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Friday, 24 April 2015 00:00

Un filo bianco che s'annoda intorno alla vita

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"Il fatto è che mia figlia Irene stava morendo, o stava nascendo, non ho capito bene..."


C'è un filo bianco e asettico che attraversa e imbastisce l'intera storia. È annodato ai due poli e nel mezzo, fluisce per ostacoli e corre una corsa spesso fuori pista, fuori traiettoria. Per questo perde, alla fine, il bersaglio. Quello che manca a questo filo è la pertinenza, infatti delude ma commuove, perché i nodi occupano più spazio di una sottile fibra bianca che non inciampa.

Questi nodi sono immagini periferiche, s'inseriscono come flashback, sono i nodi dei quartieri della malavita napoletana, i luoghi di una città che muore nel cuore per queste cancrene limitrofe. E il cuore è forte, fatto di pietra lavica, musicista dentro scavi di tufo e sabbia; Napoli, la città dell'ambientazione, piccola e grande protagonista di questa storia bianca, delle tante storie bianche che finiscono con una croce. Miserabile metropoli piena di strade greco-romane, soggetto ellenico con le sue maschere appese al chiodo, come un buffone in pensione dal riso e dal pianto. Eppure la senti tutta la sua commedia, il suo sangue nelle arterie strette, i suoi emboli che sono volti. Nel ginepraio napoletano l'esistenza ha mani e piedi veloci, il vociare si ovatta e in sordina passa il fischio di una macchina piena di fili; da quell'apparecchio si svincola una teoria di strade lunghe, all'interno delle quali fluisce tutto l'ossigeno che la città e Irene, dentro le loro bolle, non riescono ad alimentare, per salvarsi la vita.
Un gioco di matriosche, parole, troppe, al di sopra della verità. Questo il suo peggior difetto, difetto genetico, patrimonio ereditato da una letteratura, quella italiana, sempre al di sopra delle parti, idealista di chissà quale ideologia, stavolta. Il suo errore più grande è aver barattato l'intimità con tanto contesto e un registro che prende il sopravvento.
Eppure il filo bianco va avanti, attraversate le strade di prima, scava nei corridoi lattei di corsie senza emergenze. Il luogo dei sogni piccoli, delle culle di vetro, delle mamme senza figli e senza feti, sospese con le loro pance vuote. Il bianco qui è un rumore, dove tutto sprofonda, nel quale vieni risucchiato e dove smetti di essere uomo o donna, ma solo un adulto che ha sputato in fretta o in malo modo il proprio uovo. Il filo riposa, la sua via è un tubicino stretto dove il respiro sgomita, viaggia nelle cavità cianotiche di quell'uovo, a volte si annoda proprio in petto. C'è una bellezza sterile tutta intorno, tra le maglie fitte del silenzio, del disinfettante, è la bellezza delle rivoluzioni private, senza armi e con un solo ideale, svuotato degli orpelli e riassumibile nel concetto di sopravvivenza. L’uovo si accontenta di sopravvivere, di cavarsi fuori dal bianco, anche se tutto ciò che l'aspetta è un grigio pallido, là fuori.
E siccome il filo viaggia per chilometri e chilometri di incontaminate stanze e contaminate città, come un cordone ombelicale scivola sotto le pance e striscia su strade ombreggiate, quando si ferma, scarica la sua forza, si assesta. La sua carica staminale esplode e guarisce, dalla vita o dalla morte, non lo sappiamo, tutto cammina su quel filo, anche lo stacco bianco di un respiro interrotto, necessario come la memoria che va celebrata con luoghi neutri e vuoti. Tutti i nodi sono fiori su lapidi commemorative, lasciamo omaggi e andiamo avanti, allunghiamo la gamba e scavalchiamo la fossa, lo scavo, il paragrafo, viviamo altrove, scriviamo di altro, nessuno conosce il peso di quell'omissione, il tonfo sordo delle parole che non scorrono. Si recide il cordone e l'uovo nasce, entra nella storia, scappa dal rotondo silenzio nel quale si era infilato, ma tra il taglio e il pianto c'è un attimo in cui la vita è troppo forte e il guscio troppo duro, quello è lo spazio che va lasciato bianco. Lo spazio di un rigo, il bianco di una preghiera.

 

 

 

Valeria Parrella
Lo spazio bianco
Torino, Einaudi, 2010
pp. 120

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