“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Wednesday, 04 February 2015 00:00

Sull'Odissea di Emma Dante

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Del mito omerico Emma Dante coglie: la falsificazione progressiva della sua narrazione; lo sbilanciamento tra i due personaggi (“Io senza di lui esisto, lui senza di me non è niente” dice Nessuno); l’inesistenza di fonti certe e coincidenti; coglie la complementarità linguistica nata dalla trasmissione – di paese in paese – della stessa vicenda, l’oscurità esegetica (“Questo è buio pesto”), la permanenza memoriale nei millenni e il processo di evocazione creativa, per cui la parola genera carne.

 

Eppure, ogni elemento appena rilevato, mi sembra coniugabile anche in senso (meta)teatrale. Ed ecco perciò: la storia formata da storie, da equivoci, da prospettive non coincidenti; i mascheramenti lessicali; la rivendicazione dell’atto di recita; ecco il citazionismo in ribalta, al cospetto del pubblico; il dialetto inteso come convenzione teatrale; la replicabilità scenica che eterna il passato in presente; la negazione del vedersi anche se ci si vede chiaramente e l’entrata in assito per mezzo di frammenti letti o ricordati.
È sulla base di questo dato – per cui il contenuto apparente diventa forma effettiva – che ragiono e, ragionando, ora scrivo. La domanda iniziale: di che parla davvero Io, Nessuno e Polifemo? La mia risposta: del modo in cui Emma Dante fa teatro.

Parto dall’ultima immagine. Emma Dante, Salvatore D’Onofrio (Polifemo) e Carmine Maringola (Nessuno) danno le spalle al pubblico, guardando il fondo. Qui si alza un contro-sipario, fino a questo momento tenuto a mezz’altezza. Dai lati sorgono sei drappi (tre per lato), che sono quinte. Sorge un edificio teatrale, in contrasto e rispecchiamento all’edificio teatrale in cui sono; sorge un edificio teatrale di cui il contro-sipario levatosi serve a fare da soglia, da limite, da prospettiva potenziale. Se ciò è plausibile allora è plausibile anche ritenere che Io, Nessuno e Polifemo sia ciò che precede il teatro che non vedremo. Ossia: abbiamo assistito a ciò che alimenta, nutre, determina una recita a cui non possiamo prendere parte e il cui inizio coincide con il termine di quel che abbiamo appena veduto.
Per questo: Io, Nessuno e Polifemo parla del momento in cui Emma Dante arriva dalla platea vuota e mette piede su un palco spoglio; parla dei provini che svolge; parla di quando fa sorgere una visione, la prova e riprova, prima di farla svanire. Andando a ritroso in quel che non è ancora teatro ma potrebbe pur esserlo, Io, Nessuno e Polifemo parla di quando Emma Dante si lascia suggestionare da un tema o da un’immagine; di quando si avvicina e comincia a scrutare, interrogare, approfondire questo tema o quest’immagine, facendo domande, cercando risposte. Parla della relazione con il mito, posto alla base di un suo lavoro possibile – Io, Nessuno e Polifemo – e parla dei giorni e dei mesi in cui questo mito è sottoposto a studio, interesse, indiscreta insistenza perché ne ricavi conoscenza e un dettaglio ulteriore – mai notato da alcuno – e che diventa il punto di partenza per il lavoro che dovrà compiere.
Definirei quindi Io, Nessuno e Polifemo in questo modo: è la messa-in-teatro del modo in cui nasce il teatro di Emma Dante; ne è la confessione esplicita anche se parziale; ne è la condivisione sincera, anche se figurata.

