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Sunday, 15 March 2015 00:08

John Keats – Ode su un'urna greca

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Sempre un piacere estremo, quello di poter parlare di una poesia.
Soprattutto se è una poesia che si ha amato.
Soprattutto se è una poesia dipinta sulla tela raffinata della genialità.
Soprattutto, se è una poesia di Keats.
Un mistero senza mistero, un'eco senza voce, solo piccole gocce e gocce su di un mare sconfinato.

Se mai c’è stato un simbolo, un'incarnazione semidivina di uno degli aspetti di quella eccezionale corrente umanistica e culturale che è stato il Romanticismo, ebbene, tra i pochi eletti, emerge lui. Una contrapposizione di piccole sfere luminose (rappresentate dalle sue opere), lasciano senza fiato, sognando le ere dell’uomo. Il gusto ritrovato della bellezza estetica ed immortale (figlia del classicismo greco), nella rinnovata modernità ottocentesca. Sebbene la poesia abbia in sé una matrice difficile da sbrogliare, se non da una predisposizione all’immaginario regno dell’invisibile, con Keats diviene una sorta di rovescio della medaglia.
Dopo il fallimento dell’assolutismo Illuminista, era ovvio che l’individuo dovesse allontanarsi dalla visione distorta di se stesso come schiavo in balia di forze − o legate al mondo dell’occulto e della religione, oppure di quel Leviatano bipolare incarnato dalla razionalità. Furono anni turbolenti quelli che portarono all’inizio del pensiero libero. Per intenderci, non quello illuminista, dogmatico e poco rivoluzionario, in quanto prometteva di sostituirsi (e non di sostituire) alla tirannia dell’istituzione religiosa, da secoli fregiata e forgiata di potere temporale più che spirituale. Dopo la tirannia altrettanto illusoria della Ratio, e diversi cambiamenti di potere nella vecchia signora Europa, dopo la Rivoluzione Francese, il Terrore e la Restaurazione, dopo tutto il dolore e le ambiguità delle lotte dei nuovi poteri forti contro i vecchi, ebbene, dopo la morte, la rinascita. E con la rinascita una nuova modernità che, nella propria rinnovata consapevolezza, ricorda i meriti del passato e le conquiste della libera scelta.
Mi si perdoni una mancanza di sintesi, ma è sempre un dovere, (nel piacere), dare una seppur minima ed insoddisfacente parentesi di contesto. Uno sfondo nel quale aprezzare lo sforzo e la scelta dei colori, nella tavolozza spirituale di alcuni di questi indomabili guerrieri dell’immortalità. Della seconda generazione di romantici (forse la più significativa) − quella di Shelley, Byron e Keats − è proprio quest’ultimo ad avere raccontato, come già detto, il passato del futuro. Tra i vari frammenti di questa mistica trascendenza, quello che forse è il suo più importante manifesto  al regno di Arcadia è una delle celeberrime  Odi.
Ode su un’urna greca. Una strabiliante coreografia degna delle più meritevoli ingegnosità dell’arte, questa poesia è un vero tributo all’impercettibile immanenza nella capacità di meravigliarsi. Non tanto per l’immaginare un’anfora od un vaso decorato, bensì per l’astrazione sublime che ha quasi dell’avanguardia cinematografica. Leggerne i versi significa allestire un immaginifico cinema e vedervi realizzate (sullo schermo della fantasia), le parentesi dell’estasi. La magnificenza di una antica  visione, magari, pagana e naturale. Il dio Pan, che, passeggiando tra i boschi, importuna ninfe e fanciulle. Pastori e musici nelle valli dei templi. Divinità capricciose e poco divine. Visioni della Grecia al massimo del proprio antico splendore. Questo, ed anche più, ha raccontato il giovane poeta inglese. La ricerca della sensibilità e della naturale spensieratezza dell’anima, ritrovata sotto le mentite spoglie di quel Neoclassicismo che i poeti romantici della sua epoca hanno cercato di riprodurre in un ultimo, stupefacente affresco. Un affresco cui ognuno dà il proprio contributo, verso dopo verso.
Lo scrigno di Pandora si apre e...


Dov'è Arcadia?

