“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 08 September 2015 00:00

Parigi è una festa mobile

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Ti ho visto, bellezza, e ormai tu mi appartieni, chiunque tu stia aspettando e anche se non ti rivedrò mai più, pensavo. Tu mi appartieni e tutta Parigi mi appartiene e io appartengo a questo taccuino e a questa matita”.

Parigi non si scrive, Parigi la si può cantare, come la più melodiosa delle sinfonie: vivace, scatenata, irriverente, addolcita dalla malinconia di un suono fluviale e impreziosita da mille luci, come sarebbe il palco sul quale un musicista intonerebbe il suo multiforme fiato.
Festa mobile fu l’ultimo libro di Hemingway, come a suggello di una vita piena di stravaganti avvenimenti, di terribili ricordi e ferite, di mari di alcool e tante donne, tra cui Parigi, quella più avvenente e quella che meritò l’ultimo congedo del grande scrittore. Si dice che nell’istante in cui si muore, la vita tutta intera a colpi di flashback ritorna prepotente, una scarrellata di fotogrammi significativi che si affacciano agli occhi come il preludio della scena finale, quella meno interessante. Festa mobile per Hemingway fu questo, la recluta misurata di una parte di passato che contempla il vulcano della vita: la giovinezza. Ogni singolo capitolo è un ricordo vivido di quello che fu in quegli anni in cui “eravamo molto poveri e molto felici”. La più insignificante pagina meriterebbe una poesia tutta per sé, sarebbe il giusto omaggio a un libro colmo e magico, una cronaca nostalgica e piena di fascino dei ruggenti anni venti parigini, dove una comunità di artisti americani, reduci di guerra, ha mischiato il proprio sangue sacrificato con l’acqua torbida della Senna.
Qual è il risultato di questa commistione di umori e speranze, di ambizioni e sogni ingombranti? Soprattutto cosa ha prodotto l’esodo di questi artisti americani, traditi e sconfitti dalla loro patria, in una Parigi accesa delle luci più belle e più illusorie? Forse questo libro non ha tante pretese, la sola narrazioni di eventi è un resoconto romanzato di una stagione bellissima e dannatissima in cui ognuno di loro ha cercato, sulle strade più affollate di una città infinita, il profumo o il ricordo più felice per dipingere o scrivere, velocemente, della vita quando balla e si agita nel corpo di un ventenne. Hemingway ci prende letteralmente per mano, e se si è disposti a camminare fino a non sentire più i piedi, fino a che il fiato rantola per la troppa stanchezza, il mondo che ci presenta è una cosa spaventosamente luminosa. Dalla sua casa a Place de la Contrescarpe ai Cafè lugubri e quelli più eleganti, attraversiamo i Jardin du Luxembourg e arriviamo a casa di Gertrude Stein, la quale come una mecenate attira a sé l’intera società di artisti americani e non, si impunta sul fatto altamente inopinabile che sia meglio comprare quadri che vestiti da signora, e si infervora con la fresca generazione definendola, su prestito, perduta. Hemingway non capisce perché tale appellativo, perché parlare di qualcosa che non si è vissuto, rimugina su quelle parole e da giovane uomo pieno di passione e idealismo trova una spiegazione alla perdizione della sua generazione: tutte le generazioni lo erano, lo sarebbero state, perché perduto con gli anni è il tempo, quello migliore, quello in cui si guarisce più rapidamente da tutto. Più in là, scorgiamo da dietro un albero scheletrico una piccola libreria, una donna: Sylvia Beach. Sylvia ama tutti i suoi libri e i suoi scrittori, anni dopo preferirà la chiusura della libreria piuttosto che cedere a un ufficiale tedesco uno dei suoi libri, forse perché sono bambini intelligenti, ma indifesi, vanno protetti da chi osa profanarli, perché la purezza di un bambino è un bene inestimabile ma incapace di conservarsi. Shakespeare and Company al 12 di Rue de l’Odeon apre le porte al nostro scrittore squattrinato. Sylvia gli fa credito, senza tener conto, gli cede intere colonne di libri con il sorriso, Hemingway accetta, non può fare altrimenti, non riesce a fare altrimenti. Vuole leggere Fëdor Dostoevskij e tutti i russi di cui la libreria dispone, vuole viaggiare in quel mondo freddo e ghiacciato, sta cercando, al pari di un qualunque lettore, altre parole e altre forme di realtà, orizzonti, altezze dalle quali osservare tutto come fosse nuovo. La Senna nel frattempo attraversa e fluisce, questo mostro agitato stipato sotto i ponti, perquisisce tutta la città nelle sue tasche sporche, abbaglia ed è fruttuoso per i pescatori, rallenta e poi si pente, guarda meglio di tutti noi il cielo e lo segue nel suo infinito cambiare di posto. Sulle sue sponde, sulla Rive Gauche un esercito di librai ambulanti smercia libri buoni e scadenti, costituisce uno scudo di parole intorno al fiume che beato e arrabbiato si strozza tra gli argini di pietra. Il mito viene a galla, come un vapore, un tanfo, Parigi nasce con i suoi uomini e le sue donne da quell’acqua piena di racconti mai arrivati al mare. Forse è questo il motivo per quel cielo strano, ferroso, perché la città trattiene tutto e in tutti questi secoli non ha lasciato andare niente. Sopra i tetti grigi di Parigi un altro tetto, come carta di giornale, ha impedito alla voce di ognuno di fuggire via. La maggiore armata a difesa della bellezza ha prodotto un fascino insopportabile, un’aria pesante gravata dal peso di