“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Tuesday, 10 March 2015 00:00

L'adulta bambina

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Una bambina appare in piena luce, presto si ritrova in un ambiente straniero, indaga e scopre che questo ambiente è la scuola e che, la scuola, in realtà è un inferno. Unico appiglio – sorta di momentaneo conforto sentimentale – è un bambino, che sembra anch’egli disegnare la scuola medesima come la fanciulla la vede: fiamme demoniache e terribili demoni ovunque. Piuttosto “è un incendio e questi sono pompieri”. La disillusione, la sofferenza, l’apparenza di un trauma che non passa.

Ma davvero L’inferno e la fanciulla ha per argomento il primo dolore che si prova?

A me sembra che – testo e spettacolo – non raccontino l’infanzia ma una condizione infantile: il punto di partenza per ragionare sulla drammaturgia scritta da Mariano Dammacco e Serena Balivo, e interpretata da quest’ultima, credo sia questo. Non si tratta, cioè, della messinscena di un trauma da scuola elementare ma usa la scuola elementare come ambiente metaforico; non appartiene realisticamente ai primi anni di vita ma utilizza allusivamente questi primi anni di vita per dire dell’età adulta; non narra di una bambina che non riuscirà a diventare donna quanto di una donna che non riesce a smettere di essere una bambina.
“Che il mio viaggio abbia inizio” dice Serena Balivo, guardando il pubblico, e lo dice simulando un falsissimo inglese di scena, british-macaronico buono per una rappresentazione quasi comica, simulando il suo viaggio negli inferi scolastici: passi ostentati, una macchinetta fotografica rivolta alla platea, dalla cartella celeste una pipa, giocando a simulare Alfred Hitchcock. Basta questo breve frammento per comprendere che ciò a cui assistiamo è la dichiarata teatralizzazione di una condizione d’infantilismo che viene narrata, simulata e tradotta da una mente adulta, pienamente consapevole della propria crescita incompleta, parziale, non realizzata davvero. Cerco conferme e le trovo nei cambi di luce, col passaggio dai fari laterali a una piena illuminazione verde e frontale, che determina anche il cambio di lingua (italiano corretto, detto a voce adulta): la pseudo-bimba (gonna a campana e calze lunghe bianche, camicia blu decorata, scarpe “con i buchetti”) riflette e analizza la propria situazione presente, che è quella di chi è costretta o non sa evitare di dirsi “fanciulla per l’eternità”, chiamare “mamma” un cadavere, “chiedere il permesso” pur non avendo più voglia o il bisogno di chiederlo, attendere una “festa di diciotto anni” che non verrà (ovvero, fuor di traduzione: la maturazione e l’autonomia che non riesce a raggiungere).
Dobbiamo interpretarlo, quindi, come la coniugazione minorata di una problematicità adulta questo monologo giacché non propone davvero il punto di vista di una bimba ma quello di chi non riesce ad affrancarsi – nonostante l’età, le fattezze, le competenze, le potenzialità – da una subordinazione emotiva che la condiziona, la blocca, la immobilizza e la rende incapace di affermarsi pienamente. Così il racconto della prima delusione amorosa (un bambino con cui crede di condividere la stessa visione del mondo) rappresenta l’assunta coscienza del Male mentre l’esistenza spaventevole di un dirigente scolastico – “alto, grasso e forte” – rappresenta l’irruzione del reale nella sua fantasia autoprotettiva. Insomma: abbiamo a che fare con una persona rintanata nel proprio mondo, incapace di prendere contatto con il reale da quando – il reale – si è mostrato per ciò che è; questa persona lotta con i propri stessi spettri non per sconfiggerli ma per acquietarli, li blandisce, li placa, li calma ottenendo così un rinvio della resa dei conti: il momento – inevitabilmente terribile – nel quale si comprende che la vita che ci aspettavamo di vivere non è la vita che stiamo vivendo davvero.