Camminando sereno tra gli spazi della quiete, scivolano le dita sui pilastri del colonnato.
Mi immergo in Arcadia, sublimando l’uomo mortale ed ascendendo alle porte di Apollo.
Che assiso all’ombra della sera, ristora gli affanni con musica distante, eppur presente.
Dorati come i suoi luminosi raggi, i passi leggeri del pensiero immobile
dondolano in un sogno, fino al tempio di me.
Accompagnato da tristezza e rimpianto, percorro solide scale di idee.
Gli ospiti di questo strano luogo sono fiamme nere che oscillano alle pareti,
fantasmi di un fuoco nudo e senza fiamme.
Come dei servi, Morte e Sonno spalancano una porta.
Il profumo della malinconia satura aria impossibile da respirare, impalpabile come il disegno lucente
di una costellazione distante.
Poi nel buio, una vibrazione inattesa, paralizzante.
Gli occhi si posano su un vaso antico, antico come  la carne mortale
che ho ricevuto in eredità solenne.
Una figura pallida, sospirante -portatrice di stupore imminente, trattiene un vello dorato,
mantello della scoperta, e l’alloro diviene ceramica e storia, arte e mito.
Pastori silenziosi conducono greggi immacolate su pascoli di albe e tramonti confusi.
Un giovane, amando per sempre la sua unica musa, le dedica l’infinito ad un nulla dipinto.
Rami di Afrodite, saranno ancora di Amore sorrisi sempreverdi.
Un pianto disperato mi cinge il cuore, per la perduta  vista di quel luogo mai rivisto,
di quelle genti calma e casa e memoria.
Dove torneranno i festanti, che al sacrificio conducono la mandria?
Dove saranno quelle nuvole distanti, in un altro giorno tra i giorni?
Dove sarà Arcadia?
Ancora lo domando, ed il giovane, tramutato in polvere, diviene Eco.
Promettendo di chiedere risposta all’eternità.
Poi le immagini divengono polvere, la polvere  risposte.
Risposte che non ho saputo leggere,
ma non smetterò di chiedere.
Le domande diventano Caos
ed il Caos, risveglio.
Dov’è Arcadia?
Eco conosce la strada, e attende già.
E quando dal nulla sarò silenzio
nel silenzio avrò una voce.
Le labbra, saranno in versi.
(Simone Gravina, dedicata a John Keats).

 


A voi, fratelli distanti, il regalo della favola.
A voi, amici curiosi, il dono del poeta,
che, con le sue stesse parole fatte incidere sulla lapide, declamò :
“Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell'acqua”

                                        

 

Ode su un'urna greca

Tu, ancora inviolata sposa della quiete,
Figlia adottiva del tempo lento e del silenzio,
Narratrice silvana, tu che una favola fiorita
Racconti, più dolce dei miei versi,
Quale intarsiata leggenda di foglie pervade
La tua forma, sono dei o mortali,
O entrambi, insieme, a Tempe o in Arcadia?
E che uomini sono? Che dei? E le fanciulle ritrose?
Qual è la folle ricerca? E la fuga tentata?
E i flauti, e i cembali? Quale estasi selvaggia?

 

Sì, le melodie ascoltate son dolci; ma più dolci
Ancora son quelle inascoltate. Su, flauti lievi,
Continuate, ma non per l'udito; preziosamente
Suonate per lo spirito arie senza suono.
E tu, giovane, bello, non potrai mai finire
Il tuo canto sotto quegli alberi che mai saranno spogli;
E tu, amante audace, non potrai mai baciare
Lei che ti è così vicino; ma non lamentarti
Se la gioia ti sfugge: lei non potrà mai fuggire,
E tu l'amerai per sempre, per sempre così bella.


Ah, rami, rami felici! Non saranno mai sparse
Le vostre foglie, e mai diranno addio alla primavera;
E felice anche te, musico mai stanco,
Che sempre e sempre nuovi canti avrai;
Ma più felice te, amore più felice,
Per sempre caldo e ancora da godere,
Per sempre ansimante, giovane in eterno.
Superiori siete a ogni vivente passione umana
Che il cuore addolorato lascia e sazio,
La fronte in fiamme, secca la lingua.

 

E chi siete voi, che andate al sacrificio?
Verso quale verde altare, sacerdote misterioso,
Conduci la giovenca muggente, i fianchi
Morbidi coperti da ghirlande?
E quale paese sul mare, o sul fiume,
O inerpicato tra la pace dei monti
Ha mai lasciato questa gente in questo sacro mattino?
Silenziose, o paese, le tue strade saranno per sempre,
E mai nessuno tornerà a dire
Perché sei stato abbandonato.

 

Oh, forma attica! Posa leggiadra! con un ricamo
D'uomini e fanciulle nel marmo,
Coi rami della foresta e le erbe calpestate −
Tu, forma silenziosa, come l'eternità
Tormenti e spezzi la nostra ragione. Fredda pastorale!
Quando l'età avrà devastato questa generazione,
Ancora tu ci sarai, eterna, tra nuovi dolori
Non più nostri, amica all'uomo, cui dirai
"Bellezza è verità, verità bellezza," − questo solo
Sulla terra sapete, ed è quanto basta.
(John Keats)

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