“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 19 February 2013 01:41

Ciascuno sta solo nel cuor della fabbrica

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“C’era una volta una città dove si producevano le nuvole: rosa, bianche, nere”; l’incipit da favola introduce quel che rivela ben presto favola non essere. Metti una scena vuota; metti su quella scena vuota un corpo e uno scheletro metallico e quel che prende forma, attraverso quel corpo, attraverso il suo contorcersi, piegarsi, flettersi attorno a quella struttura metallica, non è una favola, ma un triste regesto di cronaca di inizio millennio. Che replica tristi regesti di cronaca già abbondantemente reiterati in una fine millennio non ancora del tutto archiviata.

Per avere un lavoro si pena e poi di lavoro si muore; paradossi di un’era post-industriale che ancora vive di contraddizioni irrisolte che si pasciono d’assurdo e s’intingono di vergogna.
Di lavoro si muore. Si muore ancora, di strage improvvisa (come nel rogo della Thyssen-Krupp), o di strage a rilascio graduale, come all’ILVA di Taranto, come se il lavoro fosse virus mefitico inoculato nelle viscere di chi lo esercita, attraverso un meccanismo perverso e stillicida.
A restituire uno spaccato poetico e teatralizzato d’una condizione inumana, la messinscena di Anna Dora Dorno L’Eremita Contemporaneo – made in ILVA racconta dal di dentro, fondandosi anche su testimonianze dirette di operai, quello che accade fra gli ingranaggi del sistema del “produci-consuma-crepa”. Lo fa con regia accorta e sapiente che traduce sulla scena una buona scrittura, affidandola ad un attore che immola le proprie membra alla riproduzione del ciclo produttivo, incarnandone appieno l'automazione alienante.
Di più: lo racconta dal di dentro del di dentro, dalla prospettiva alienata d’un corpo organico alla fabbrica. Un corpo, quello di un operaio, nel cui corpo a snodarsi meravigliosamente è Nicola Pianzola, restituendo in tutto e per tutto sulla scena ritmi, spasmi e sensazioni dell’alienazione. Nel blu dei suoi calzoni il richiamo ad una divisa di lavoro, nel biascicar parole in un soffio di voce il disagio di una condizione che riflette se stessa anche nel sogno; il sogno, unica fase di fuga concessa, è scandito anch’esso dai battiti sincopati di cui pulsa e rimbomba una catena di montaggio, il cui clangore aliena e robotizza, mentre in sottofondo flautata voce con altrettanto ciclica reiterazione ripete un mantra industriale: “Lavora, opera, produci, crea; lavora opera, produci, crea”.
La macchina-uomo si dimena al ritmo scandito con cadenza marziale dagli ingranaggi, fino a diventare essa stessa ingranaggio, inarcando il proprio corpo, piegandolo, quasi storpiandolo in base agli impulsi del dettame produttivo: “Lavora, opera, produci, crea!”. La reiterazione dei gesti, la meccanizzazione dei movimenti, riempiono la scena con sincronia da marchingegno di precisione: non più uomo ma puleggia.
Il corpo si contorce, quasi fosse in preda a convulsioni; sovviene alla mente un filo conduttore, che parte dal Chaplin di Tempi moderni e riporta alle sue pantomime marionettistiche di ingranaggio fra gli ingranaggi e passa per il “Massa Ludovico, detto Lulù”, l’operaio interpretato da Gian Maria Volonté in La classe operaia va in paradiso, che prende progressivamente coscienza della bestialità della propria condizione. Il filo comune si snoda attraverso la reificazione dell’essere umano, incanalato in un percorso infernale che procede verso l’alienazione.
Un’alienazione che porta l’uomo moderno – e a questo punto diremmo anche l’uomo post-moderno – a vivere condizione d’eremita, a perdere la propria identità (”quella lì non è la mia faccia!” esclama ad un certo punto il corpo automatizzato che calca la scena). Sin troppo evidente il dissidio interiore che dilania il lavoratore, che vive nella paura e si vede costretto dall’impellenza del sopravvivere per bastare a sé ed ai propri cari, a mettere in gioco la propria salute, a mettere a repentaglio la propria vita: di lavoro si muore. Ancora si muore. E sembra che a morire siano animali ingabbiati e non a caso la struttura metallica che fa da complemento al corpo scenico, finisce per contenere l’uomo come in una prigione.
Un riverbero di luce ne illumina il viso, unico segnale di calore dopo il raggelante attorcigliarsi su se stesso nella frenesia produttiva; “noi entriamo qui dentro di giorno quando è buio e usciamo quando è buio”, ancora il Lulù del film di Elio Petri che riecheggia nelle orecchie evocato da quel fascio di luce, affiora alla mente con la vivida evidenza d’un barlume luminescente. Barlume luminescente che trafigge, come fosse un raggio di sole, un uomo solo sul cuor della terra. Ed è subito sera. Anzi, è sera che s’ammanta di cupa notte.
La favola che non è una favola conclude velata di scuro il suo corso: la città che “c’era una volta”, in cui si producevano le nuvole rosa, bianche, nere, è Taranto. Era Taranto; quel che ora produce – quel che ha da troppo tempo prodotto, verrebbe da soggiungere – ha le sembianze d’una figura incappucciata vestita di nero.

 

 

L’Eremita Contemporaneo – made in ILVA

drammaturgia originale Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola

regia Anna Dora Dorno

con Nicola Pianzola

produzione Instabili Vaganti

musiche originali Andrea Vanzo

voce e canti Anna Dora Dorno

oggetti di scena Nicoletta Casali

scene e disegno luci Anna Dora Dorno

lingua italiano

durata 50’

Napoli, Teatro Elicantropo, 15 febbraio 2013

in scena dal 14 al 17 febbraio 2013

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