“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Saturday, 21 March 2015 00:00

Un animo in movimento

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Io sono rimasto a Napoli mentre mia sorella abita a Prato e, perciò, abitano a Prato anche le mie due nipoti, che vedo un paio di volte l’anno. L’amico con il quale ho vissuto, fianco a fianco, gli anni del liceo e dell’università lavora a Milano; ho una cugina a Faenza, un cugino a Trieste ed un altro a Brema mentre il vicino di casa con cui mi scambiavo il giornale, sul pianerottolo – io gli portavo Il Manifesto, lui mi rendeva Repubblica, così da leggerne due al prezzo di uno – adesso vive in Lussemburgo. Pezzi della mia vita, più o meno importanti, che sono partiti, che si sono allontanati, che hanno viaggiato mentre io sono ancora qui, ad un tempo immobile e ostinato, debole o caparbio, fiero o impaurito.

Il primo contatto con L’uomo nel diluvio (scritto da Simone Amendola e Valerio Malorni; interpretato da quest'ltimo) è intimo e individuale e le parole per scriverne sembrano venire non dalla mente ma dal centro del petto. Avviene perché è intimo e individuale il racconto che Malorni condivide, perché è personale e coniugata al singolare la trama che narra guardando la platea e, dunque, guardando anche me. Non a caso – ad un punto – lo stesso Malorni discende numericamente dalla massa a se stesso, dalla popolazione mondiale (sette miliardi di persone) alle ventottomila del suo quartiere, le diciotto del suo palazzo, le tre di casa sua fino a contare solo e soltanto il proprio corpo, immerso in una vasca (metafora d'immobilismo). Fa questo perché è questo che fa lo spettacolo e che fa il teatro quando è buon teatro: dice di uno per dire di molti. Così la narrata migrazione momentanea a Berlino è la migrazione dei pakistani, dei turchi, degli indiani ed è la migrazione degli africani, degli albanesi, degli slavi o dei russi, dei polacchi e degli italiani, intenti a preoccuparsi e a polemizzare sull’immigrazione nello stesso momento in cui i figli e i nipoti di questa penisola sono tornati a emigrare verso il Nord dell'Europa.
Malorni – facendo parallelo metaforico con Noè; ostentando sul fondo un'arca fatta di scatole di cartone tagliate ed unite perché risulti segmentata come una vasca di mattonelle; giocando col sonoro oltrescena per farne commento emotivo o contestualizzazione ambientale; offrendo immagini in soggettiva del suo cammino quotidiano dalla metro alla casa in Südstern – dice dunque dello spaesamento, della solitudine, dell’allontanamento, dice dell’estraneità e della mancanza di calore toracico, del disturbo di camminare per strade che non sono le tue strade, dice dell’incomprensibilità fonica delle parole e della difficoltà ad accettare la scelta compiuta, non rimandabile se hai una figlia ma non hai un lavoro o se il lavoro che fai non porta guadagno.
Malorni dice di Malorni così dicendo di tutti coloro che “sono in mare aperto e non sanno quanto dista la terra di partenza e la terra di arrivo”; di coloro che – partiti – “vedono il fallimento più visibile”; di coloro che – andati – fuggono dal diluvio “sociale, generazionale, teatrale” del proprio Paese per ritrovarsi immersi comunque nel diluvio delle proprie lacrime: perché tre mesi sembrano tre anni, perché l’amore tramite Skype è impossibile, perché hai lasciato tutto anche se quel tutto non era abbastanza per trovare qualcosa che comunque non ti basta.
E allora vedo Malorni, in scena da solo, ne vedo gli occhi chiari, i capelli spettinati, gli abiti invernali addosso (il pantalone verde, il maglione grigio, il giubbotto nero, il cappello rosa a strisce) e mi sembra di vedere contemporaneamente mia sorella che – mentre c’è nebbia e il freddo ti penetra nelle ossa – sveglia mia nipote perché vada a scuola fino a Pistoia in treno o vedo il mio amico, che di nome fa Roberto e che traversa un viale innevato di Rho, vicino Milano, per prendere l’auto con cui raggiungere l’ufficio; vedo Malorni e vedo il ragazzo di colore che spinge una carrozzina di cianfrusaglie, l’arabo che alza la serranda del suo negozio di kebab, il cinese che prende la Circumvesuviana per andare da un luogo che non sa dire a un altro luogo che non sa dire. Mia sorella, il mio amico, quel cinese, quest’arabo ed io che sto qui, davanti a un pc a scrivere, in questa stanza che mi sembra tanto una vasca.

