Sono tre racconti, molto brevi, tutto si esaurisce nel giro di centoventisette pagine. Tre storie, tre donne, tre città diverse, la realtà è quella di un episodio singolo, si consuma nello spazio di una passeggiata notturna. È la narrazione di un evento o due, per chi finale per chi centrale. I fatti esterni e le date, i grandi avvenimenti e la storia universale non esistono, è un deambulare dall’inizio alla fine, è una solitudine spessa e dura che fa rumore come il tacco di una scarpa sul selciato di pietra. Immaginate che l’unico ticchettio prodotto sia proprio questo suono cadenzato, appare e scompare col ritmo del passo, inizia e finisce senza acquisire vigore e senza averlo perso. L’andamento della vita e della scrittura è imprevedibile, ma cauto, ha lo stesso incedere di un osservatore. Sicuramente sono narrazioni che si costruiscono e si reggono sul forte sostrato dell’atmosfera, Modiano quando scrive lo fa di nascosto, non si avverte la presenza di un intrigo, il costruttore della fabula non esiste, l’unica tangibile testimonianza della sua esistenza è appunto il fascino lento e discreto che si fa palcoscenico per i personaggi. Sconosciute è un libro che vive in sordina, le scene in cui si porta a visione il pensiero sono trattate come secondi piani rispetto alla scena principale, così qui c’è un primo isolamento, quasi una miseria iniziale, poi i contorni si sfocano ed entra in scena il flusso mentale e reale delle sconosciute donne, protagoniste del libro. Il periodare è pulito, lineare, non inciampa tra le ombre lunghe di pensieri sconnessi, esiste un equilibrio che non si vede tra il contenuto e lo strumento. Il risultato finale in tutti e tre i casi è un’emozione e una tristezza che non si può descrivere, è una canzone straniera che proviene da lontano, ti avvolge e ti illanguidisce, anche se tu non vedi la fine della strada e continui a camminare in una città deserta con delle imperfette sconosciute.
(primo racconto)
Una donna senza nome, una ragazza, appena diplomata. Lione sullo sfondo, una famiglia solo accennata, per il resto: l’autunno. Di questa persona non sappiamo molto, l’unica visuale che abbiamo sulla sua vita è il suo punto di vista sulle cose che la circondano. Sappiamo subito che non ha ambizioni, i suoi desideri sono piccole fiammelle che si accendono e si spengono, senza lasciare l’ombra di una luce più vera. Qualcosa in quella città la deprime, è un muro, un muro scuro dirimpetto a un edificio, se c’è qualcosa che le provoca angoscia è quel muro. Partecipa per inerzia a un provino per indossatrice, quando viene rifiutata si sente triste, come se non potesse mai più essere così triste. Le sue scarpe blu sono consumate, non le importa, parte per Parigi, lascia tutto. Ancora un segnale, ancora la smania e il panico di prima, la giovinezza scalcia e chiede cose che il corpo non è disposto a dare, essere giovani e non vedere niente, non sentire niente, è una dannazione che dura poco, forse. Poi qualcuno più grande ma con lo stesso volto, assente e quasi vaporoso, la lega a lui con un nome finto. Lei lo segue, dentro un turbinio di eventi strani, non sappiamo mai se lo ami, ma siamo sicuri che lo rincorre, nonostante le obiezioni della coscienza, del buon senso, lo rincorre e lo scopre fino al punto in cui il suo mistero appare piccolo, minuscolo da infilarlo in tasca. Il topos del padre (costantemente presente in Modiano) ritorna anche qui. Quest’uomo senza connotati, liscio in viso per quanto ci sia lasciato immaginare, dalle paure infantili, dorme con la luce accesa e conserva un segreto, una prova, magari un dolore che lo costringe ad aspettare. Lei non lo sa perché resta, perché divide il suo sonno con lui, perché lo osserva nei suoi scatti d’ira, perché ha paura e poi non va via, lei non ha un nome e alla fine, quando lui scompare, lei non piange ma vomita, butta qualcosa che proviene da dentro e
immagina di essere come quelle persone scomparse delle quali nessuno chiede e che finiscono, come NON IDENTIFICATE, nello schedario di un commissariato.
