“La vita come deve si perpetua, dirama in mille rivoli. La madre spezza il pane tra i piccoli, alimenta il fuoco; la giornata scorre piena o uggiosa, arriva un forestiero, parte, cade neve, rischiara o un’acquerugiola di fine inverno soffoca le tinte, impregna scarpe e abiti, fa notte. È poco, d’altro non vi sono segni”

Mario Luzi

Friday, 21 November 2014 00:00

Futuro remoto presente

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La scenografia di Arancia meccanica non c’è perché il palco è una scatola nera dove la scena è dipinta da fasci di luce bianchissima, tridimensionalizzata dalla musica quasi sempre presente e chiaroscurata dalla gestualità, dagli abiti e dai pannelli scorrevoli come altri elementi di scena. In questo modo l’attenzione è tutta rivolta all’analisi dei personaggi completamente calati in un quotidiano fatto di slang linguistico chiamato Nadsat, di violenza allo stato puro che decontestualizza l’asse temporale della vicenda, ambientata in un futuro ormai divenuto presente.

La storia di Alex, capo carismatico dei Drughi (il drugo è l’amico in Nadsat) è raccontata attraverso scene che iniziano e terminano nel buio, come un lungo percorso onirico che in flashback rievoca in prima persona l’antefatto che ha portato il protagonista a diventare oggetto di un esperimento scientifico. Filo rosso è la musica di Beethoven che esalta il protagonista. La prima scena mostra, appunto, Alex seduto al centro della scena in una sorta di camicia di forza con la testa coperta di elettrodi legati a lunghissimi cavi che pendono dal soffitto, circondato da altre persone vestite di bianco.
Buio. Seconda scena. Ecco Alex e i suoi due drughi, Dim e Georgie, in abiti impersonali come giacca e cravatta scura, camicia bianca, ma con indosso una curiosa stola di pelliccia imbracata sul dorso. Il particolare rimanda a quell’istinto animale di questi giovani guidati e votati alla filosofia dell’ultraviolenza dell’Homo homini lupus di Hobbes.
Buio. Altra scena. Inizia il percorso di crescente violenza dal pestaggio di un barbone, allo stupro fino all’omicidio di un’anziana donna. Il tutto corroborato da soste nel “Korova Milk Bar” dove le anfetamine si mescolano a droghe sintetiche più disparate veicolate dal Moloko, il latte.
Suggestiva e fortemente evocativa è la scena che vede queste enormi gocce di latte che pendono dall’alto e i tre drughi che le assimilano per endovena. Così tra un buio e l’altro, tra un fascio di luce bianchissima che squarcia l’oscurità circostante più metaforica che reale, lo spettatore viene a sapere che Alex è seguito da una sorta di servizio sociale, che il giovane entra ed esce dal riformatorio, ma anche che l’attenzione di tali servizi, rappresentati dal dottor Deltoid, è solo funzionale al proprio egoismo e alla smania di fare carriera. “Non c’è più legge morale che tenga” pronuncia Alex con la sua vocina in falsetto melliflua in uno dei suoi deliri che, nella sua lucidità, mostra una profonda verità. Tradito dai suoi drughi, Alex è processato e, messo in prigione, si sottopone a questo progetto 'Ludovico' curato dal Ministro dell’Interno, personaggio non dissimile dal dottor Deltoid, che mira ad annullare le reazioni violente degli individui inducendo, come riflesso condizionato ad istinti aggressivi, spasmi violenti e vomito. Sembra paradossale che in quel mondo senza Dio l’unico che si ponga domande sul senso della parola “scelta” e “libertà” sia il cappellano del carcere, salvo poi adeguarsi alla linea comune. Privato del libero arbitrio, Alex ritorna alla sua vita, ma la sua famiglia, composta da una madre sciocca ed un padre debole, lo rifiuta preferendogli un ospite pagante al suo posto. I suoi amici