Volendo posso intrattenermi e intrattenervi sulla concezione di Polifemo e di Nessuno che Emma Dante esplicita in palco. Chi è il suo Polifemo? Risposta duplice. C’è il Polifemo immenso, il gigante senza leggi, senza moglie, che non conosce il fuoco per cuocere il cibo, c’è il Polifemo che rutta, che sbatte a terra i compagni di Nessuno, che gli sprizza il cervello e li divora: membro a membro, non lasciando interiora né ossa. Ma c’è anche il Polifemo pastorale, che tiene in ordine i greggi, che ha costruito un recinto con massi, tronchi di pino e di quercia; il Polifemo che ha i graticci carichi di formaggio, che munge le capre e le pecore, che raccoglie metà del latte nei canestri intrecciati e metà nei vasi di coccio, che parla amorevolmente al montone. Emma Dante ne coglie cioè l’ambivalenza, per cui chiarisce che il mostro mostruoso è una vittima cruenta, un carnefice di risposta.
Posso intrattenermi e intrattenervi ulteriormente su Nessuno. Stessa domanda: chi è, per Emma Dante? Il grande navigatore, il cittadino e l’avventuriero qui è un attore e – come tale – è un ipocrita, un guascone, un servitore della facezia, un dispensatore d’inganni, un tessitore d’improvvisazioni salvifiche, un accomodatore di trame: “Senza i miei imbrogli molte situazioni non si risolvevano e la storia non andava avanti”. Non solo. Essendo un attore è un egocentrico, insaziabile di fama, di riconoscimenti e trionfi tant’è che Nessuno non riesce a rimanere Nessuno – nell’Odissea – perché ripudia l’anonimato che Omero gli impone, ripudia cioè il ruolo che il cantore/regista gli assegna e a cui pone termine nel momento in cui lo spettacolo dell’isola è giunto alla fine: urlando il suo vero nome reclama i suoi meriti, così come un attore reclama il riconoscimento dell'interpretazione quand’è il momento degli inchini: “Voi mi potete capire, sarebbe come chiedere ad uno dei vostri attori di non togliersi la maschera agli applausi. Quello è il punto debole. Gli attori alla paga possono rinunciare ma all’applauso no. Mai”.
Ma davvero è questo ciò che conta? Davvero occorre svolgere un’analisi da attento grecista, confrontando le intuizioni di Emma Dante con le infinite lezioni esegetiche che riguardano l’Odissea, Ulisse e il Ciclope? Da questo impegno che non mi sembra necessario mi distraggono – fortunatamente – le battute di Io, Nessuno e Polifemo, riportandomi su quella che mi sembra la retta via o, almeno, sulla via che ho scelto di percorrere con questo articolo. Ribadisco: Emma Dante parla di sé e del suo teatro in Io, Nessuno e Polifemo tanto che viene da scrivere che la duplice Intervista impossibile fatta al gigante e all’eroe è in realtà un’autointervista che rilascia stazionando tra luci piene, in completo blu, mantenendo il suo nome. Emma Dante parla di sé quando afferma “Io lavoro con le persone, non mi interessano le capacità tecniche di un attore”; quando ribadisce “Io non faccio spettacoli, faccio teatro”; quando cita Carmelo Bene, troppo prossimo perché sia esplicitamente inteatrato su scena (“È un morto fresco, non si è ancora abituato all’eterno”) ma utile a dirsi e a dire del senso di rifiuto che prova per la "fiera delle vanità" e la "mera confezione" di uno spettacolo.
Emma Dante parla di sé quando dice di sentirsi nel mezzo di Natale in casa Cupiello; quando provoca la battuta di Polifemo (“Ma a vuliti fernì di eccitarvi con gli avanzi del folklore”); quando ribatte affermando “I trucchetti d’attore li riconosco subito, io; la tua maschera semantica con me non funziona”.
Emma Dante parla di sé quando in risposta a un articolo di Franco Cordelli ribadisce a piena voce l’amore per i dialetti, lingue democratiche, espressioni naturali ma anche strumento utile per liberare l’attore “dalla convenzione di una dizione corretta”: “tempo fa un critico scrisse che…”.

