“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 27 February 2013 15:56

Voce di dentro

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Si inizia con un sospiro rarefatto che diventa sempre più denso, secca è poi la Voce che sentenzia una verità tutta interiore. Nella psiche umana ci sono i motivi reali delle decisioni, nel profondo dell’umano si celano gli impulsi rimossi, che una volta saltati i meccanismi inibitori, esplodono in flusso di coscienza incontrollato. Si avverte l’esigenza di realizzarsi pienamente, di riappropriarsi di un passato per dirigersi verso il futuro, ma il passato è “solo il tempo che credevi tuo” e le aspettative scolorano in futuro che è un nodo inestricabile.

Il tempo, risolto nell’eterno presente, nullifica ogni potenziale movimento e sembra di essere in un mare di piombo, che è il mare della vita, dove pur remando con tutte le proprie forze, si finisce con il fare naufragio. Tutta l’umanità è imbarcata su una nave e ai passeggeri, come non mancava di notare Ibsen, sembra non mancare nulla, ma c’è un cadavere nella stiva. Il cadavere, ovvero la morte, è l’orizzonte in cui si staglia la vicenda esistenziale di ciascuno, ma è anche, come ci comunica la Voce del proprio spazio mentale, la dignità calpestata nell’operare quotidiano, è il male che siamo e che compiamo eclissato dietro una facciata di perbenismo.
Una facciata che Paolo Musìo rende tramite il precario equilibrio di chi, sospeso su un scala posizionata al centro del palcoscenico, mostra occhi sbarrati e persi “nei pensieri di morte che generano l’eterno dolore”. Occhi di coloro che, calati nel profondo di se stessi, sperimentano le vertigini degli abissi, rischiando di cadere. Il testo, recitato e interpretato da Musìo, è la rappresentazione di una voragine psichica dove non regna il principio di non contraddizione e i pensieri, schiusi dall’anima, si accalcano per invadere lo spazio circoscritto dell’io con il fine di esprimere il Sé autentico di junghiana memoria. Il personaggio che lo spettatore si trova davanti è, infatti, lo specchio della scissione della personalità dell’io che lotta con se stesso per rinvenire i processi che hanno bloccato il fluire continuo della vita, dissimulandone le imperfezioni e le lacerazioni. Ma la ricerca conduce al nulla eterno, ovvero “al silenzio dove corrono le parole”. Non serve più guardare verso l’alto, come quando ancora c’era una domanda a cui si sperava venisse fornita una risposta, non c’è più lo stupore e la riverenza per il kantiano cielo stellato sopra di noi, anche la morale è ormai “una speranza senza speranza” racchiusa “dentro i sogni di un morto”.
In un’atmosfera dai toni cupissimi, Musìo riesce a trasmettere un’angoscia potente, da cui lo spettatore non vede l’ora di liberarsi, perché più che invitare a meditare sul dramma della vita, sembra si voglia far toccare il fondo di un domani senza speranza. Per cui la lotta per la sopravvivenza, pur ritenuta essenziale, si risolve in un continuo urtare fra corpi che configgono per ritornare a respirare. Forse, parafrasando Jaspers, è la rassegnazione la via maestra per giungere alla pace; il silenzio in cui sprofonda la Voce non ci offre, infatti, alcuna giustificazione di ciò che esiste. Possiamo solo, in una sorta di autofinalismo, tenerci stretti ad un appiglio sperando che ci salvi.

 

 

Voce

testo, recitazione e regia  Paolo Musìo

produzione Idiòt

ideazione scenica  Thorsten Kirchhoff

suoni Bruno Franceschini

Caserta, Teatro civico 14, 25 febbraio 2013

in scena 25 febbraio 2013 (data unica)

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