile, lontano dalla più fervida fantasia; tutto questo viene ritratto, prende vigore su quella tela che nel placido mondo bucolico, appena disturbato dall’eco della morte, ispira un assassino. Luc è nel parossismo di due calci sonori assestatigli in pieno viso, la sconfitta di un’intera specie vivente da una parte, la sconvolgente bellezza della tela dipinta dal burocrate malvagio dall’altra. Qui comincia la riflessione del poeta e dello scrittore, la storia è il foglio più grande sul quale, a turno, abbiamo tracciato la nostra personale opera, ha proporzioni abnormi, è carico di scelte cromatiche ombrose. Arriva un momento in cui è necessario che la ragione, accompagnata dalla parola, ridisegni i percorsi della civiltà, del comune senso della vita, è il Kairos del riscatto. L’intellettuale ha l’obbligo di distogliere lo sguardo da ciò che è luce incorrotta per gettarsi nelle tenebre, nel luogo più oscuro del pianeta: la cieca indifferenza di un uomo. Lo scrittore deve scendere sulla terra, abdicare al trono della sua religione, affilare gli artigli e condannare, urlare, spargere il dissenso, rivelare lo stato di degrado in cui versa il genere, scrivere di quanto sia inutile progettare la più bella delle forme, declamare i più sonori versi, suonare la più incantevole musica, se con la più indifferente sordità un uomo è oggi capace di spegnere il fuoco della vita in un suo simile. Per ritornare, domani, all’espressione artistica non come seguaci senza vista, ma come consapevoli fruitori di quel bello che non teme la ruvidezza delle vicissitudini umane, anzi le contempla. Perché se anche la bellezza ferisce, non può uccidere.

 

 

 

Vercors
Le parole
a cura di Frediano Sessi
Genova, Il Melangolo, 1995
pp. 84

 

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