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Wednesday, 04 November 2015 00:00

Il Tennessee di Suttree: antologia dell’inferno in terra

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I fiumi. Quanta letteratura è sorta intorno a essi. E prima ancora mitologia, religione. Civiltà. Ur dei Caldei, il Nilo. Dal Manzanarre al Reno, scrisse un romanziere. E un poeta, secoli prima, intra Tevere et Arno. Se vogliamo vedere i fiumi come viscere di afflizione non abbiamo che l’imbarazzo della scelta: i viaggi infernali, che siano greci o virgiliani o danteschi si articolano o originano da corsi d’acqua. Credo poi sia inutile insistere sul Giordano, dove venne battezzato il Nazareno, semmai ricordare che di fiumi sono tempestate le leggende scaldiche o precolombiane perché dobbiamo finirla di pensare che abbiamo inventato tutto dalle nostre parti.

Nell’Ottocento emerge dalla storia un accrocchio di ex colonie, soprattutto inglesi ma anche francesi e a un certo punto spagnole, che dà vita agli Stati Uniti d’America. Le nazioni, i popoli, in genere hanno due elementi fondanti: una guerra e un mito attorno al quale riconoscersi. La guerra, gli americani l’hanno combattuta fra di loro mentre come mito hanno individuato la frontiera. Per raggiungerla, i pionieri dovevano guadare corsi d’acqua mica di ridere. Prendete una cartina degli Usa e vedrete che a dividere le prime colonie orientali dalle grandi praterie dal Far West si trova un immenso bacino idrografico che parte dalla regione dei laghi e arriva al golfo del Messico. L’arteria principale è il Mississippi ma di vene il corpo ne contiene altre. Non a caso la prima letteratura americana è fluviale: Mark Twain, William Faulkner, Walt Whitman.
Mi spiace essermela presa comoda, ma per entrare dentro Suttree di Cormac McCarthy, dalla narrazione ruvida e dinamica, che dà spazio a un flusso di coscienza del tutto particolare, con alcune drammatiche sospensioni spazio-temporali a cui seguono i tentativi del protagonista di rientrare nei ranghi, era necessario dare spessore al senso di una geografia trasformata in icona: il fiume appunto. E nell’anno di grazia 1951, Cornelius Suttree vive in una baracca galleggiante sul Tennessee e lì passa le giornate. Uniche divagazioni: la pesca dei pesci gatto che cerca di rivendere al mercato e le sbornie con gli altri emarginati che formano la popolazione del quartiere di McAnally Flats, periferia marcescente e degradata di Knoxville.
Personaggio singolare, Suttree proviene da un ambiente diverso rispetto a quello dei suoi compagni di vita: un ambiente borghese che ha dato i suoi frutti, ovvero una moglie e un figlio. A un certo punto, questo tizio decide di trascinarsi volontariamente in una vita ai margini del mondo, mischiandosi agli ultimi, in un’America diversa, senza rock e auto sportive ma gravida di desolazione, povertà e violenza. Violenza che si riversa senza pietà proprio sugli abitanti di questo universo parallelo, costretti a fuggire e a rintanarsi come topi per non finire sotto le maglie della legge, che a McAnally Flats si traduce in pestaggi a opera della polizia e in sommarie carcerazioni dalle prevedibili conseguenze, soprattutto per chi ha la sfortuna di avere la pelle del colore sbagliato. Carino, no?
Abbiamo esempi vicini di gente che abbandona gli agi familiari per ridursi a stili di vita pauperistici. Francesco di Assisi. Ma a differenza di quest’ultimo, Suttree non scende fino a toccare i dimenticati per convertirli e risalire i gradini della santità. Anzi, il Suttree di Cormac McCarthy è un laico incallito che si fa natura e non dio. Se, infatti, la vita di questa corte dei miracoli scorre lungo il fiume Tennessee che si erge a silenzioso testimone, ora limpido ora limaccioso, ora quieto ora in piena, comunque indifferente alle vicende umane, anche Suttree pare quasi un osservatore esterno, uno scienziato che studia fatti e persone in modo asettico. È uno che sa di venire da fuori e che per essere accolto e rispettato dai derelitti non deve ergersi a maestro o predicatore, in virtù di origini, cultura o illuminazione sulla via di Damasco. Suttree è una lente non deformante, restituisce. Per gran parte del libro.
Poi però ha dei guizzi, perché i laici non sono francescani e dunque sanno che l’empatia non va manifestata sempre e per chiunque ma scelto quando centellinarla: Suttree si lascia incidere, condizionare, non dai fatti e dalle persone genericamente, ecumenicamente, intese ma da certi fatti e da certe persone.
La triste fine del gigante nero Ab Jones, massacrato dalla polizia, e l’inevitabile ritorno in carcere del folle Harrogate, un analfabeta squilibrato già finito dietro le sbarre per un motivo veramente squallido e che per tutto il romanzo s’ingegna in improbabili piani criminosi per arricchirsi, destinati naturalmente a fallire. Suttree oscilla fra Ab Jones e Harrogate, verso il primo proverà l’affetto di un figlio verso il secondo l’affetto di un padre. È solo quando si risolvono i legami con questi due, più che quando rischia di morire di febbre tifoide, perché in fondo la morte, perfino la propria, rientra nel nastro della registrazione, Suttree decide di svanire. Lentamente, come l’eroe di un western che si allontana verso il tramonto. Titoli di coda.

 

 

 

In appendice l'articolo precedente che Il Pickwick ha dedicato a Suttree di Cormac McCarty
Grazia Laderchi, Un uomo è tutti gli uomini (Il Pickwick, 24 agosto 2015)

 

 

 

 

Cormac McCarthy
Suttree
traduzione di Maurizia Balmelli
Torino, Einaudi, 2009 (1979)
pp. 560

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