Il merito di Dammacco e della Balivo non risiede nella scelta di trattare un tema anagrafico e sovraindividuale (si pensi alla fantasia dell’”ascensore sociale” per fuggire dall’inferno, per il cui utilizzo occorre attendere che “gli operai lo sblocchino”) giacché la difficoltà d’affermazione di sé come figure autonome e la piena responsabilizzazione (sociale, civile, politica, lavorativa) di un’intera generazione è ormai materia frequente nella drammaturgia contemporanea; piuttosto questo merito mi sembra risieda nel trattarlo trasfigurandolo scenicamente e rifiutando quindi il ricalco realista, lo sconforto esplicito o la rivendicazione diretta e rancorosa.
Dammacco e Balivo agiscono fondendo gli archetipi della favola all’epicità teatrale generando uno spettacolo in cui, il personaggio, costantemente si riferisce al suo pubblico esponendo e commentando se stesso. Ne viene un’esposizione d’artifici o, per citare una battuta del testo, “una grottesca galleria di caricature” motorie, gestuali, verbali e argomentative: dal finto galoppo al volo con l’ombrello; dall'uso della mano destra per indicare il successivo movimento da compiere alla domanda/risposta autoreferenziale (“Siamo felici? No, ma ci siamo quasi”); dal tremito, eseguito sul posto, al rotolo di carta igienica, che diventa una bandiera bianca; dalla creazione delle ombre attraverso l’accorto contrasto tra fari e figura allo smascheramento dell’attrezzeria, buona appunto per una scena teatrale: “Vede, questa è una spadina di legno”.
A ciò si aggiungano la regressione anagrammatica del linguaggio (“Tutto questo bambino è completamente bellissimo”) e l’invenzione di spazi immaginari e salvifici attraverso il 'facciamo che io ero', che è formula cara ai bambini e agli attori (“Facciamo che questa cosa qui è un perimetro e facciamo che dentro il perimetro è una repubblica, una repubblica tutta mia: io indico la repubblica della fanciulla, qui dentro nessuno può entrare”) e si unisca tutto ciò alla formalizzazione di una trama plausibile (lei, il compagno di classe, un disegno, la respingente interpretazione del disegno) perché si generi – in chi assiste – un parziale coinvolgimento emotivo, una commozione divertita, una tenerezza momentanea. Si tratta di una reazione cercata e ottenuta perché questo stesso pubblico venga gelato dagli improvvisi frammenti d’amarezza: “In fondo l’inferno non ha mai ammazzato nessuno. Mi affatica, piuttosto, quest’anima”; “Spesso mi chiedo se non fosse stato meglio nascere diavolo e non essere me”; “Stiamo all’inferno con una dignità inimmaginabile”. In questo contrasto – appena descritto – tra ciò che intenerisce o fa sorridere e ciò che ci rende invece testimoni di una sofferenza intima ecco il valore effettivo del lavoro svolto, capace d’incidere sui livelli d’intensità inducendo lo spettatore ad affezionarsi a una creatura e alla sua favola, salvo poi accorgersi – lo stesso spettatore – che non si tratta di una creatura e che la favola in realtà è un dramma.

Complessivamente si tratta di un buon monologo, dunque, con solo qualche momento di lentezza che si presenta ogni tanto. Colpisce l’apparente semplicità visiva, la voluta pochezza dei mezzi materiali impiegati (qualche faro e pochi oggetti: quasi un rimando anche a una teatralità contemporanea impossibilitata, oramai, a fare spettacolo con la ricchezza strumentale di chi l’ha preceduta) e colpisce l’abilità della Balivo, brava nel tessere la sua presenza attoriale legando pantomima e testimonianza, clownerie e confessione, allegoria e tristezza.
Alla fine gli applausi sono dunque meritati.

 

 

 

 

 

L’inferno e la fanciulla
ideazione e drammaturgia Mariano Dammacco, Serena Balivo
regia Mariano Dammacco
con Serena Balivo
foto di scena Mara Lombardi
produzione Piccola Compagnia Dammacco
con il sostegno di Cantiere Campsirago/Residenza Campsirago
lingua italiano
durata 50’
Napoli, Start Teatro – Interno5, 6 marzo 2015
in scena 6 e 7 marzo 2015

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