Ma Malorni è un attore e dunque il secondo modo nel quale mi rapporto a L’uomo nel diluvio è quello che mi tocca come critico al cospetto di un artista. Cosa mi sta dicendo? Mi sta dicendo che è sostanzialmente povero, che i soldi che guadagna facendo teatro gli arrivano (quando gli arrivano) con due o tre anni di ritardo, mi sta dicendo che lo spettacolo precedente è andato bene, che ha ricevuto gli applausi e che ha fatto il pieno ma che questo non è servito a garantirgli altre date, una tournée, un futuro sul palco; Malorni mi sta dicendo che il suo teatro, perché abbia qualche speranza di andare in scena, dev’essere leggero, senza scenografie, ridotto e possibilmente in forma di monologo. Mi sta dicendo Malorni della maniera in cui nascono certe occasioni, che talora sono riempi-buchi presentati come straordinarie esclusive, di come nascono certi progetti culturali che culturali non sono ma anche di come nascono certe apparizioni salvifiche, che possono cambiare la storia di un artista o di uno spettacolo. Insomma, Malorni mi sta dicendo della precarietà di questo mestiere precario, della frammentarietà lavorativa che lo caratterizza, dell’arbitrarietà altrui che subisce perché possa essere esercitato come si deve. Malorni mi sta raccontando gran parte del teatro che vedo: il teatro dei piccoli luoghi, delle stanze minuscole o delle sale di periferia; il teatro definibile ancora “off” solo e soltanto perché rimane off agli Stabili ma che invece è il teatro che davvero – vivendo – fa vivere teatralmente le medie e le grandi città di questo Paese. Malorni mi sta dicendo dell’assenza di certezze e di meritocrazia, della carenza del sistema, mi sta dicendo cosa significa tentare di “fare teatro nel diluvio” prodotto dalla burocrazia o dal silenzio delle istituzioni e mi sta dicendo – Malorni – di come L’uomo del diluvio sia o gli sembri tuttavia uno spettacolo di svolta, di come all’improvviso possa capitare che qualcosa che hai creato venga osservato, recepito, compreso e amato di un amore che passa da persona a persona e che genera, provoca, inevitabilmente determina nuove repliche, altra vita per questa stessa creazione: “Vorrei” – dice – “che la messinscena di questo spettacolo, del mio ultimo spettacolo, durasse una vita” e lo dice a una platea piena, silente, emozionata.
E allora Malorni racconta anche della dimensione andante del teatro, della sua miseria viaggiante che però è anche la sua fortuna: perché incontri un pubblico differente, perché ti presenti a sguardi diversi, perché può capitare che – quella sera, in quel luogo – vi sia un critico sensibile, “umano”, un critico pieno di dubbi, un critico che scrive anche fraintendendo in parte il tuo lavoro ma che riesce a farne comunque testimonianza vera, non complice ma onesta, partecipata, sentita; un critico di cui non conosci il volto, di cui non sapevi il nome, un critico di cui non avevi mai letto niente prima e di cui – forse – leggerai ancora qualcosa dopo. Ecco cosa mi dice anche Malorni: della maniera in cui continuare ad esercitare questo impegno e me lo dice usando una formula che trovo perfetta nella sua semplicità, nella sua pratica verità quotidiana: “Il tuo mestiere è di uscire di casa, vedere e scrivere”.
C’è – in questo – la dimensione fondante del teatro: l’incontro; l’incontro tra chi osserva e chi viene osservato, tra chi ascolta e chi parla, tra chi recita e chi testimonia la recita. C’è la dimensione del tutto epidermica del contatto che avviene a breve distanza, di compresenza scelta e voluta, che fa del teatro il teatro e che distingue quest’arte, faticosa ma irrinunciabile, da tutte le altre forme d’arte possibili.