La struttura circolare, che s'apre e si chiude con una canzone d'amore. Il prologo danzato, che avviene a luci piene in platea. I passi nel corridoio centrale, che Emma Dante compie per raggiungere il palco. Ancora.
Il foglio con il testo omerico tramutato in una barchetta di carta (rappresentazione gestuale del viaggio che viene intrapreso e del testo stesso come strumento per viaggiare). L’apparizione di Polifemo attraverso la lettura del libro nono dell’Odissea e quella di Nessuno narrandone la vicenda dell’inganno. La domande retoriche – “È permesso?”, “Posso entrare?” – che servono a marcare la scelta del mito e a iniziare l'avvicinamento allo stesso. La fiera proclamazione d’intenti: “Io faccio teatro”. Il momento nel quale ribadisce che tutto ciò che accade e si vede dipende dal suo volere: “È grazie a me che tu appari, sono io che ti ho invocato, che ti riscrivo, che ti studio”. L’induzione di una scena, la citazione d'altre opere e d'altri nomi (da Eduardo a Scaldati), il recupero delle fonti (“Credete a Enea, signor Polifemo”) e la scoperta dell’inattendibilità di queste stesse fonti (“Non siete siciliano?”, “No”).
L’imposizione del palermitano in luogo del napoletano (il dominio della regista rispetto al soggetto di cui si sta occupando: "Ridatemi 'u mè dialetto") ed il suo uso improvviso, involontario, confuso, da parte del personaggio: "Ma quannu mai?". La visione di un lacerto teatrale – l’abbraccio di Penelope a Nessuno, in ribalta, mentre la tela avanza e retrocede da/verso il fondo – che viene ripetuto più volte e che sembra alludere al momento in cui un autore o un regista mette alla prova un'immagine. La scoperta della “pietruzza”, del “ritornello”, del “detto”, insomma di “un qualcosa che gli altri non sanno e che possa testimoniare il mio viaggio” perché segni l’inizio del processo creativo. La risposta di Nessuno e Polifemo che – dopo aver contrastato su ogni aspetto della storia che li riguarda – uniscono le voci per dettare la ricetta del “Capretto caso e ova” (segno della certezza acquisita da Emma Dante).
La verticalità della postazione da cui piove la musica di Serena Ganci, che discende come i fili del puparo coi pupi e che determina il marionettismo delle tre ballerine. La richiesta impossibile di verità: “Avite a essere precisa nei dettagli, se no 'sta storia rimane occulta”. La metafora della caverna per alludere al mito, traversato e visitato come capita di fare con un luogo. Queste ed altre ragioni mi portano a terminare la recensione affermando che Io, Nessuno e Polifemo è un’opera importante.

È importante come punto di passaggio, come sosta riflessiva, come esposizione d’un laboratorio cranico, di pensiero e di fatica artistica. È importante se messo in relazione con il teatro di Emma Dante già avvenuto e con quello che verrà, perché ne mostra alcune radici, qualche ramificazione, certi tormenti. È importante perché condivide e certifica ciò che era soltanto intuibile; perché è un’offerta di metodo; perché permette – a chi osserva dalla poltrona – di comprendere parte di ciò che anticipa e determina quel che vediamo la sera della “prima”.
È importante perché espone il momento della curiosità e della scelta di un personaggio, di una vicenda, di una pagina; il modo in cui avviene il primo approccio, in cui iniziano i dialoghi con il testo preesistente e con le figure che vi appartengono; la maniera nella quale Emma Dante forma la propria conoscenza critica, alternando vicinanze e distacchi, corteggiamenti e repulsioni, facilità di confronto ed asprezze.
È importante perché mostra la friabilità degli abbagli, delle intuizioni sbagliate, delle petizioni di principio che svaporano col passare del tempo, con l’intensificarsi della fatica, con l’approssimarsi dell’esordio. È importante perché dichiara lo spazio teatrale, ad un tempo, come luogo d'azione indipendente e come recinto-galera, nel quale manca l'aria e si soffoca; perché – di ciò che sembra – rappresenta il retro e dunque, paradossalmente, la sua parte più vera. È importante perché è gioco dichiarato e libretto d'istruzioni del gioco stesso e perché − infine − il modo nel quale Emma Dante avvicina il mito d'Omero consente a chi assiste a Io, Nessuno e Polifemo di avvicinare Emma Dante.
Così mi pare, attendendo l'apertura del prossimo sipario.

 

 

 

 

 

Io, Nessuno e Polifemo. Intervista impossibile
testo e regia Emma Dante
con Emma Dante, Salvatore D'Onofrio, Carmine Maringola, Federica Aloisio, Giusi Vicari, Viola Carinci
musiche eseguite dal vivo da Serena Ganci
costumi Emma Dante
scene Carmine Maringola
luci Cristian Zucaro
coreografie Sandro Maria Campagna
assistente alla regia Daniela Gusmano
foto di scena Nino Annaloro
produzione Teatro Biondo-Stabile di Palermo
in collaborazione con 67° Ciclo Spettacoli Classici al Teatro Olimpico di Vicenza
lingua italiano, dialetto napoletano, dialetto palermitano
durata 1h 10'
Napoli, Teatro Bellini, 3 febbraio 2015
in scena dal 3 all'8 febbraio 2015

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