(secondo racconto)
Un’altra donna senza nome, molto povera, mal voluta da tutti i componenti della famiglia, un padre perso, i suoi ricordi da dove iniziano si aprono su un rifiuto, un isolamento, dove finiscono c’è un collegio, la disciplina, il freddo e il desiderio di morire. Ci sono delle pillole letali che stringe nella mano tutto il giorno, perché sapere di avere una via d’uscita infonde coraggio, poi c’è il lavoro estivo come cameriera nelle ville dei signori, c’è quell’uomo e il suo stupore mentre la guarda ed esclama: “Ha la bellezza del diavolo”. Ma la figlia del diavolo vuole un grande amore, non sa cosa sia, non sa niente, però forse si trova a Parigi, dove vorrebbe tanto andare, dove non arriverà mai. Lascia il collegio, non ha più bisogno delle pillole mortali, ha già riso diabolicamente a viso aperto a un signorotto che ha tentato di sedurla con un bacio e un libro colto, lei è una servetta, non può che ridere dei sogni esotici di un amplesso descritto in grande stile. Una vecchia matrona le offre un lavoro, ha un cane affamato, lei si occupa del cane. Passa pochi mesi di serenità, a volte parlano, la vecchia la paga giornalmente. Quando muore le lascia un biglietto e un po’ di soldi, la ringrazia e sparisce, esce di scena. Suo padre aveva un amico che adesso le ha fatto avere un’eredità: una valigia con alcuni libri e una pistola. Un pensiero desolante è anche il pensiero migliore, le sfilano davanti agli occhi gli stessi giorni sempre, gli stessi luoghi, le stesse persone, i mesi e gli anni, i laghi e le corriere, tanto vale prendere la mira, fare fuoco e cominciare dal rombo.
(terzo racconto)
E infine, una terza donna senza nome. Quando si arriva a questo punto il monologo interiore delle tre sembra essere un po’ accanito, anche la sofferenza e l’insofferenza appare macchinosa, forse perché troppa, quasi senza rimedio. La terza figura è anch’essa una donna molto giovane, proveniente da Londra e in momentaneo soggiorno in un quartiere parigino, ospite di uno sconosciuto uomo che non sapremo mai chi è veramente. Anche qui tutto va avanti per rievocazioni, per pensieri sciolti e angosce varie. La vita si trascina come un corpo tutti i giorni nei movimenti più consueti, tra una strada e un’altra, una fermata e un’altra, un caffè e una stazione, l’inquietudine smarrisce persino il lettore più inquadrato. Passa lunghe ore in casa a leggere libri che raccontano di luoghi e viaggi, ascolta musica, esce man mano con meno frequenza, finché il malessere non la confina sempre di più dentro. Un ricordo che fa male proviene da lontano, un uomo che ha amato e poi perso, una passeggiata in una strada e un fotografo che scatta, quella foto che non è più riuscita a trovare. Poi la setta, il fascino ambiguo di una combriccola di santoni alle prese con un lavoro su se stessi, una ciurma di schizzati che l’accalappia in un bar dove si è rifugiata per non sentire più il rumore degli zoccoli di migliaia di cavalli, prima del macello sotto casa. Quella marcia è un logorio nel cranio, gli uomini ricoperti di sangue che contano mazzette di denaro sporco ossessionano la sua mente. Nella pace di una preghiera recitata male forse proverà a salvarsi, insieme a tutti gli equini in fila che sbattono con forza i tacchi prima di morire.
Sono tre giovani donne che, a chi legge, mancheranno per sempre.
Patrick Modiano
Sconosciute (Des Inconnues)
traduzione di Paola Gallo
Torino, Einaudi, 2014 (2000)
pp. 127