Naturalmente poi c’è la dimensione tecnica dello spettacolo; c’è la voluta assenza di quarta parete, lo smascheramento delle trovate di scena, l’utilizzo informale d’ogni spazio possibile (il corridoio laterale e quello centrale, l’angolo di ribalta e le quinte); c’è la chiamata della luce in platea e la confessione dei cambiamenti di messinscena (si pensi alla sostituzione del monologo sul tempo che passa con l’immobilità, orologio in mano, a lancette ferme: perché in questo modo sia percepita e condivisa l’attesa). C’è – ne L’uomo nel diluvio – l’interazione diretta con il pubblico (“Perché non partite?”) e c’è la chiamata in palco di uno spettatore, perché – leggendo l’articolo (effettivo, probabile, possibile, mai scritto: non importa) del critico di Der Spiegel – diventi egli stesso quel critico: cioè l’uomo, “la persona”, con cui Malorni si guarda negli occhi.
C’è una parte volutamente informativa, a luci piene, perché a chi ascolta sia chiara la differenza di welfare tra Italia e Germania e c’è la capacità di rendere gradevole e non pedagogica questa stessa parte, alternando le tonalità di narrazione e giocando con la ripetizione verbale (“Tutti a Berlino”; “Guida pratica per italiani in fuga”). C’è l’evocazione della musica, l’accorto utilizzo dei fari (basti pensare all’approdo in assito, che ne provoca l’accensione) e c’è una buona drammaturgia di partenza (co-autore Simone Amendola,  che con Malorni condivide anche ideazione e regia), basata sulla comparazione ironico-suggestiva tra Noè e l’emigrante, tra le ragioni che appartengono al cielo e che non sono percepibili al tatto e questa fame arrabbiata e reale che invece ti prende lo stomaco, che ti macera dentro e ti obbliga a partire. C’è l’uso continuo delle metafore meteorologica (“Camminare al sole”, “Lasciate a casa l’ombrello”) e navigatoria (“Il rischio di andare alla deriva”, “Nessun pensiero mi ha aiutato a uscire dalla secca”) e c’è la confessione privata (“Voglio la domenica della mia vita”), la condivisione di una lettera personale (“Qui tutta l’acqua è neve, mentre da noi è nebbia”), il racconto della sedentarietà di partenza (“Io che ammiravo anche chi veniva dalla provincia”). E c’è – inoltre – il continuo riferimento alla teatralità nostrana: ai suoi artigiani (il tecnico luci dell'Angelo Mai), ai suoi maestri (Mario Scaccia) e ai suoi commentatori (Franco Quadri, Rodolfo Di Giammarco).
C’è dunque questo spettacolo, fatto di una storia individuale, e c’è quest’uomo, che di mestiere fa l’attore. E c’è il pubblico, che alla fine ha applaudito, in parte alzandosi in piedi e, nel pubblico, c’è un critico che ha tentato di raccontare cosa gli ha provocato la felicità con cui è uscito dal teatro e che, per farlo, ha scritto ciò che avete appena finito di leggere.
Perché è questo che accade – nel diluvio – talvolta in Italia. 

 

 

 

L'uomo nel diluvio
idea, drammaturgia e regia Simone Amendola e Valerio Malorni
con Valerio Malorni
produzione Blue Desk
con il sostegno di Carrozzerie N.o.t
con il patrocinio di Roma Capitale
lingua italiano, tedesco
durata 1h 15'
Napoli, Piccolo Bellini, 18 marzo 2014
in scena dal 17 al 19 marzo 2014

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