“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Sunday, 25 January 2015 00:00

"Scannasurice": un requiem sempre attuale

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Scannasurice, è un testo di Enzo Moscato scritto negli anni '80, agli esordi della sua carriera di drammaturgo. In quest'opera, lo sguardo potente e affilato possiede già quello 'zoom' regolabile capace, allo stesso tempo, di avvicinarsi dolorosamente e allontanarsi in un commosso distacco da un'umanità ferita a morte, che si dibatte per non perire.

Negli ipogei dei bassifondi napoletani Moscato discende per scritturare i protagonisti del suo teatro, soggetti ambigui nel sesso, nell'età ma sopratutto nell'anima: sull'assito moscatiano niente è come sembra. Sono loro le prime vittime di una società agonizzante, le membra di un animale morente che si autofagocita gli arti incancreniti prima di soccombere, del tutto, a una necrosi inarrestabile.
All'interno di un alveare di cemento dove tutto ha ceduto, tranne l'anima scabra dello scheletro di un caseggiato popolare, emerge una sinuosa figura femminile dalle gambe lisce e interminabili e i seni prorompenti, malcelati da una canottiera bianca tipicamente maschile. È una donna, non ci sono dubbi, ma lo sguardo scivola e non può fare a meno di notare che le mutande, anch'esse maschili, hanno pieghe e rigonfiamenti che alludono a un qualcosa in eccesso che si trova 'fuori luogo'. È l'unico abitante umano di un palazzo sventrato dal terremoto nel quale si aggira, tra un piano e l'altro, con agilità felina. I topi, i surice, sono i coinquilini invisibili ma onnipresenti nella realtà e nella sua rappresentazione onirica. Invadono i suoi spazi vitali, sono i nemici giurati e i fedeli protagonisti di incubi e deliri. Per loro prova disprezzo e repulsione, un sentimento che conosce bene dato che lei/lui stessa/o − che vive quei luoghi e abita la medesima oscurità dei ratti − suscita lo stesso sentire nella gente 'normale': quella dei quartieri buoni, dove si affaccia il sole.
Storie e racconti di una Napoli dell''es-tradizione', tagliata fuori dalle cartoline per i turisti, dove per entrarci bisogna sapersi muovere nei cunicoli della disperazione, lì dove la luce non arriva mai a dare consolazione o speranza e i giorni si distinguono a fatica dalle notti. Scenari apocalittici, dove le leggende accompagnano la storia nei suoi momenti più tristi, evocando luoghi dove i morti del passato attendono nuova e copiosa compagnia. Luoghi da surice, ma dove i surice vivono molto meglio degli esseri umani, poiché non conoscono la solitudine: loro sì che sanno essere una razza unita e compatta.
Da un'edicola votiva appare di tanto in tanto una madonna di luce elettrica illuminata che, in uno stato di rassegnata prostrazione, non eccelle in santità nell'illustrare le 'vie della salvezza'. Soluzioni salvifiche per una città satura di derelitti e di topi, formule chimiche per una perfetta diluizione del curaro, gocce miracolose con cui irrorare la città, da dosare bene, che dosi insufficienti possono togliere la vista, l'udito e tutto ciò che ha a che fare con una corporalità, ma non hanno effetto sull'anima degli stolti che fino alla fine continuano a cercare il sole. Santi consigli per un impeccabile sterminio di massa.
La prosa − rappresentazione vocale dell'ambiguità esteriore e interiore della protagonista − alterna momenti di facile accessibilità ad altri di criptica raffinatezza, simula limitatezza di mezzi gergali sforzandosi di epurare il suo linguaggio dagli eccessi vernacolari, cercando parole accessibili allo spettatore e grammaticalmente corrette ma, nel fluire della narrazione, questa stessa prosa, presa dall'urgenza di una sofferenza da rappresentare, diventa corriva nell'inseguimento dei pensieri un attimo prima che svaniscano ed è in questo delirio di comunicazione e condivisione che la poetica di Moscato si dipana, senza preavviso, toccando le altezze musicali della lirica.
Uno spettacolo di sconcertante attualità, interpretato magnificamente da Imma Villa che ha saputo resistere alla facile tentazione di ricorrere a caricature bozzettistiche per dare più 'credibilità' al suo ruolo di travestito. Evitando di esasperare inutilmente la sua naturale femminilità, l'attrice ha restituito tutta la verità di un testo per nulla facile da interpretare.
Un finale duro, che non concede alcuna catarsi ed offre, invece, come avvisa Moscato, "la lucida e irrimediabile visione del massacro, dell'eccidio, lo sterminio, non tanto di persone o cose, quanto di idee, emozioni, sentimenti, che tra alti e bassi, per tanti secoli, aveva costituito […] il 'modus agendi e cogitandi' del popolo e della città di Napoli".
Un requiem per un popolo che tante volte ha trovato la forza di rialzarsi, e che grazie alla filosofia del 'chi sta meglio di me?', ha potuto affrontare piaghe di biblica entità, ma che ultimamente non si sente più troppo bene e che ha pure perso tutto il 'genio' di cantare, dato che gli è stato tolto ogni diritto di chiedersi: "chi sta meglio di me?".

 

 

 

 

Scannasurice
di
Enzo Moscato
regia Carlo Cerciello
aiuto regia Aniello Mallardo
con Imma Villa
assistenti regia Jack Hakim, Tonia Prisco
scene Roberto Crea
musiche originali Paolo Coletta
costumi Daniela Ciancio
direttore tecnico Marco Perrella
foto di scena Andrea Falasconi
lingua italiano, dialetto napoletano
durata 1h 10'
Napoli, Teatro Elicantropo, 23 gennaio 2015
in scena dal 22 gennaio al 22 febbraio 2015

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