drughi sono diventati tutori dell’ordine rimanendo intrisi della stessa cieca violenza e non esitano a vendicarsi del pestaggio subito quando lui era il capo. Unica nota di colore in questo mondo fatto di ombre e di luce è il giallo dell’abito del ministro e degli officianti dell’esperimento, giallo latore di sprazzi vitali, ma inseriti in un vero e proprio mondo meccanico controllato come gli ingranaggi di un orologio. L’esperimento, che mostra uno dei tanti innumerevoli tentativi fatti da vari governi, totalitari e non, di controllare le coscienze trasformando tutti in elementi condizionabili, viene strumentalizzato dagli oppositori politici ed Alex viene, perciò, sottoposto all’operazione inversa, ritornando alla sua vita a ripetere all’infinito la sua violenza, questa volta protetto e controllato da uno Stato incapace di gestirla. La Scienza, che si illude di rendere il mondo "il migliore dei mondi possibili” come si illudeva il filosofo Leibnitz, è fallimentare alla stessa stregua della Politica. Alex, portato in alto come un angelo diabolico, finisce la sua parabola simbolica nella discesa improvvisa di un se stesso smembrato in più parti. Questa volta buio finale e sipario.
Lo spettacolo in conclusione è ben confezionato e congegnato come una vera Clockwork orange, arancia ad orologeria come nel titolo del libro del 1962 di Antony Burgess che poi ne curò anche la versione teatrale a cui ha attinto l’ottima regia di Gabriele Russo. Originale la scelta della gestualità alla moviola nella scena dello stupro avvenuto nella villa dello scrittore, una scatola dove la realtà è vista sottosopra come nella mente di Alex, in cui la lentezza dei movimenti prolunga uno strazio che punta alla compassione per le vittime e a sottolineare la follia che domina in quelle menti, cioè nei loro Gulliver. Altrettanto suggestiva è la scena del pestaggio di Alex ai suoi due drughi che avviene con le stesse modalità, lente e calcolate, suggellate dalla proiezione delle ombre dei lottatori sulle quinte opposte. Altre idee come i pannelli che calano dall’alto come ghigliottine, i quadri specchio, lo stesso gioco di scatole-ambienti, la quarta parete trasparente con oggetti di arredamento sopra disegnati a descrivere la casa della famiglia di Alex, invece, non denotano nulla di originale nella messa in scena. In ogni caso l’ottima prova fornita da tutti gli attori, Daniele Russo in testa, rende sorvolabili echi e déjà-vu che si mostrano funzionali alla lettura della pièce. Ottime le musiche di Morgan.
Una nota di demerito va al pubblico. Nonostante si sappia ormai che, a teatro, deve vigere un silenzio tombale e che i cellulari vanno spenti, ci sono ancora troppe persone che pensano di poter transigere e lasciano squillare suonerie, fanno cadere il telefono a terra e si mettono a cercarlo, guardano l’ora accendendo lo schermo.  Quello che ha fatto più rabbrividire, però, non è tanto la maleducazione quanto il fatto che dopo le scene di maggior violenza, come quella dello stupro, il pubblico ha applaudito come se si trovasse al teatrino parrocchiale o popolare e sottolineasse un gradimento di non si capisce bene cosa.
Viene da pensare: ma il paranoico era davvero Alex?

 

 

 

 

 

 

Arancia meccanica
di Antony Burgess
regia Gabriele Russo
musiche Morgan
con Alfredo Angelici, Martina Galletta, Sebastiano Gavasso, Giulio Federico Janni, Alessio Piazza, Daniele Russo, Paola Sambo
scenografia Roberto Crea
costumista Chiara Aversano
disegno luci Salvatore Palladino
produzione Teatro Bellini, Teatro Stabile di Napoli
durata 1h 40’
Napoli, Teatro Bellini, 18 novembre 2014
in scena dal 18 al 30 novembre 2014

 

 

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