ogni storia. Per questo Hemingway afferma che di certe cose “avviene che uno si trovi a scrivere meglio in un posto, piuttosto che in un altro”. Come può abbatterti la fame e la sete e la povertà quando la città in cui vivi ti concede la facile illusione che scrivere ancora, fare l’amore e bere Rum St. James sia sufficiente per vivere? Capita persino che sia lo stomaco vuoto a dettarti una legge, una disciplina, a indirizzare i tuoi pensieri in un senso piuttosto che in un altro. La fame addenta la carne e la torce, come una tortura, ma nella mente libera e sgombra da qualsiasi bisogno vorace, l’unico richiamo è quello di registrare ogni singola parte della giornata, ogni ricordo, per non lasciare che il fiume sotto i ponti si porti via la tua testimonianza senza nome. Le uniche cose indispensabili sono quaderni con la copertina blu, due matite e un temperamatite, una zampa di coniglio in tasca e il brusio sommesso della gente che beve e non si ferma mai. Magari all’angolo di quella strada Hemingway ci presenta Ezra Pound, come un uomo senza soldi e molto generoso, o ancora Joyce che va da Michaud, un ristorante molto costoso e molto bello. Così la vita di giovani artisti in fermento scivola velocemente come la penna su un foglio, le stagioni si alternano e alcune si addicono alla città meglio di altre, come i sentimenti che non sono gli stessi in tutte le circostanze. Lo spavento più grande è quando la primavera stenta ad arrivare, sembra quasi che sia il più grosso peccato di Dio quello di ritardare la bella stagione. Una pioggia improvvisa guasta mesi di attesa, sferza l’acqua alle finestre chiuse e tutto ripiomba nel solito colore eloquente. Questo tradimento, incoraggiato dal verde timido degli alberi, è assimilabile alla morte immotivata di un giovane uomo. La primavera però arriva, come sempre. I ciottoli sulla strada si asciugano già con le prime luci fredde del giorno e le promesse si fanno vivaci, come i pioppi sulle rive del fiume: “Ma Parigi era una vecchissima città e noi eravamo giovani e là nulla era semplice, nemmeno la miseria, né il denaro insperato, né la luna, né la ragione e il torto né il respiro di chi ti giace accanto sotto la luna”. Questo doveva saperlo molto bene l’uomo che più di tutti lasciò mano libera all’ebrezza e alla vampata fatua di una vita in bilico tra il genio e la follia. Da questo momento, il libro-memorandum di Hemingway fa spazio a una figura inquietante e incandescente, un mostro buono che non si difese e perì come la più bella rosa rossa in una giornata afosa.
“Il suo talento era naturale come il disegno tracciato dalla polvere sulle ali di una farfalla. In un primo tempo non lo capì più di quanto lo capisca la farfalla, ed egli non se ne accorse neppure quando il disegno fu guastato o cancellato. Più tardi si rese conto delle sue ali danneggiate e comprese com'erano fatte e imparò a riflettere e non riuscì più a volare perché era scomparso l'amore per il volo e poté solo ricordarsi di quando volare non gli era costato il minimo sforzo."
È Hemingway che parla, o meglio, osanna uno dei suoi più grandi amici, nonché uno dei più grandi scrittori che il Novecento possa annoverare nella schiera dei suoi pupilli. Francis Scott Fitzgerald, l’uomo dal talento spropositato, l’insicuro ragazzo americano che sposò la spregiudicata ragazza americana Zelda: musa e carnefice delle loro vite. Hemingway la descrive partendo dai suoi occhi di falco, predatrice, alta quasi come fosse l’iconografia di una regina barbara, irrequieta, simile a quella Parigi festaiola che si consuma e abbandona a fine serata su un boulevard di quartiere. Imputerà a lei, per tutta la vita, il dolore e lo sfacelo della carriera del suo caro amico. Fitzgerald come una farfalla, il re delle farfalle, fiero e bello, con le sue gambe un po’ corte e quell’ipocondria e insoddisfazione latente che lo divorerà fino a fargli dimenticare come si faccia a scrivere una frase intera.
Il capitolo inerente al loro incontro vale l’intero libro, quest’uomo che traballa e fissa il vuoto, che sfaticato e stanco compone, in quegli anni, un capolavoro qual è Il grande Gatsby, non può che commuovere e intenerire il lettore. La storia di Francis Scott Fitzgerald qui è solo accennata, viene rivelato il principio di quell’amicizia parigina che durerà per anni e si concluderà nell’inconsueto silenzio di una malattia, in uno scoppio accecante che ancora oggi propaga la sua luce di cenere nell’aria. Ciò che Hemingway non capì mai, o forse si rifiutò di capire, è che la farfalla quando morì aveva disperso tutta la sua cenere, le sue ali danneggiate non erano state infiammate dalla mano di Zelda, né dalla sua follia. I coniugi Fitzgerald avevano attraversato il mondo insieme, ognuno con le sue ali, con le sue parole, con le sue fobie, ma come titaniche creature si erano imbattute mano nella mano in due fuochi, quello di Prometeo e quello di Eros. L’incendio fu devastante, perché non è concesso possedere due fuochi, come invece vollero loro. Qualcosa si perde, si deve lasciare, ma nessuno cedette e prima di bruciare vissero entrambi, in una breve euforia, il ratto della gloria e il fremito dell’amore. Questo l’epilogo di una festa mobile in una tenera notte parigina.

 

 

 

Festa mobile
Ernest Hemingway
traduzione di Vincenzo Mantovani
Milano, Mondadori, 2013
pp. 144

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